Il Sigillo della wilayat mohammadiana e il suo Occultamento (H.Corbin)

Il Sigillo della walâyat mohammadiana e il suo Occultamento*

H.Corbin

Il tempo dell’«Occultamento minore» cominciò dunque poco dopo il momento in cui l’ XI Imam, Hasan ‘Askarî, rese l’ultimo respiro. L’Imam bambino scomparve nella propria dimora, quella che ereditava da suo padre e dove quegli era appena morto, a Samarra.

Scomparve nel sotterraneo di quella casa, dove si arrivava scendendo una scala di numerosi gradini. Sembra che ci sia proposta qui una Immagine-archetipo. Quel sotterraneo era un luogo di cui l’Imam bambino e suo padre avevano fatto il loro oratorio; avevano l’usanza di ritirarvisi per abbandonarsi alle loro meditazioni e alle loro devozioni, anche per sfuggire agli importuni, in particolar modo alla curiosità degli agenti del califfato abbaside. È facile calcolare che al momento della sua scomparsa il piccolo Imam aveva l’età di cinque anni (benché alcune tradizioni diano una cifra leggermente più elevata).

Durante i circa settant’anni che durerà l’«Occultamento minore», l’Imam sarà invisibile non solamente agli uomini comuni ma ai suoi adepti; con questi ultimi però, comunicherà per l’intermediazione di quattro nâ’ib o wakîl, delegati o mandatari, che si succederanno gli uni agli altri. I loro nomi e le loro persone sono conosciuti in dettaglio nei libri sciiti. Ci fu dapprincipio ‘Othmân ibn Sa’îd, che era stato già il segretario e l’uomo di fiducia del X e dell’ XI Imam. Suo figlio Abû Ja’far gli succedette. Poi si ebbe Abû’l-Qâsim Hosayn ibn Rûh Nawbakhtî[1]; infine Abû’l-Hasan ‘Alî al-Samarrî. Per loro intermediazione un certo numero di personalità sciite, i cui nomi sono ugualmente conosciuti dalla tradizione, furono condotti in presenza del XII Imam[2]. Al di fuori di questi casi, l’Imam non si manifestò che in maniera sporadica, per esempio in occasione dei funerali di suo padre e dell’attribuzione dell’eredità, per mettere fine alle pretese abusive di suo zio Ja’far, il fratello dell’Imam Hasan ‘Askarî[3]. Oppure ci furono delle manifestazioni la cui modalità anticipa quelle del tempo dell’«Occultamento maggiore»; abbiamo sentito la venerabile Hakîma portarne testimonianza.

Al termine di questi circa settant’anni, intervenne la grande decisione che comportò l’«Occultamento maggiore», il quale dura ancora. Anche e soprattutto qui, non possiamo che produrre i documenti sciiti. Il grande teologo Ibn Bâbûyeh, cioè Shaykh Sadûq, la cui autorità è già stata invocata qui, riporta ciò di cui fu informato personalmente da un testimone coinvolto nei fatti, un certo Abû Mohammad Hasan ibn Moktib[4]. Costui si trovava a Baghdad l’anno stesso (329 / 940-41) in cui morì l’ultimo delegato dell’Imam nascosto, Abû’l-Hasan Samarrî. Era in visita a casa sua qualche giorno prima della sua morte, quando d’improvviso venne portato un messaggio sigillato, un messaggio che proveniva dall’Imam. Egli ebbe il permesso di farne una copia, ed ecco quale ne era il contenuto.

«Nel nome di Dio il Compassionevole, il Misericordioso. Che Dio manifesti ai tuoi fratelli la sua munificenza in compensazione della prova che sarà per loro la tua dipartita! Perché nell’intervallo di sei giorni tu incontrerai la morte. Metti dunque ordine nei tuoi affari. Non nominare alcun successore che prenda il tuo posto (come mio wakîl) dopo la tua morte, perché ora il tempo del Grande Occultamento è giunto. Non mi mostrerò più a nessuno, se non quando verrà il permesso divino. Ma ciò non avrà luogo che dopo il trascorrere di una lunga durata. I cuori diverranno inaccessibili alla pietà. La terra sarà riempita di tirannia e di violenza. Dai miei sciiti, si leveranno delle persone che pretenderanno di avermi visto materialmente. Attenzione! colui che pretenderà d’avermi materialmente visto prima degli eventi della fine[5], egli è un mentitore e un impostore. Non c’è soccorso e forza che in Dio l’Altissimo, il Sublime.»

L’informatore di Shaykh Sadûq completò il suo racconto dicendo: «Sei giorni dopo quella visita (nel corso della quale egli aveva trascritto il messaggio dell’Imam) mi recai di nuovo da Abû’l-Hasan ‘Alî al-Samarrî. Constatai che effettivamente la sua ultima ora si approssimava. Uno degli intimi che lo circondavano gli chiese: Chi sarà il tuo wasî dopo di te (cioè il tuo successore, il nuovo wakîl dell’Imam nascosto)? Egli rispose: Ora la faccenda non appartiene più che a Dio. Spetta a lui condurla fino al suo compimento. – Furono queste, soggiunge il testimone, le ultime parole che si udirono da lui.»

Ma adesso comincia la storia segreta del XII Imam, l’Imam nascosto. Cosa straordinaria, che contrasta al massimo con la nostra ossessione della «storicità materiale» dei fatti, senza la quale non possiamo concepire che ci siano dei «fatti reali», la figura del XII Imam passa attraverso la storia tanto leggermente quanto un raggio di luce attraverso una vetrata. E tuttavia essa domina tutta la coscienza religiosa sciita da più di dieci secoli; essa è la storia stessa di questa coscienza da più di dieci secoli che, nel segreto d’una devozione appassionata, lo sciismo vive in compagnia della misteriosa persona del XII Imam. Le ultime parole del suo ultimo messaggio hanno messo la coscienza sciita in guardia contro tutte le venture e le imposture, ed ecco perché ogni pretesa (ce ne sono state diverse) tendente a mettere fine alla sua attesa escatologica della parusia, è stata rigettata da essa, addirittura con violenza, come la più insopportabile delle bestemmie.

