È difficile per me parlare oggi del martirio, oggi che ricorre l’anniversario Sciita del martirio dell’Imam Husayn.
Molto è stato scritto e detto e molto continua a essere scritto e detto sull’Imam Husayn e sul suo ruolo nella storia. Gli antichi lo hanno spiegato in una maniera e gli intellettuali innovatori in un altro. Ma come ho recentemente capito, non possiamo comprendere l’azione di Husayn senza prima comprendere qual è il vero significato del martirio.
La grandezza di Husayn, da una parte, e l’attenzione focalizzata su di lui hanno provocato che ciò che è ancor più grande dello stesso Husayn venisse celato dal fulgore del suo carisma. Ma cos’è che è ancor più grande di Husayn? Certamente quello per cui Husayn si sacrificò. Noi abbiamo sempre parlato di Husayn, ma raramente abbiamo parlato del motivo per il quale Husayn così generosamente si sacrificò.
Oggi vogliamo dunque parlare del senso del sacrificio di Husayn e di quelli come lui nonché della sublimità di questi sacrifici nella storia dell’umanità e della nostra religione.
E così, al cospetto del popolo, del creato e del Creatore, vorrei parlare di quell’idea e dire qualcosa sul suo significato, così come è stato mostrato dall’insieme della loro vita e della loro morte, ovvero di quell’idea chiamata ‘martirio’.
È’ un compito difficile. La mia conoscenza e la mia capacità intellettuale non mi permettono di assolvere esaurientemente a tale compito. Il percorso contraddittorio seguito da questo problema (almeno per quel che mi riguarda) rende la mia posizione ancor più difficile. Da un lato devo presentare il martirio da un punto di vista intellettuale, scientifico e filosofico. Posso usare soltanto la mia testa e soltanto la scienza e la logica possono assistermi.
D’altro lato, la storia del martirio e i cambiamenti da esso indotti, sono cose così sensibili, così amabilmente eccitanti che infiammano lo spirito. Paralizzano la logica. Indeboliscono l’eloquio.
Diventa persino difficile pensare. Il martirio è un misto di amore raffinato e profondo e di tortuosa saggezza. Sono cose, queste, difficili da esprimere simultaneamente e dunque, in conclusione, è impossibile render loro giustizia. In particolare, per uno come me, emotivamente e spiritualmente debole, è ancor più difficile. Farò tuttavia del mio meglio e spero di riuscire a trasmettere almeno in parte quel che vorrei esprimere.
Per comprendere il senso del martirio, andrebbe spiegata la scuola dottrinale dalla quale esso prende significato, espressione e valore.
Nelle lingue europee ed occidentali, il martire è colui che sceglie la ‘morte’ in difesa del suo credo contro il nemico, laddove l’unica strada consentitagli è la morte. Ma la parola shahadat, ovvero sollevarsi e rendere testimonianza, presente nella cultura islamica per esprimere o indicare colui che ha scelto la ‘morte’, ha un significato completamente diverso da quello della parola occidentale, martirio. Questa è una delle differenze tra riti islamici e non-islamici. Nelle lingue europee, la parola martire deriva da ‘mortale’ che deriva a sua volta da ‘morte’ e ‘morire’.
Uno dei principi cardine dell’Islam e in particolare della cultura sciita, è il “sacrificio e l’essere testimone’. Dunque, anziché morte, il martirio è essenzialmente ‘vita’, ‘evidenza’, ‘testimonianza’, ‘certificazione’. Queste parola: shahadat (martirio e testimonianza) mostra la differenza che esiste tra la visione islamica sciita e quella delle altre culture del mondo.
.
Per comprendere dunque il concetto di martirio, dovremmo studiarlo nel contesto della scuola di pensiero e di comportamento nella quale esso trova fondamento, ovvero nella scuola di pensiero della quale Husayn è la manifestazione per eccellenza. Nel corso delle lotte che si sono articolate lungo tutta la storia dell’umanità, Husayn è il modello di questa lotta e Karbala, uno dei tanti campi di battaglia, è il legame che unisce i vari fronti, le varie generazioni e le varie epoche, in tutta la storia, dall’inizio fino ad oggi e proseguendo verso il futuro.
Il significato della vicenda di Husayn diventa chiaro quando comprendiamo la sua relazione con tutto quel flusso di movimenti dei quali abbiamo discusso nelle precedenti conferenze e che storicamente iniziano con Abramo. Questo è il significato da chiarire, e il complesso della rivoluzione di Husayn va interpretato. Guardare ad Husayn e alla battaglia di Karbala come ad un fatto avulso dalle circostanze storiche e sociali ci condurrebbe, così come è davvero accaduto, a vedere semplicemente l’uomo e a considerare l’evento solo uno sfortunato e tragico avvenimento del passato e un qualcosa che ci serve unicamente per piangere (ma di certo continueremo a piangere) piuttosto che un fenomeno eterno e trascendente. Separare Karbala e Husayn dal loro contesto storico e ideologico equivarrebbe a sezionare un corpo vivente, asportarne solo una parte e ad esaminarla a prescindere dal sistema del corpo vivo al quale apparteneva.