Qui dunque conviene avere presenti allo spirito tutti i tratti che caratterizzano la persona del XII Imam, tali quali abbiamo potuto rilevarli nel corso della presente opera. Bisogna innanzitutto pensare allo schema dell’imamologia sciita e della sua ierostoria: 1) Il ciclo della profezia e il ciclo della walâyat, ciclo dell’Imâmat o dell’iniziazione al senso spirituale delle rivelazioni divine. 2) L’idea del duplice Sigillo della walâyat: Sigillo della walâyat universale nella persona del I Imam, Sigillo della walâyat particolare mohammadiana nella persona del XII Imam. 3) La perfetta simmetria dei due cicli, ogni «Amico di Dio» nel ciclo della walâyat essendo verso il Sigillo di questa, cioè verso il XII Imam, nello stesso rapporto di ciascun nabî anteriore verso il Sigillo della profezia. 4) Le ragioni per le quali la walâyat corrisponde, posteriormente al Sigillo dei profeti, alla vocazione profetica semplice (quella del nabî non inviato) nei periodi anteriori del ciclo della profezia. 5) Le ragioni per le quali Haydar Âmolî si è opposto così fermamente a Ibn ‘Arabî sulla questione del duplice Sigillo della walâyat, ragioni per le quali l’opera di Haydar Âmolî ci è apparsa come un grande momento della «filosofia profetica».

In effetti, con la figura del XII Imam, abbiamo detto, lo sciismo ci suggerisce il suo segreto più profondo. Il tema corona l’edificio della teologia e della teosofia. Abbiamo già rilevato il tratto fondamentale per cui la teologia dei Dodici Imam ci ricorda le antiche teologia dell’Aiôn, ellenistica e zoroastriana. Questo tratto fondamentale è quello di una dodecade la cui plenitudine è fin d’ora data, ma la cui manifestazione finale è ancora da venire. Per undici dei suoi Imam, in effetti, il tempo della loro apparizione terrestre è compiuto. L’Imâmat duodecimano, sospeso così «tra i tempi», è dunque qualcosa d’altro da ciò che si dice «magistero dogmatico», e ci si sbaglierà a trasporre puramente e semplicemente qui la nozione occidentale di «religione d’autorità». Ma resta fermo che, da una parte, il loro insegnamento che dimora e che rivela i sensi segreti del Corano, è proprio la fonte che «fa autorità», e che, d’altra parte, le loro persone, allo stato celeste o metafisico, sono altrettanti poli della devozione sciita, poiché essi sono le Guide. Questa nozione culmina raggiungendo quella della Guida personale (infra III, 4), l’Imam che, sottratto alla visibilità di questo mondo, resta presente al cuore dei suoi adepti e la cui invisibilità soprannaturale li garantisce contro ogni socializzazione dello spirituale.

Senza dubbio i testi emozionanti che ci riferiscono l’agiografia del XII Imam, e con questa il segreto del suo duplice «occultamento», non sono affatto dei testi di competenza della critica storica nel senso ordinario di questa parola. Abbiamo anche insistito sulla via fenomenologia come la miglior via d’approccio per il ricercatore in scienze religiose. Ecco in effetti più di dieci secoli che il XII Imam vive d’una vita misteriosa in una regione «a cui nessun mortale può avvicinarsi», e di cui non si possono rilevare le coordinate sulle nostre carte. Là, egli è circondato di compagni velati per il nostro mondo sotto un medesimo incognito. Molteplici sono le testimonianze da cui risulta che egli stesso, talvolta, o qualcuno dei suoi, si manifestano ma in una maniera tale che non se ne prende generalmente coscienza che in seguito, e ciò non solamente a esseri eccezionali, ma a esseri semplici che un grande sconforto, per esempio, avrà strappato alle evidenze e quietudini della vita quotidiana. Per comprendere queste cose, bisogna, certo, disporre di una ontologia che faccia posto all’«ottavo clima»; una analisi che si accontentasse di parlare qui di fantasticherie, di immaginario o di delirio schizofrenico, farebbe da sé la confessione della sua impotenza e del suo scacco.

Poiché il tempo del XII Imam è «tra i tempi», gli Imam, suoi avi e predecessori, hanno vissuto in unione spirituale con lui, formando insieme i Dodici una stessa Essenza esemplificata o esistenziata in dodici persone.

Gli eventi della fine, le parole che pronuncerà il XII Imam, i gesti che compirà, le battaglie che sosterrà, tutto ciò, sono gli Imam suoi predecessori che ce lo comunicano, perché l’hanno essi stessi percepito grazie alla loro ierognosi, il cui caso è rigorosamente previsto dalla gnoseologia profetica. C’è anche un’espressione molto sorprendente che ricorre frequentemente in certi racconti delle loro visioni che anticipano l’escatologia: «Era come se mi fossi trovato davanti il Resuscitatore» (ka-innî bi-Qâ’im ahl baytî, letteralmente: era come se mi fossi trovato con quello dei membri della mia famiglia che sarà il resuscitatore, il Qâ’im), come se lo contemplassi. E ciò è ugualmente vero del Profeta quando, a più riprese, si è espresso sul soggetto dell’Imam a venire.

Il Profeta poté così parlare del giorno che Dio allungherebbe, se occorre, fino a che apparisse «colui che riempirà la Terra di pace e di giustizia, com’essa era stata riempita di violenza e di tirannia». Ora, per l’ermeneutica teosofica sciita, questo giorno che Dio allunga fino all’apparizione dell’Imam resuscitatore (qiyâm al-Qâ’im), è precisamente il tempo che i fedeli dell’Imam vivono presentemente, è il loro tempo esistenziale, tempo «tra i tempi», il tempo dell’occultamento dell’Imam, il tempo dell’Imam nascosto (denominato per questa ragione sâhib al-zamân, colui che domina questo tempo). Così come, ci spiega Haydar Âmolî, la profezia legislatrice ha avuto la sua alba con Adamo, il suo pieno mezzogiorno con Mohammad dopo il quale, ormai chiusa, si è occultata come il sole dopo il suo tramonto, ugualmente la walâyat, la «profezia esoterica» sorta all’inizio di quella notte, è cominciata con ‘Alî, il primo Imam; ha progredito di Imam in Imam, come la luna nelle tenebre della notte, fino a che l’aurora, levandosi con il dodicesimo e ultimo Imam, dissipa le tenebre di quella notte. È dunque questa notte che è esistenzialmente «il nostro tempo», il tempo «tra i tempi», come tempo dell’occultamento dell’Imam; ed è la notte dei simboli, la notte dell’esoterismo necessario.

Donde possiamo dire che ciò che ci suggerisce il segreto configurato nella persona del XII Imam, è il segreto di un’attesa escatologica che professava già il vecchio Iran zoroastriano, – un’attesa che, mentre ammette, certo, con l’insieme dell’Islam che la profezia legislatrice è chiusa, nondimeno attesta che qualcosa continui e che qualcosa resti da attendere. Abbiamo scoperto già nell’idea d’un nuovo ciclo che succede al ciclo della profezia, ciclo che è quello dell’iniziazione al senso spirituale nascosto delle rivelazioni divine e di cui i santi Imam sono i ministri, il rifiuto di immobilizzarsi in un momento del passato definitivamente chiuso. Non è affatto verso un avvenire indefinito che la coscienza sciita resta tesa, ma verso una escatologia che è la «fine del tempo». Ora, è questa tensione che implica lo sradicamento dell’interpretazione letterale, dell’immobilizzazione in un passato che il letteralismo mantiene chiuso su se stesso; e viceversa, non ci sarebbe questa tensione senza una gnosi, conoscenza o presentimento del senso esoterico, interiore e anagogico, delle rivelazioni divine. Questo senso esoterico, anagogico (cioè che porta in alto), che mantiene l’anima tesa in una suprema attesa, è precisamente il segreto dell’Imâmat, del pleroma dei Dodici. La parusia del XII Imam segna il compimento dell’Uomo integrale, l’Uomo perfetto (al-Insân al-kâmil); essa rivela ciò che, in altre gnosi, si chiama il mistero dell’Anthrôpos. Ed è ugualmente possibile dire che l’imamologia assume una funzione omologa a quella della cristologia in teosofia cristiana.

Ciò che si chiama altrove il Logos preesistente, è qui la Luce mohammadiana (Nûr mohammadî) o la Realtà profetica eterna (Haqîqat mohammadîya), creazione iniziale, per cui l’essere è messo eternamente all’imperativo: l’Esto (KN) della Volontà primordiale autocreatrice. Questa Luce presenta una doppia «dimensione» intelligibile: quella dell’essoterico manifestato nella profezia, e quella dell’esoterico, i dodici Veli in cui soggiorna la Luce profetica nel corso della sua discesa e dell’ascensione che la riconduce all’origine. Così si costituisce, con Colei che è la «madre di suo padre», il pleroma dei Quattordici Immacolati. Con il dodicesimo degli Imam, che è il quattordicesimo del pleroma, la crescita di questa Luce raggiunge la sua pienezza e si compie il mistero della sua intronizzazione. Bisogna domandarsi: cosa sarebbe successo, se l’Islam nel suo insieme avesse seguito l’insegnamento e le dottrine degli Imam dello sciismo? Quale volto avrebbe allora presentato l’Islam storico? Ma la questione posta così è forse quanto mai mal posta, dal momento che precisamente la realtà che chiamiamo «storica» nel senso ordinario della parola, non è che la scorza, l’apparenza ambigua di una ierostoria nascosta i cui eventi hanno la realtà e la perpetuità d’un mysterium liturgicum. E ci serve dire che tutte le spiegazioni sociali e politiche attraverso cui si è voluto spiegare lo sciismo al livello delle leggi della causalità storica, sono spiegazioni che passano lontano da ciò che fa l’essenza del pensiero e l’oggetto della coscienza sciita, poiché il tempo dell’Imâmat resta «tra i tempi». Non si tratta né di legittimismo politico né d’utopia sociale, ma di ciò che fa il segreto dell’Imâmat, il quale è cominciato all’alba dell’umanità con Seth figlio di Adamo, come primo Imam del primo profeta, e si compirà con la manifestazione, la parusia, dell’ultimo Imam dell’ultimo profeta. Si può allora comprendere tutto ciò che l’imamismo mobilita di fervore e di devozione appassionata nella persona del XII Imam che è, da dieci secoli, l’Imam nascosto, l’Imam atteso.