Come ho avuto modo di dire nelle mie precedenti conferenze, i movimenti religiosi sviluppatisi nel corso della storia dell’umanità, se li si analizza alla luce dei contenuti della religione, della condotta dei loro profeti e fondatori, del rapporto tra questi e il loro ceto sociale e all’appello che essi rivolgevano al loro popolo, vanno suddivisi in due tipi. Secondo tale classificazione, tutti i profeti storici, veri o falsi che siano, ovvero tutti quelli che hanno dato vita ad un movimento religioso, sono suddivisibili in due classi distinte:
Al primo gruppo appartiene la catena religiosa fondata da Abramo. Questa catena di profeti, dal punto di vista storico, è a noi più prossima e perciò li conosciamo meglio. Essa consiste in profeti la cui visione della società si origina nei ceti sociali ed economici più depressi della società. Come disse Muhammad (S), questi profeti o erano pastori che, come narrato dalla storia, pascolavano le greggi, o erano semplici artigiani e lavoratori che si sudavano il pane.
Questi profeti sono diversi dai messaggeri dell’altro gruppo, fondatori di scuole di pensiero, intellettuali e morali come quelle sviluppatesi in Cina, India, Iran o quelle scientifiche ed etiche dell’antica Atene. Questo secondo gruppo, senza eccezioni, era composto da aristocratici. Essi provenivano dalle classi nobili, potenti e agiate della loro società.
Nella storia, i potenti governanti della società appartenevano a uno di questi tre gruppi: i potenti, i ricchi ed il clero. Essi gestivano in collaborazione con gli altri gruppi il potere politico ed economico e tenevano sotto controllo la fede del popolo. Essi cooperavano l’un l’altro nel dominio del popolo. La loro collaborazione, al di là del fatto che condividessero o meno le stesse idee, era finalizzata a governare il popolo e per l’interesse del popolo.
Tutti i messaggeri non-abramici, dall’India alla Cina ad Atene, furono legati per parte di madre o per parte di padre o da ambo i lati, ad imperatori, ecclesiastici e aristocratici. Questo è vero per Confucio, Laotze, Buddha, Zoroastro, Mani, Mazdak, Socrate, Platone ed Aristotele. Il Corano invece dichiara esplicitamente: “Noi nominammo fra il popolo un Profeta da loro stessi” (3:163). Essi facevano parte delle masse ed erano parte integrante della comunità. Dunque i profeti abramici provenivano dalle masse popolari. Questo non significa negare che essi avessero una dimensione angelica o poteri assoluti né significa sminuirli indicandoli solo come esseri umani. Vuol dire invece che essi furono scelti tra la gente comune piuttosto che tra gli appartenenti a ceti sociali speciali, nobili e scelti. Alcuni credono che poiché il Profeta dell’Islam sorse tra gli arabi, egli dovesse parlare arabo, o che Mosè, scelto tra gli ebrei, dovesse parlare l’ebraico. Ma è ovvio che un Profeta scelto tra gli arabi non poteva parlare altra lingua che l’arabo.
L’importante era parlare la lingua della gente comune, ovvero la lingua e l’idioma che la gente di quella comunità comprendeva. Questo al fine di parlare delle loro necessità o delle loro sofferenze in una lingua a loro comprensibile. A differenza di filosofi, poeti, intellettuali, studiosi e persone colte che non comprendono i pensieri e le emozioni della gente comune né capiscono il loro modo di comunicare, e questo lo si può riscontrare ovunque, essi dovevano usare una lingua e un idioma familiari alla gente. Quando discorriamo dei profeti abramici, discorriamo del popolo, perché la missione di questi profeti differisce da quella degli altri.
La missione dei messaggeri non-abramici è sempre legata alla struttura di potere esistente così che il potere sostiene le idee di questi messaggeri. I profeti abramici, invece, furono sempre sostenuti dalla gente comune ed invisi ai potentati del loro tempo.
Guardate Abramo. Appena Dio lo scelse come profeta, egli subito utilizzò il suo bastone per distruggere gli idoli. Altrettanto fece Mosè con il suo bastone da pastore con il quale tempestò il palazzo di Faraone. Egli abbatté il ricco e potente Creso, lo seppellì e sprofondò Faraone nel mare. E il Profeta dell’Islam procedette dapprima attraverso una fase di sviluppo individuale, per poi iniziare la sua lotta spirituale. In un lasso di tempo di 10 anni, egli combatté 65 battaglie, ovvero una battaglia, uno scontro militare ogni 50 giorni. I miracoli dei profeti abramici sono in accordo con la loro missione. La mutazione di un bastone in serpente fu usata per distruggere la magia ed attaccare il trono di Faraone.
Il Corano enuncia chiaramente il principio che l’Islam non è una nuova religione perché, infatti, c’è stata una sola religione in tutta la storia. Ogni profeta fu prescelto per stabilire questa religione in accordo alle circostanze del tempo e in conformità alle necessità di quella epoca.
C’è una sola religione e il suo nome è Sottomissione: “Islam”. Attraverso questo annuncio, il Profeta la universalizza e fornisce all’idea di Sottomissione un prospettiva universale e storica.
Egli lega il movimento islamico agli altri movimenti che nel corso della storia hanno lottato per liberare i popoli. Essi si sono sollevati, sono insorti contro i potenti, i ricchi e gli ingannatori. In questo modo hanno mostrato la loro unità di visione: una lotta spirituale, una religione, uno spirito ed un motto lungo tutta la storia dell’umanità, in tutti i campi, in tutti i tempi e in tutte le generazioni.
Diamo uno sguardo a questo versetto del Corano, consideriamo il suo contesto storico e la scelta delle parole e vediamo come la prospettiva storica sia espressa nel Corano e come esso ponga questi movimenti uno di seguito all’altro.
“Quelli che non credono nei segni di Dio e uccidono i Profeti senza diritto alcuno e uccidono quegli uomini che invitano alla giustizia…” (3: 21)
Noi vediamo che in questo versetto vi sono tre punti connessi l’uno all’altro. Primo punto: i segni di Dio; secondo punto: i Profeti; terzo punto: gli uomini che chiedono equità opponendosi ai miscredenti. I Profeti e gli uomini di giustizia sono messi sullo stesso livello. Nel Corano sono dunque espressi un tipo di incontro sociale, una filosofia della storia umana e una descrizione degli antichi movimenti.
Il Profeta dell’Islam è l’ultimo messaggero di questa religione di Sottomissione che i profeti vennero a portare nel corso della storia, così come il Corano afferma a più riprese. Il loro messaggio consistette nella saggezza, nel Libro e nella giustizia per il mondo. Il Profeta dell’Islam è l’ultimo messaggero di questo mondo e dei movimenti umani che, nel nome della Sottomissione (Islam), chiamarono gli uomini a servire Dio e l’Uno così da rendersi liberi dall’obbedire e servire altri che Lui.
Il Profeta dell’Islam venne a confermare la visione universale dell’Unità (il Tawhid) ed anche a portare quell’unità dentro la storia umana, a tutte le razze, nazioni, gruppi, famiglie e ceti sociali e ad eliminare la discordia portata dalle religioni politeistiche. Il motto dell’unità islamica fu un motto che portò libertà. Prima che ne divenissero consapevoli gli intellettuali, gli studiosi, la gente colta e i filosofi, furono gli schiavi, i tribolati, gli affamati e i diseredati a divenire sensibili e consapevoli di questo. È per questo che il gruppo che si formò attorno a Muhammad (S) alla Mecca era composto dalla gente più povera, dai diseredati e dagli elementi più infimi della società.
Il Profeta dell’Islam fu disprezzato dai suoi nemici perché attorno a lui si radunava soltanto la feccia dell’umanità. Oggi questo è il complimento più grande che si può fare al movimento, dacché vediamo che i leader della religione buddista altro non sono che nobili e aristocratici di Cina e India. Oggi i valori sono cambiati!
Questo perché il Profeta dell’Islam segnò il punto di svolta per gli schiavi che, nella storia, non avevano mai sperato in un destino diverso dalla schiavitù. Schiavi e diseredati erano stati convinti da religione, scienza e filosofia o con i racconti, la poesia e l’arte, che il loro destino fosse quello di servire i padroni; essi si convinsero dunque d’esistere solo per soffrire, portare carichi pesanti e patire la fame, così come il destino di altri era quello di godere. Essi erano nati ed erano stati creati per questo.
Le classi diseredate, convinte che gli dèi o Dio fossero il loro nemico, credevano d’essere stati creati come facchini per portare carichi e far funzionare il mondo o per servire le persone più fortunate. Il profeta Mani, parlando di luce e di tenebre, aveva detto: “I disgraziati e i vinti sono dell’essenza dell’oscurità mentre i conquistatori sono dell’essenza della luce”. Aristotele e Platone, campioni dell’umano intelletto, dissero: “Dio o la natura hanno creato alcuni come schiavi della creazione e altri come liberi così che gli schiavi compiono i lavori all’ordine del giorno e i liberi possono essere liberi di occuparsi delle questioni più nobili quali morale, poesia, musica e civiltà”.
Il Profeta dell’Islam fu scelto per suggellare quel movimento che lungo tutto l’arco della storia lottò contro frode, falsità, politeismo, discordia, ipocrisia, aristocrazia e differenze di classe, per inquadrare tutte queste cose nell’ambito della lotta spirituale, per annunciare che tutta l’umanità appartiene ad una sola razza, ha una stessa origine, un’unica natura e un solo Dio, per dichiarare l’uguaglianza, fornendo spiegazioni filosofiche, per lottare contro il governo dei potentati economici e instaurare l’equità sociale.
Se analizziamo il modello costituito dalla società di Medina vediamo per esempio che Bilal, un umile schiavo, fu considerato tra le persone più nobili e valorose e fu trattato con maggior rispetto degli aristocratici della società araba. Ognuno ne riconobbe il rango. Improvvisamente gli abitanti di Medina, arabi, ebrei e Quraish, salutarono il giovane schiavo di Hudhaifah come un uguale; colui che una volta camminava per i vicoli come un umile e povero schiavo, ora, nella Moschea di Quba, presenziava alla Preghiera insieme ai nobili emigranti Quraysh ed era una delle figure più care e luminose. Le personalità più distinte dell’era pre-islamica e di quella presente pregavano dietro di lui.
Tutti i valori crollarono quando il Profeta diede il via ai suoi sforzi per distruggere i valori dell’ignoranza e del pensiero aristocratico. Egli diede istruzioni ai suoi discepoli affinché accorciassero le lunghe e fluente vesti che indossavano, e spuntassero le lunghe barbe che indicavano la loro appartenenza all’aristocrazia. Ordinò di non camminare impettiti d’orgoglio per strada. Istruì la gente a salire in due in groppa alle loro cavalcature, uno davanti e uno dietro. Egli stesso, a volte, cavalcò un asino senza sella, sedendosi dietro al suo compagno di viaggio, al fine di abbattere i valori dell’aristocrazia agli occhi della gente.