L’agiografia delineata qui sopra ci indica quando e come cominciò questo tempo dell’occultamento. Detto più esattamente, i teologi sciiti differenziano il tempo dell’occultamento in due periodi. Il primo comincia il giorno in cui l’XI Imam, l’Imam Hasan ‘Askarî, lascia questo mondo a Samarra, all’età di ventotto anni (260 / 873-74). Quel giorno, l’Imam-bambino, Mohammad al-Mahdî, che aveva ricevuto da suo padre l’investitura che fu l’ultimo atto da lui compiuto in questo mondo, scompare anche lui, come se l’Imam Hasan avesse portato con sé il figlio della sua anima. Questo primo periodo, detto dell’Occultamento minore (ghaybat soghrâ), doveva durare settanta anni lunari (fino al 329 / 940-41), nel corso dei quali l’Imam restò incognito per gli uomini comuni e non comunicò neppure con l’insieme dei suoi adepti se non per l’intermediazione dei quattro delegati successivi di cui abbiamo ricordato qui sopra i nomi; alcuni adepti, in piccolissimo numero, furono tuttavia condotti in presenza dell’Imam. Il secondo periodo comincia con la lettera indirizzata a ‘Alî al-Samarrî, di cui abbiamo qui sopra tradotto il testo; è il periodo del Grande Occultamento o dell’Occultamento maggiore (ghaybat kobrâ). Tuttavia, non più nel corso di questo periodo che nel corso del primo, l’Imam attraversò la soglia che separa irreversibilmente il nostro mondo dal mondo Al-di-là. L’Imam è in una situazione analoga a coloro che furono levati dal mondo visibile senza attraversare la soglia della morte: Enoch, Elia, Cristo stesso, secondo l’insegnamento del Corano. Ci si riferiva sopra al bodhisattva che rifiuta di entrare nel nirvana, prima che tutti gli esseri siano salvati. L’attesa escatologica che polarizza il XII Imam corrisponde anche, nel buddismo mahayanista, all’attesa di Maitreya, il Buddha futuro; all’attesa del Saoshyant, nello zoroastrismo; all’attesa della seconda venuta del Cristo, nel cristianesimo. E c’è l’occultamento degli eroi d’epopea: quello di re Artù, nell’epopea celtica[6]; quello di Kay Khosraw, nell’epopea iraniana.

Tutte queste figure appartengono alla famiglia degli eroi escatologici, che vivono di una vita misteriosa con i loro compagni, su una Terra prossima alla nostra senza essere la nostra. Qui, l’intervento del mundus imaginalis è capitale. Per «salvare il fenomeno», il fenomenologo professerà il «realismo dell’immaginale». Nessuna ermeneutica del Grande Occultamento, senza l’esistenza di questo mondo parallelo al nostro (mondo, lo si ricordi, dove esistono tutte le forme del mondo sensibile, mondo delle città mistiche «dove si corporalizzano gli spiriti e si spiritualizzano i corpi», secondo l’eccellente definizione di Mohsen Fayz), mondo dove penetrano e da dove ritornano alcuni eletti privilegiati, senza distinzione d’appartenenza sociale, beninteso. Colpa dell’ammettere questo mondo parallelo, c’è da temere che ogni spiegazione qui non faccia che correre alla rovina del suo oggetto. Certo, non sono mancate delle coscienze ingenue per le quali l’Imam doveva esistere alla maniera di un uomo interamente simile ai contemporanei che ciascuno di noi fiancheggia ogni giorno; si è anche discusso gravemente il caso di certi «macrobiti», considerata la possibilità biologica di una sopravvivenza multisecolare etc. Ricordiamo solamente che gli ultimi cavalieri di Kay Khosraw hanno voluto, anch’essi, cercarlo in questa maniera, ma facendo così, dove lo cercherebbero? La presenza invisibile dell’Imam, la sua perpetua contemporaneità «tra i tempi», significa altro, non certo un’allegoria morale né una rappresentazione mitologica, ma precisamente la realtà di quel mundus imaginalis che la loro filosofia profetica imponeva a Sohrawardî e ai platonici di Persia, poiché essi sapevano che, senza l’esistenza di quel mondo, non potevano rendere conto della realtà degli eventi spirituali, metafisici, soprannaturali.

L’Imam nascosto, fino all’ora della parusia, non si rende visibile che in sogno oppure in certe manifestazioni personali che hanno allora il carattere di eventi visionari; esse non interrompono il tempo della ghaybat, poiché trascorrono giustamente in questo «inter-tempo», e non si materializzano nella corrente dei fatti della storia materiale che il primo venuto può registrare e attestare. I racconti di queste visioni teofaniche sono numerosi nei libri sciiti; ci sarebbe da operarne la classificazione tipologica. Il più delle volte, il XII Imam appare sotto forma di un fanciullo o di un adolescente di grande bellezza. Si manifesta nei casi di sconforto materiale o di tormento spirituale, al ritorno di un cammino, per esempio, o dentro una moschea dove il fedele si trova solitario. Il più delle volte, costui comprende solamente in seguito che è l’Imam che si è mostrato a lui. Ogni fedele sciita sa che può chiamarlo in suo aiuto. Si conosce anche la topografia del luogo segreto dove risiede. È, per esempio, il misterioso dominio dell’Isola Verde[7] (infra II, 2; si noterà più in là lo strano incontro, tutto nominale, certo, con il nome della residenza dei Giovanniti di Strasburgo, ma l’ultimo messaggio dell’Imam non ha anche qualche rassomiglianza con l’ultimo messaggio dell’«Amico di Dio» dell’Oberland? infra III, 1). Inoltre, si sa così bene che la vita non è affatto limitata alle condizioni del nostro mondo materiale visibile, che certe tradizioni fanno affidamento sugli eventi della vita del XII Imam nel mondo invisibile. Si parla anche dei suoi figli, in numero di cinque,[8] che sono i governatori di misteriose città (infra II, 3). Meditare l’invisibile persona del XII Imam, è penetrare nella «Terra celeste» di Hûrqalyâ, la quale offre tante rassomiglianze con la Terra di Luce, la Terra lucida del manicheismo. «Vedere l’Imam in Hûrqalyâ», per riprendere nuovamente quest’espressione di un eminente shaykh shaykhî, è vederlo là dove egli è in verità: in un mondo insieme concreto e sopra-sensibile, e con l’organo appropriato che richiede la percezione d’un tale mondo, – mondo parallelo al nostro ma di un’altra natura.[9]