Un giorno una vecchia che per molti anni aveva sentito parlare della grandezza e della magnificenza del Profeta, si presentò al suo cospetto. Gli stava davanti ammutolita per il timore reverenziale della sua presenza. Il Profeta, delicatamente, gentilmente e semplicemente le mise il braccio sulle spalle e le disse: “Perché hai paura? Io sono il figlio di quella donna Quraysh che mungeva le pecore. Di chi hai paura?”
Quando questo pastore morì – egli che era stato l’ultimo dei Profeti, l’ultimo messaggero per coloro che subitaneamente erano spuntati dal deserto silente ed avevano dato l’assalto alle città dei signori del potere, della ricchezza e della falsità – improvvisamente ogni cosa cambiò. I dissidi comparvero subito dopo la sua morte. Il percorso degli eventi storici inizialmente non deviava dalla retta via se non di un centimetro. L’angolo di divergenza che si manifestò tra la Scuola dell’Islam e la Storia dell’Islam, tra la verità e la realtà, inizialmente era molto stretto. Ma dopo la morte del Profeta, l’apertura crebbe sempre di più. Era come l’angolo tra due semirette: esse dapprima sono pressoché sovrapposte, non più di un millesimo di un centimetro le separa; ma via via che ci si allontana dal punto d’origine, la distanza tra loro s’accresce. Allo stesso modo si mosse la storia: le due linee s’allargarono a tal punto che nell’eternità ci saranno chilometri di spazio tra loro. Sotto la spinta di fattori e cause diverse, due linee divergono l’una dall’altra con una apertura dell’angolo; questo è quel che è successo nell’ambito islamico, tra la linea della storia e la linea della verità.
Si manifestano le deviazioni
Così, dopo la morte del Profeta, la deviazione, dapprima in maniera indistinta, si sviluppò generazione dopo generazione; la distanza tra onestà, rettitudine, verità e giustizia s’accrebbe sempre più fino ad arrivare, dopo 14 o 15 anni, ad Uthman il quale, come un polo magnetico, attrasse tutti gli agenti contro-rivoluzionari sparsi qui e là. Egli li radunò nel centro del potere e del movimento islamico. Uthman fece da collegamento tra la mentalità dell’età di ignoranza e quella del periodo rivoluzionario islamico. Il suo collegamento era il Califfato che servì da ponte per i più spregevoli elementi dell’aristocrazia, emarginata, ma ancora viva. Essi usurparono le posizioni che erano state guadagnate per mezzo della lotta spirituale dei Muhajirin (Emigranti, termine che indica i compagni e seguaci del Profeta di Mecca, che migrarono a Medina) e degli Ansar (i Sostenitori, termine che indica gli abitanti di Medina che sostennero il Profeta). Uthman gettò un ponte su questo divario e gli agenti più sporchi, tramortiti ed emarginati dell’aristocrazia passarono attraverso il ponte del Califfato di Uthman. Essi conquistarono le posizioni guadagnate con il Jihad (lotta religiosa e spirituale) dei Muhajirin e dei Compagni del Profeta.
Uthman si comportò come uno strumento nelle mani degli Ommayadi, i nemici più vili dell’Islam e, attraverso di lui, essi non solo restituirono i colpi ricevuti al tempo del Profeta, ma si appropriarono anche dei successi della Rivoluzione.
Questo genere di sconfitta si è ripetuta così tante volte nel corso della storia islamica al punto che il fatto che una rivoluzione divori i suoi figli è divenuta una regola — certo non necessaria, ma sicuramente usuale. Uthman permise che i fedeli figli della Rivoluzione venissero divorati. Quelli che presero la spada e compirono il Jihad con fede, sacrificio, devozione e perseveranza furono annientati dagli oppressori e usurpatori del potere, del governo, dei diritti del popolo e dell’eredità della Rivoluzione. La prima vittima sacrificale di Uthman e degli Ommayadi che lo manovravano, fu ‘Ali (A), pietra angolare del movimento e quindi vittima designata della rinascita dell’Epoca dell’Ignoranza e dei suoi controrivoluzionari sopravvissuti. Il volto politico, sociale ed internazionale di ‘Ali era quello di rappresentare al meglio una lotta nuova, una lotta tra le guide leali ai nuovi valori, alla nuova fede sorta dai puri slogan dell’Islam, e l’avidità dei peggiori elementi della rinascita degli pseudo-valori dell’ignoranza che s’imponevano con sempre nuovo vigore. Questi usurpatori, con tutte le loro energie, avevano lanciato la loro lotta, dichiarata o sotterranea, contro le figure più nobili della Rivoluzione islamica.
Se il Profeta rappresentò la lotta di un’epoca in cui i veri credenti si confrontavano con un nemico esterno dichiaratamente opposto all’Islam, ‘Ali visse ed operò invece in un’epoca nella quale si verificò una lotta disastrosa tra i fedeli leali e gli oppositori al movimento che avevano indossato però la maschera della fede.