Così si comprende l’energia con cui la coscienza sciita rifiuta di soccombere a un duplice e mortale errore: o quello dell’impotenza, quello degli inadatti alle percezioni teofaniche, che affermano banalmente che l’Imam a venire non è ancora nato (ora noi sappiamo già in ragione di quale virtù pleromatica del numero dodici è necessario che il XII Imam sia contemporaneamente già e non ancora). Oppure, più grave ancora, l’obiezione dello scetticismo: l’Imam è nato, ma è morto quando era in vita suo padre. Ora, è impossibile alla coscienza sciita immaginare un assenso qualunque a qualcosa che sarebbe come l’eco o l’anticipazione del «Dio è morto». E ciò, perché il XII Imam è una figura che tipizza le stesse aspirazioni profonde di quelle cui ha corrisposto, nel cristianesimo, la cristologia di una caro spiritualis Christi. Una tale figura non appare né scompare secondo le leggi della biologia e della storicità materiale, quelle della nascita e della morte fisiche. È un essere soprannaturale per cui dipende dagli uomini che egli possa loro apparire o al contrario che si sottragga alla loro vista. La sua apparizione è il segno stesso del loro rinnovamento. Ed è tutto il senso profondo dell’idea sciita della ghaybat e della parusia. Come me lo spiegava lo shaykh al quale mi riferivo, qualche riga fa (cfr. già qui sopra libro VI, pp. 280 e 291) sono gli uomini stessi che hanno imposto all’Imam il suo occultamento; se l’Imam è nascosto, è che gli uomini si sono resi incapaci di vederlo. Non può manifestarsi, poiché non può essere riconosciuto. La parusia non è un evento che possa sopravvenire un bel giorno. È qualcosa che avviene di giorno in giorno nella coscienza degli sciiti fedeli. Perciò, appare con una chiarezza sorprendente la situazione rispettiva di coloro che le tradizioni designano come i «compagni dell’Imam nascosto» o al contrario come i suoi avversari. E in questa chiarezza, è tutto il ciclo dell’Iniziazione che si mostra, succedendo al ciclo della Profezia, e trascinando nel suo movimento le gerarchie mistiche che, pur essendo invisibili, sono presenti fra noi.

Rompere questo ciclo dell’Iniziazione, sarebbe dunque rompere l’attesa escatologica, e viceversa. Di questa rottura dicevamo più sopra che la coscienza sciita non poteva sentirne l’idea che come una insopportabile bestemmia. Ricordiamo ancora i termini dell’ultima lettera indirizzata dall’Imam a ‘Alî al-Samarrî: «Si leveranno delle persone che pretenderanno di avermi visto materialmente. Attenzione! colui che pretenderà di avermi materialmente visto prima degli eventi della fine, egli sarà un mentitore e un impostore…» Più grave ancora. Secondo un hadîth riportato da Mofaddal (Mofazzal), sul fatto che l’Imam sia occultato, tutta la gerarchia esoterica, a cominciare dal Bâb (la «soglia», il grado più prossimo all’Imam) è, anch’essa, nell’occultamento. Ci fu occasione già di dirlo qui: non solamente chiunque pretendesse di essere l’Imam in persona, ma anche chiunque pretendesse di spacciarsi per il rappresentante qualificato dell’Imam (il suo Bâb) e rivendicasse un’investitura personale in vista di una predicazione pubblica, egli romperebbe l’attesa che è essenziale al sentimento escatologico sciita, e volendo anticipare la parusia, si metterebbe eo ipso al di fuori dello sciismo. La cosa è successa, lo sappiamo; fu la tragedia del bâbismo, poi del bahâismo. Ma ciò non dà a nessuno il diritto d’imputare a una scuola la responsabilità di dottrine che ne sono la negazione e che sono sentite da quella scuola come una bestemmia. Ma ciò non è affatto dire che, per quanto a lungo possa durare il Grande Occultamento, l’Imam abbandoni per questo i suoi fedeli; capita a costoro di vederlo non solamente in sogno, abbiamo detto, ma in una maniera e in circostanze più misteriose, quelle di cui precisamente andremo a rilevare qualche caso tra molti altri. Prima, formuleremo tre premesse ermeneutiche che non fanno che ricapitolare ciò che precede.

Per comprendere i racconti che seguiranno, bisogna prima di tutto non dimenticare mai ciò che va da sé per gli adepti dell’Imam: 1) Un primo punto, è che egli vive in un luogo misterioso che non è nel luogo che controlla la geografia empirica; non c’è nessuna coordinata sulle nostre carte. Questo luogo «fuori dal luogo» nondimeno ha la sua topografia propria (infra II, 4). 2) Un secondo punto, è che la vita non è limitata alle condizioni del nostro mondo materiale visibile con le leggi biologiche che conosciamo (il ciclo del carbone). Ci sono degli eventi nella vita del XII Imam durante il periodo del suo Grande Occultamento; facevamo menzione qui sopra dei suoi figli che sono in numero di cinque,[10] governatori di misteriose città alle quali uno dei nostri racconti ci permetterà di recarci. Questi figli hanno a loro volta dei discendenti; è indicato pensare qui alla maniera in cui gli esseri si generano nel paradiso di Yima, in Êrân-Vêj[11]. 3) Un terzo punto infine, è la portata esatta delle ultime righe dell’ultima lettera dell’Imam. I teologi sciiti hanno sempre sottolineato che la rigorosa invisibilità, decisa e annunciata dall’Imam, mira a screditare e a stroncare in anticipo ogni tentativo di agitatori e d’avventurieri, pretendenti alla qualità di nâ’ib per legittimare qualche ambizione politica. Ogni rivendicazione di questo genere è eo ipso un’impostura, infatti lo sciismo non ha interesse che per l’Evento finale del nostro Aiôn, l’ultimo regno dell’Imam che opererà la restituzione e la restaurazione (apokatastasis) di tutte le cose nel loro diritto e nella loro verità, e che per questa ragione è chiamato il Qâ’im, il Resuscitatore. In compenso, i teologi sciiti sono d’accordo nell’ammettere che l’Imam non ha mai escluso di manifestarsi «in privato» per venire in aiuto a un fedele nello sconforto, materiale o morale, a un viaggiatore smarrito, per esempio, o a un credente che dispera[12].