La lotta tra il Profeta e Abu Sufiyan, il quale accettò l’Islam solo per opportunismo quando il suo partito fu infine sconfitto, era una lotta esterna, una battaglia pura e semplice tra amici e nemici. Invece la lotta tra ‘Ali e Mu’awiya, il figlio di Abu Sufiyan, fu un affare interno tra amici e falsi amici, un ‘nemico interno’, teoricamente sostenitore del movimento. La battaglia sul campo esterno, la lotta col nemico esterno, ebbe esito vittorioso mentre la disastrosa lotta col nemico interno finì in sconfitta. Questo nemico è quel che, nella terminologia islamica, nella lingua del Corano, viene indicato con il termine di ‘ipocriti’ (munafiqin) — un nemico più vile e pericoloso del miscredente estremista (kafir) e del politeista (mushrik). Il Profeta rappresenta così la vittoria islamica sul fronte esterno, una vittoria completa sulla miscredenza e il politeismo; ‘Ali rappresenta invece la sconfitta islamica al proprio interno, tra i suoi stessi ranghi, a motivo dell’ipocrisia.
Se la ‘neo-ignoranza’ e la ‘neo-aristocrazia’ sorte all’interno del contesto dell’Islam e mascheratesi sotto il manto della Verità vengono confrontate con l’accurata ricerca della giustizia da parte della Rivoluzione dell’Islam, risulta evidente che ‘Ali è la base della resistenza. Per lunghi anni ‘Ali lotta e combatte contro il politeismo che s’è insediato tra le fila dell’Islam, un politeismo che s’è coperto del mantello dell’Unità (Tawhid). ‘Ali deve strapparlo di dosso ai miscredenti travestiti da musulmani che hanno messo il Corano sulla punta delle lance (alla battaglia di Siffin). Infine ‘Ali viene ucciso da gente pia, ma inconsapevole, da sempre strumento nelle mani di un nemico scaltro.
Man mano che si avanza nel tempo, la vera base della Rivoluzione islamica si indebolisce mentre la base della neo-ignoranza e i nemici interni divengono sempre più forti; si arriva quindi al tempo dell’Imam Hasan (A) (660 A.D., 40 A.H.), figlio maggiore di ‘Ali (A) e Fatima (A).
L’Imam Hasan è l’erede dell’amministrazione di ‘Ali e diviene comandante di un esercito nel quale l’ipocrisia s’è sviluppata raggiungendo anche i suoi amici più intimi. I suoi migliori ufficiali comandanti sono legati in segreto alle trame degli Ommayadi che promettono denaro e potere. Essi vendevano le loro anime a Mu’awiya in cambio degli onori della corte di Damasco. L’amministrazione di Hasan non ha alcuna autorità sulla provincia di Siria, una delle più potenti, pericolose e sensibili dei territori islamici, caduta completamente nelle mani del nemico. In Iraq le varie fazioni sono in dissenso. Gli aristocratici non hanno alcun interesse a rimanere fedeli al regime Alawita e le masse sono trascurate e indifferenti.
I Kharijiti, fanatici zeloti dotati di un pericoloso ascendente tra il popolino, affrontarono l’Imam Hasan che incarnava l’ultima lotta del più amato, consapevole e illuminato compagno del movimento islamico. Le fila dell’ipocrisia, il nemico interno, divenivano di giorno in giorno più forti verso il doloroso e catastrofico momento dell’ultima lotta a difesa dell’Islam della giustizia contro l’Islam dell’aristocrazia. L’unica alternativa era la pace. Egli era stato sconfitto. Un partito vinto non detta i termini di un trattato di pace. Questi gli sono imposti. Hasan è distrutto.
Così Hasan, la guida che rappresenta lo spirito combattente della Rivoluzione, è costretto a piegarsi di fronte alla rediviva neo-ignoranza. E’ disarmato e come un soldato semplice. Nella sua numerosa famiglia, la famiglia della guida del popolo, si annidano voltabandiera e spie degli Ommayadi; quelli che avevano spezzato il pane con lui, ora gli si rivoltano contro. Corrompono persino sua moglie e la usano per avvelenarlo. Ecco a quale livello s’erano ridotte la giustizia, la libertà e il popolo. Si arriva al punto che il potere dell’Imam Hasan, il leader di una forza che ancora oggi sta resistendo e difendendo il nome dell’Islam, è stato sminuito al punto che quando egli muore, non lo si può seppellire accanto al Profeta (suo nonno) a Medina, la città di suo nonno, di suo padre e di sua madre, la città della sua famiglia, la città dei Muhajirin e degli Ansar del Profeta dell’Islam. L’Imam Hasan viene seppellito nel cimitero pubblico di Baqi.
L’Imam Hasan, simbolo della solitudine e dell’isolamento insediatosi in seno alla società islamica giungendo fin dentro la Medina del Profeta, rappresenta il crollo subitaneo del partito che cercava la Verità nell’Islam. La nuova (perversa) forza della rivoluzione sommerge completamente tutti e tutto e conquista ogni campo. Ora è la volta di Husayn.
L’Imam Husayn
Husayn eredita dunque il movimento islamico. E’ l’erede di un movimento lanciato da Muhammad, continuato da ‘Ali e nella cui difesa Hasan fu l’ultimo baluardo. Ora non è rimasto più nulla da ereditare per Husayn, nessuno esercito, nessun’arma, nessuna ricchezza, nessun potere, nessuna forza, neppure un seguito organizzato. Niente di niente.
Siamo intorno all’anno 60 dell’Egira (680 d.C.), cinquant’anni dopo la morte del Profeta. Ciascun Imam sceglie la sua forma di lotta. (Per favore si presti una attenzione speciale da qui in poi su ciò che sto tentando di esprimere. Questo è il punto principale del mio discorso).
La forma di lotta di ciascun Imam e di ciascuna guida non è basata sui propri gusti personali, ma deve andar bene per le circostanze, deve valutare le forze in campo, la natura e la formazione del nemico.
Così la lotta scelta da Husayn non può essere compresa se non si prendono in considerazione le circostanze nelle quali Husayn lancia la sua particolare rivolta. In quel momento, il momento di Husayn, i tempi e le persone sono alla ricerca di un uomo. Come è difficile fronteggiare una tale situazione! A volte il destino di una nazione, di una fede, di un’idea, di una società, di una generazione sono intimamente legati ad uno o più individui e dipendono dalle sue mosse.
La responsabilità di proteggere la Rivoluzione è dunque caduta sulle spalle di Husayn in un momento in cui gli ultimi bastioni della resistenza sono stati persi. Nulla è rimasto per lui del potere di suo nonno, di suo padre, di suo fratello; del governo islamico e del partito della Verità e della giustizia non è rimasta una sola spada, non un singolo soldato.
Gli Ommayadi hanno occupato ogni elemento della società. Per anni, i Quraysh della neo-ignoranza hanno dominato i valori ed espropriato i frutti della Rivoluzione islamica. Sono anni ormai che dirigenza della Rivoluzione islamica è stata messa da parte, ed i compagni e i primi combattenti della Rivoluzione, i discepoli della scuola di Muhammad, si sono divisi in tre gruppi. Il primo gruppo, quello che ha rifiutato di tollerare la perversione del movimento, che si è sollevato e sacrificato per la causa dall’anno 60 A.H., è ormai scomparso. Abu Dharr non è più. Ammar, Abdullah ibn Mas’ud, Meytham, Hujr ibn Adi sono tutti trapassati.
Il secondo gruppo è costituito da coloro che si sono ritirati in un angolo tranquillo. Si occupano di preghiera e devozioni in tempi difficili che richiederebbero invece una adorazione in forma di sacrificio, quella per la quale i veri musulmani che non hanno ottenuto né la vittoria né il martirio, vengono torturati nelle prigioni. Essi hanno trovato invece un’altra via. Non cercano il paradiso sui campi di battaglia, tra le fila del Jihad, ma nel ritiro nelle discipline ascetiche e nella meditazione dell’amore divino, nei lunghi digiuni e mortificazioni, nelle rinunce e nelle preghiere supererogatorie. Il principale esempio di questo gruppo è Abdullah ibn Omar.
Queste grandi figure sono quelle che nel momento in cui le masse musulmane vengono frustate e passate a fil di spada dagli agenti degli Ommayadi alla ricerca di rivincita – essi che furono allevati nella Rivoluzione islamica e avevano lottato spalla a spalla con il Profeta – anziché sollevarsi sul campo del Jihad, si ritirano negli angoli delle moschee nel silenzio della mortificazione.
Quali sono queste grandi figure musulmane che si sono ritirate nelle devozioni per sottrarsi agli agenti dell’oppressione e della miscredenza? Quelli che in tale momento hanno abbandonato il campo di battaglia e sono strisciati nelle nicchie delle moschee, isolandosi dalla società? Le loro mani sono sporche del crimine, inquinate dal sangue degli eroi dal cuore puro e anche del loro stesso sangue.
L’uomo di coscienza sente la responsabilità e riconosce la differenza tra giusto e sbagliato; se egli si ritira nella devozione solitaria, è come se avesse sacrificato direttamente un mujahid libero e cosciente impegnato da solo nel Jihad, a tutto vantaggio dell’oppressore. Il sacrificato potrebbe essere egli stesso. Egli è un criminale ed agisce da criminale, senza essere necessariamente al soldo o sotto ricatto di qualcuno. Egli sacrifica i migliori elementi della fede a vantaggio della miscredenza. Questi sono gli elementi peggiori, quelli che commettono suicidio ai piedi dell’oppressore.
Il terzo gruppo è costituito da quei Compagni che hanno deliberatamente abbandonato il campo di battaglia. Essi facevano parte del contingente che combatté a Badr, Uhud e Hunayn, vissero nella Medina del Jihad con i Muhajirin del Profeta; furono fianco a fianco con il Profeta dell’Islam eppure vendettero l’onore che avevano guadagnato direttamente a Mu’awiya nel suo Palazzo Verde. Essi guadagnarono le loro ricchezze vendendosi i racconti e le tradizioni del Profeta alla tariffa di un dinar a tradizione. Tra esso vi erano Abu Darda, Abu Hurayra e Abu Musa. Abu Hurayra, avendo vissuto gli ultimi anni al fianco del Profeta dell’Islam, era noto come il Compagno specializzato nella scienza del hadith (riferire le tradizioni del Profeta). Egli raggiunse una tale eminenza nella corte Ommayade che Yazid (il figlio e successore di Mu’awiya al Califfato) l’assunse come sensale per cercare i favori di Oreinab, la moglie di Abdullah ibn Salam.
Ora, cosa immaginate pensassero i giovani di fronte a tale situazione? Questo è il tempo di Husayn. È’ soltanto la seconda generazione dopo la Rivoluzione: una generazione è cresciuta senza sperimentare quell’epoca gloriosa, quelle vittorie preziose, lo zelo e l’amore che i Compagni provarono. Sentire tali cose dal racconto di uno di questi Compagni fece sgorgare amore dai cuori della gioventù. Tutte le loro speranze, la loro fede, i loro pensieri erano riposti nei Compagni allevati nella Rivoluzione.