Se la ierostoria dello sciismo è piena di tali visioni teofaniche, queste non si producono mai se non su iniziativa dell’Imam, e se l’Imam appare quasi sempre sotto forma di un giovane uomo di grandissima bellezza, quasi sempre anche, salvo eccezioni (ne vedremo più in là un caso), colui a cui fu dato il privilegio di quella visione, non prende coscienza che più tardi di colui che ha visto. Salvo eccezioni, uno stretto incognito avviluppa queste manifestazioni, lo stesso incognito che preserva la cosa religiosa da ogni socializzazione. «Molti uomini, scrive uno dei nostri teologi, ‘Alî Asghar Borûjardî[13], hanno visto la bellezza perfetta di questo Eletto (il XII Imam), ma non l’hanno riconosciuto che in seguito, dopo che egli li ebbe lasciati», comprendendo che l’azione benefica prodotta, materiale o spirituale, non aveva potuto essere opera che dell’Imam. Certi l’hanno visto al tempo del pellegrinaggio a La Mecca; altri, nella moschea di Koufa (l’antica città sciita per eccellenza); altri in qualche luogo santo sciita, ma mai si tratta d’una visione collettiva, giacché anche se gli uomini lo «vedono», sono incapaci di riconoscerlo. È ciò giustamente il Grande Occultamento. L’Imam va e viene in tutti i luoghi del mondo, senza immanere a un luogo, senza essere fissato, contenuto, in un luogo.

Lo stesso incognito avviluppa i suoi compagni, termine che comporta un senso largo e un senso più delimitato. Nel senso largo della parola, si tratta di quella gerarchia esoterica su cui ci si è interrogati qui a più riprese, e il cui numero dei membri è determinato in funzione di corrispondenze simboliche; essa permane incognito tra noi, di generazione in generazione, ogni dipartita di uno dei suoi membri essendo compensata dalla promozione di un compagno del rango gerarchico inferiore. Abbiamo constatato la presenza di questa stessa idea nel sufismo. Nel senso più delimitato, i compagni dell’Imam nascosto sono quell’élite tra le élites composta di giovani persone, di «cavalieri» (javânmardân) al suo servizio permanente nel suo seguito immediato; ne vedremo una manifestazione nel corso del racconto del «viaggio all’Isola Verde» tradotto qui sotto. Tuttavia gli uni e gli altri sono avvolti nel medesimo incognito: i primi, per le ragioni che sono state dette (libro VI, pp. 278 ss.); quanto ai secondi, che è capitato a qualche eletto di incontrare «nel paese dell’Imam nascosto», essi non possono essere riconosciuti dagli uomini più che l’Imam di cui sono i compagni. Come scrive ancora il teologo citato qui sopra, «costoro, nessuno li conosce ed essi non si fanno conoscere da nessuno. Non più di quanto sono capaci di riconoscere l’Imam, gli uomini non riconoscono mai uno solo dei suoi compagni e dei suoi paggi. Costoro non frequentano le loro dimore. Non si conosce la loro attività né le loro occupazioni. Capita che entrino in rapporto con gli umani, ma nessuno è informato del loro stato e condizione. Nei deserti, sulle isole dell’Oceano, nel cuore delle montagne come nel profondo delle valli, capita che essi piantino le loro tende. Anche molti viaggiatori, carovanieri, smarriti, hanno visto tende, dimore, castelli, incantevoli luoghi verdeggianti, spuntare in mezzo ad aridi deserti… Qualcuno vi ha avuto accesso. Essi hanno visto e compreso. Ne sono ritornati, ma mai più hanno potuto ritrovare il cammino per giungervi di nuovo, né mostrare il cammino ad altri».

Praticamente, poiché gli uni e gli altri sono avvolti nel medesimo incognito, non c’è alcun criterio definitivo che permette di differenziare le persone degli uni e degli altri, e non ci sarebbe neanche interesse a tentare di farlo. Essendo il «luogo» dell’Imam dappertutto, è giusto dire degli uni e degli altri che hanno il loro «luogo» vicino all’Imam. Gli uni e gli altri formano quell’élite, quella «cavalleria», attraverso la quale il mondo superiore comunica con il mondo inferiore, e senza la quale di conseguenza l’umanità non potrebbe sussistere nell’essere. Per loro intermediazione si opera una selezione continua di «sovrumani», dall’umanità adamitica (i trecento a immagine di Adamo) fino all’umanità serafica tipizzata nel Polo supremo (l’unico a immagine di Seraphiel). L’aspirazione di ogni fervente sciita è di figurare o di essere resuscitato tra di essi al fianco dell’Imam, al momento dell’ultima battaglia (vedere la preghiera del pellegrino tradotta qui pp. 458 ss.). La teosofia sciita ha sviluppato qui un tema che simultaneamente la caratterizza con intensità e ne svela l’affinità profonda con altre famiglie spirituali; proveremo più in là a rendere percettibili queste risonanze, sviluppando il tema della «cavalleria spirituale».