Quando essi vedevano cadere ogni giorno uno dei loro eroi, che delusione, che perdita di fede deve essere la loro esperienza in quella cosa che essi chiamavano Islam. Questo fu il destino dei Compagni, la generazione di ieri, la generazione dell’età del Profeta, il tempo della Rivoluzione.
Ma la seconda generazione, figlia della precedente, piena d’eccitazione, zelo e spirito – sperimentati o meno – è pronta a lottare contro l’ordine della neo-ignoranza, consapevole, nonostante tutto, di ciò verso cui si sta andando. Il simbolo e la guida della seconda generazione della Rivoluzione è Hujr ibn Adi. Hujr era un adolescente al tempo del Profeta. Era cresciuto ed era un giovane al tempo di ‘Ali ed era poi entrato nell’arena al tempo di Hasan. Egli aveva le qualità di un uomo di stato. Era un mujahid cosciente e responsabile. Al tempo del trattato di pace tra l’Imam Hasan e Mu’awiya, era stato uno degli oppositori più vigorosi e radicali alla firma del trattato da parte dell’Imam Hasan. Era andato persino a sgridare l’Imam, dicendogli: “Tu hai davvero umiliato il popolo facendo così!”
Egli era uno zelante ed ardente rivoluzionario, ma l’Imam Hasan lo prese da parte a Medina e delicatamente lo convinse riempiendolo di speranza per il futuro della lotta.
La storia non ci ha tramandato un racconto dettagliato di questa conversazione. Tutto quel che sappiamo è che Hujr ne uscì rassicurato. Hujr non era un credulone né era uno disposto ad accettare un compromesso o la logica della dissimulazione, una resistenza passiva o un approccio non pericoloso alla lotta. Né era un tale adoratore della guida da accettare semplicemente l’opinione dell’Imam Hasan senza fare domande.
Taha Husayn (il famoso scrittore egiziano) scrive di questo colloquio di Hujr con l’Imam Hasan così come di un altro incontro tra Suleyman ibn Surad Khaza’i e l’Imam. Come egli sostiene, anche Suleyman era molto critico verso un compromesso tranquillo e composto, così come Hujr, ma esce soddisfatto dal colloquio con l’Imam Hasan. Taha Husayn dice che l’argomentazione dell’Imam Hasan dovette essere questa: qualsiasi tipo di confronto in armi con gli eserciti schierati in campo, non sarebbe servito ad altro che a vedere annientata qualunque forza egli avesse schierato. Egli auspicò invece la creazione delle basi per un’organizzazione segreta che continuasse efficacemente la lotta clandestina. Il movimento di resistenza o operazione rivoluzionaria contro il regime prese forma. È questa organizzazione che durante i Califfati Ommayadi e Abbasidi, fino all’ultimo Imam Sciita (A), formò reti che si estesero in tutte le terre dell’Islam, gettando le basi per il Movimento di Resistenza Sciita.
Hujr e i suoi compagni, che erano uomini giovani e zelanti, come ‘Ali ibn Hatam, non potevano tollerare un’era di soppressione e di nera dittatura in cui crescevano oppressione, autocrazia, sfruttamento del popolo e dei loro diritti e la dispersione dei fini umani del Movimento islamico. Essi insistevano nella sfida a questo governo pervertito che di giorno in giorno diventava sempre più forte a spese del diritto, della giustizia e dell’Islam.
Le lotte, sotto il comando di Hujr, crebbero e acquistarono sempre più vigore fino a che gli Ommayadi, mediante un nefasto complotto, condannarono Hujr per miscredenza (e l’accusa veniva dagli Ommayadi!). Così questi giovani, fulgidi esempi della resistenza della seconda generazione del movimento, questi discepoli della scuola e della via di ‘Ali che lealmente avevamo perseverato nella loro resistenza, furono presi e giustiziati in Siria per la loro rivolta contro l’establishment di Damasco.
E viene dunque il turno di Husayn, ma le fondamenta del potere della Rivoluzione sono state perdute. I compagni della lotta di Resistenza o sono stati uccisi o sono stato ridotti al silenzio. I Compagni fedeli che non si erano venduti, cercavano rifugio nelle devozioni in luoghi riparati piuttosto che prendersi la briga di combattere per la giustizia o rischiare nella lotta sociale e politica per liberare il popolo dal loro destino d’oppressione. Erano scivolati nella trappola della rispettabilità, della devozione individuale e se ne stavano zitti. Una parte di questi nobili Compagni del Profeta trascorreva il tempo nel Palazzo Verde di Mu’awiya attingendo al pubblico tesoro mentre gli sforzi e le lotte della seconda generazione venivano schiacciati dagli Ommayadi. Il potere del tiranno, rafforzato con spade, denaro, cariche pubbliche e sotterfugi, stendeva una soffocante cappa di silenzio su tutto.
Il meccanismo della nuova mistificazione si attuava con la pressione della paura, del denaro e dei sotterfugi, con la licenziosità e la corruzione, con la repressione delle idee, della fede e del senso di responsabilità – potremmo dire con ‘la libertà di repressione’ e ‘la repressione della libertà’. In questo modo il regime provocò un collasso della fibra morale della società. Essi bombardano e obliterano il vero fondamento, la verità della fede, la Rivoluzione, le basi del movimento e l’Islam. Essi paralizzano i cuori e le menti appellandosi astutamente al quietismo.