L’incognito al quale è sottomessa la cavalleria mistica che, in un senso o nell’altro, circonda l’Imam nascosto, è dunque così stretto, l’abbiamo rilevato anteriormente, come l’incognito dei cavalieri del Graal, per quanto non si sia condotti da essi fino a loro. L’opera di Sohrawardî fu qui l’occasione (libro II) di rilevare le tracce che, dall’epopea eroica all’epopea mistica dell’Iran, ci mettono sulla via di una tradizione parallela a quella delle gesta di Parsifal, così come queste ci mettono sulla via del dominio del Graal. Indicheremo più in là come la letteratura sciita che concerne l’Imam nascosto ci guidi ugualmente su una via convergente. Una medesima norma etica comanda l’incognito della cavalleria mistica che forma la gerarchia esoterica, e il ketmân imposto dagli Imam, la «disciplina dell’arcano» che osserva ogni fedele provato (momtahan), cioè iniziato al senso spirituale dell’imamismo. Questo ethos – dalle ultime parole pronunciate da ‘Alî al-Samarrî: «Ormai la faccenda non appartiene più che a Dio» – è segnato dalla desperatio fiducialis, quel pessimismo incrollabilmente fiducioso nell’aurora della parusia, con cui ciascun fedele «che ha fatto le sue prove», risponde e corrisponde alla vigilanza degli Invisibili. Perché così si avvicina l’aurora, ed è questo «essere un compagno dell’Imam». Si comprende altrettanto meglio perché chiunque rivendicasse pubblicamente la qualità di «compagno dell’Imam» e pretendesse parlare in nome dell’Imam, commetterebbe un tradimento e non potrebbe che essere un impostore.

Non cercheremo qui di penetrare quest’incognito, ma proporremo la traduzione di alcuni racconti di testimoni che «sono stati condotti e hanno visto», e se è vero che essi non possono farci ritrovare il cammino che seguirono, almeno possono comunicarci cosa hanno visto uscendo dal luogo esteriore, per penetrare «tra i tempi», in quello che noi non possiamo che denominare con Sohrawardî, attraverso il termine che coniò lui stesso in persiano: Nâ-kojâ-âbâd, – il «paese del Nessun-dove», poiché esso è il luogo interiore, davvero un paese (âbâd), ma di cui non si può dire «dove» sia, perché non ci si può orientare verso di esso prendendo come punti di riferimento i punti cardinali dello spazio sensibile. È il paese delle «visioni teofaniche»; appartiene a quello che Sohrawardî designava ancora come l’«ottavo clima». L’universo del Malakût parallelo all’universo sensibile, ha il suo spazio proprio e la sua topologia propria; quanto al rapporto fra lo spazio del Malakût e quello del nostro mondo, non lo si può presentire che comprendendo con i nostri filosofi come la sostanza spirituale «avvolga» la sostanza materiale, – come l’anima sia il «luogo spirituale» del corpo.

Tra i molteplici racconti concernenti le apparizioni dell’Imam al «tempo del Grande Occultamento», i quattro testi di cui proponiamo qui sotto la traduzione, appartengono a tipi differenti. Due di essi (il primo, racconto della fondazione di Jam-Karân, e il quarto, incontro nel deserto) mettono il fedele in presenza dell’apparizione dell’Imam in persona. I due altri (il secondo, racconto del viaggio all’Isola Verde, e il terzo, il viaggio alle cinque isole) conducono il fedele in presenza dei compagni o dei figli dell’Imam. Ogni volta, certo, l’incontro risulta da una decisione segreta dell’Imam; all’uomo rendersene adatto, ma non sta all’uomo decidere che vuole incontrarlo e ancor meno riuscirci (un aneddoto ce lo ricorderà qui sotto). Inoltre, può succedere che la presenza dell’Imam faccia irruzione nel luogo dove si trova il fedele o il pellegrino, e direttamente da lì lo trasferisce al luogo della sua presenza (quarto racconto). E può succedere che l’episodio visionario cominci sia con la manifestazione di persone «appartenenti al mondo dell’Imam» e che progressivamente fanno penetrare il pellegrino in quel mondo (primo e secondo racconto), sia con un prologo iniziatico, una navigazione per esempio, che all’insaputa degli interessati, li porta in un mondo sconosciuto (terzo racconto).

Tutti i racconti hanno questo tratto comune e caratteristico che il passaggio dalla topografia del mondo sensibile a quella del mondo sconosciuto, si compie senza che i soggetti abbiano coscienza del momento preciso in cui si opera la rottura. Non se ne accorgono se non quando sono già «altrove». Altro dettaglio caratteristico: l’irruzione del mondo dell’Imam nel nostro mondo può prolungarsi attraverso qualche traccia materiale (generalmente un edificio costruito su suo ordine); o, fatto più sconcertante, il pellegrino può riportare dal suo incontro un oggetto testimone (un libro, una borsa, per esempio). Succede così che la portata dell’evento faccia del racconto un veritiero racconto d’iniziazione, cioè d’iniziazione alla dottrina sciita, al segreto dell’Imâmat (secondo e terzo racconto). Ma c’è però qualcosa, il racconto del viaggio all’Isola Verde ce ne avverte, che noi non sapremo mai, perché la disciplina dell’arcano vieta – o vietava allora – di metterlo per iscritto. I racconti ci suggeriscono l’onnipresenza del luogo spirituale che è fuori dal luogo esteriore, cioè rispetto a questo luogo esteriore circoscritto e circoscrivente, ciò che possiamo chiamare l’ubiquità di kojâ-âbâd (rispetto al luogo del mondo sensibile, il luogo spirituale non è da nessuna parte, poiché è peraltro dappertutto, cfr. infra II, 4).

Infine questi racconti e il grande numero di racconti simili sono da leggere e da comprendere come continuanti l’agiografia del XII Imam. Dicendo che il XII Imam è da dieci secoli la storia della coscienza sciita, non intendiamo affatto parlare per metafora né per mezzo di qualche sotterfugio nominalista, ma nel senso del tutto «realista» del mundus imaginalis. Il luogo di quel mondo dove appare il luogo dell’Imam è il mazhar, cioè il teatro e specchio del luogo dell’Imam (non è dunque in quello specchio che bisogna, in seguito, cercare l’Imam). È ciò che spiega mirabilmente Sohrawardî (in perfetta concordanza con ciò che spiegherà più tardi Swedenborg, riguardo al mondo delle visioni). In catottrica mistica, l’organo di percezione delle apparizioni negli specchi è la potenza immaginativa, essa stessa un katoptron, specchio, e specchio della coscienza. Da qui, dicendo che queste visioni, queste epifanie, sono l’agiografia, la storia del XII Imam, si dà a intendere che quella storia, compiendosi nel mondo parallelo, è una antistoria rispetto alla storia nel senso ordinario della parola; essa non rientra in questa storia, non più di quanto l’immagine sia immanente allo specchio, nel modo in cui il colore nero, per esempio, è immanente al legno nero. Il luogo dove essa trascorre è il luogo spirituale, così come il suo tempo è «tra i tempi». Queste epifanie liberano l’uomo dalle leggi della storia e dello spazio dove si compie la storia nel senso corrente. Esse non sono sottomesse alle leggi della causalità storica; non si può «spiegare» la storia segreta del XII Imam col meccanismo di quelle leggi. Il principio degli eventi epifanici è un principio di sradicamento da quella causalità – principio che va in direzione opposta o controcorrente rispetto ai nostri teologi e filosofi religiosi che «cercano Dio nella storia». La «storia» del XII Imam è uno sradicamento dalla Storia. Mancando di comprenderlo, non si potrà penetrare nel mondo dell’Imam, e si ricorrerà a spiegazioni «scientifiche» il cui risultato più chiaro sarà forse abolire la cosa che esse cercano di spiegare.

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NOTE

[1] Su quest’altra personalità preponderante della famiglia Nawbakhtî, cfr. ‘Abbâs Eqbâl, op. cit., pp. 212 ss.

[2] Vedere la lista dei loro nomi con indicazione delle fonti in Emâd-Zâdeh, Zendegânî, pp. 198 ss.

[3] Cfr. Majlisî, Haqq al-Yaqîn, p. 364.

[4] Informazione di Ibn Bâbûyeh secondo il Kitâb al-ghayba di Tûsî; Majlisî, Bihâr, vol. XIII, trad. persiana, p. 258; ‘Emâd-Zâdeh, Zendegânî, p. 201 (testo dell’ultima lettera dell’Imam con traduzione persiana).

[5] L’Imam allude qui agli episodi che circondano la «sortita» di Sofyânî e di Dajjâl (l’«Anticristo»); cfr. Safînat Bihâr al-Anwâr, I, 634; Golpâyagânî, op. cit., p. 481.

[6] Cfr. R. F. Hobson, The King who will return (Guild Lecture, 130), Londra 1965.

[7] Nonostante quanto detto dall’autore, pare che l’esistenza dell’Isola Verde debba essere messa seriamente in discussione. Allamah al-Majlisi nell’opera “Bihar al-Anwar” parla di un piatto di vetro presente nel mausoleo dell’Imam Ali (as) a Najaf ove vi era un’incisione in cui si alludeva all’esistenza di questa misteriosa isola. Il ritrovamento di questo piatto ha eventualmente portato, in alcune zone, alla formazione e diffusione di questa credenza popolare. E’ chiaro, comunque, che un’incisione ritrovata su un piatto basata sulle parole di un sapiente, per quanto celebre possa essere, non può essere utilizzata come evidenza (n.d.c.).

[8] Questa dichiarazione non è sostenuta da alcun hadith attendibile e autentico (n.d.c.).

[9] La tesi sostenuta dalla scuola shaykhita è stata rigettata da tutti i più grandi ulama del passato e del presente. Infatti l’Imam Occulto è ritenuto essere vivo in carne ed ossa nella nostra stessa condizione presente. Ciò non gli impedisce di essere e agire anche nella sfera spirituale la quale, però, a detta degli stessi ulama, non avrebbe niente a che fare con il mondo sopra-sensibile citato dagli shaykhiti (n.d.c.).

[10] Come detto in precedenza, la teoria di Corbin in cui si dichiara che l’Imam abbia avuto cinque figli governatori di misteriose città, non è stata riportata da alcun hadith attendibile (n.d.c.).

[11] Sul Var di Yima, cfr. il nostro libro Terra celeste e corpo spirituale, p. 47.

[12] ‘Alî Asghar Borûjardî, Nûr al-Anwâr (in persiano), Teheran 1347 / 1928, p. 177, così come Majlisî, Bihâr, vol. XIII, p. 143.

[13] Per ciò che segue, cfr. ‘A. A. Borûjardî, op. cit., p. 166.

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* Tratto dal IV volume dell’opera dello studioso francese intitolata “En Islam iranien”. La traduzione in italiano è stata gentilmente messa a disposizione dell’Associazione Islamica Imam Mahdi (AJ) dal Dott. Fabio Tiddia, che a tale argomento ha dedicato la propria tesi di laurea.

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Writer : shervin | 0 Comments | Category : Mahdaviyyah , Via Spirituale

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