Il regime della neo-ignoranza sa bene che il pericolo della rivoluzione sarà scongiurato solo se si distruggerà la Casa di Muhammad, se si eliminerà ‘Ali, se si sconfiggerà l’esercito di Hasan e se si distruggerà, in modo segreto e bestiale, lo stesso Hasan. Lo sradicamento di tutte le basi della resistenza e la dispersione delle loro forze, il massacro spietato delle fiere figure della rivolta della giovane generazione di Kufa come Hujr; l’esilio, l’assassinio, la condanna alla povertà e la negazione dei diritti per quei Compagni come Abu Dharr avevano lottato mediante il glorioso potere della fede, è inevitabile.
Il regime sente che la magnanimità, l’accesa sensibilità delle coscienze, la marcata fede nella Verità, la profonda comprensione dello spirito dell’Islam, la perfetta conoscenza del percorso della chiamata, il vero significato della missione del Profeta non potevano essere repressi con la forza bruta, l’aggressione, i sotterfugi e il camuffamento della giustizia incarnati dall’establishment Ommayade. Si rendeva conto dell’inutilità dell’uccisione delle anime coraggiose come Abdullah ibn Massud, torturato e ucciso per le sue proteste contro l’ingiustizia, dell’inutilità della rimozione delle barricate, dello sradicamento di ogni possibile resistenza al sistema di governo, del martirio dei leader del Movimento e delle pressioni sulle nobili personalità dissidenti. Essi avevano preso al loro servizio gli uomini più importanti e i più grandi talenti, avevano schiacciato tutti gli sforzi, vinto su tutti i fronti e stabilito l’egemonia della Monarchia Ommayade in tutte le terre dell’Islam, dalla Siria al Khorasan. Eppure non c’era modo di sradicare la Resistenza. Tutti questi sforzi – le conquiste, il dominio, il mantenere le redini del comando, la distruzione delle lotte del popolo, la dispersione e lo schiacciamento dei difensori della fede innamorati della libertà, dei cercatori del diritto, il disarmo della giustizia, il possesso delle armi, degli scudi, delle armature e dei destrieri dell’Islam, l’aver ridotto il popolo sotto le fruste del loro dominio – sforzi fatti per garantire la stabilità del loro regime e permettersi di avere mano libera, tutti questi sforzi non pervengono a nulla.
Gli intelligenti e informati statisti Ommayadi conoscono bene se stessi. Conoscono il loro popolo e lo spirito dei tempi. Questa società è lontana una sola generazione dalla nascita di quella grande rivoluzione intellettuale, sociale, politica e spirituale che è l’Islam. E questo regime è lontano una sola generazione dall’ignoranza e dal politeismo e dalle battaglie di Badr, Uhud e Khandaq, l’era di tutti questi leader della fazione miscredente, idolatra, schiavista e capitalista che lottò contro il Profeta.
Gli Ommayadi sanno che sotto la cenere della sconfitta cova la rossa minaccia di una potente esplosione. L’esercito è stato sconfitto, ma l’Islam è ancora vivo. Il partito della fede è stato disperso, ma la fede è viva. I leader della giustizia e i sostenitori della Verità, le armi e gli scudi della libertà e dell’umanità sono stati distrutti. La barricata della libertà e le basi della resistenza sono state rase al suolo, ma che ne è della causa della giustizia, dell’adorazione della Verità, del gusto per la libertà e dell’amore per l’umanità? ‘Ali è stato ucciso durante la Preghiera ma che ne è del fuoco di ‘Ali? Abu Dharr è stato esiliato, poi fatto tacere per sempre a Rabazah, ma che ne è del grido di Abu Dharr? Hujr è stato giustiziato in Siria, ma che ne è della sua ribellione?
Il cuore di questi pericoli, il nucleo più nobile di queste rivolte non è a Medina dove il popolo è stato massacrato, né alla Ka’aba dove la gente è presa a sassate, né a Kufa, controllata da un colpo di stato, né nella Moschea del Profeta dove la gente è calpestata sotto gli zoccoli dei cavalli e abbattuta dai cavalieri, neppure nella casa del Profeta che giace in rovina, né nella casa di Fatima ridotta in cenere, né nel Corano bucato dalle lance.
Dov’è allora il cuore del fuoco, la fonte inesauribile del pericolo?
È nei cuori e nelle menti! Se non si distruggono queste due fonti, tutte le vittorie rimangono senza effetto e tutti gli sforzi fatti potrebbero rivelarsi inutili. Se queste due fonti restano vive, anche Abu Dharr, Hujr, Omar e Malik resteranno vivi nel loro martirio e invieranno forze nuove sul campo di battaglia. Tutti gli Alidi perverranno al martirio e vivranno per sempre. Se dunque il fuoco della loro scuola di pensiero non sarà distrutto, nessuna immunità, né nera né rossa, potrà essere mantenuta dagli eccidi di massa.
Essi, gli Ommayadi, non godranno di un attimo di requie nel mare di sangue e nel cimitero di morte.
La missione della Rivoluzione divina non è nel Corano, ma è qui, nei cuori e nelle menti. Sebbene ‘Ali sia stato assassinato nella Moschea di Kufa, egli esiste ancora. Tutti i morti ammazzati, i luoghi conquistati, i fronti sconfitti, le armi e le fortezze prese ed occupate appartenevano alla verità, alla libertà e alla giustizia. La lotta per la verità, la libertà e la giustizia esiste ancora. Dunque il regime doveva occuparsi di queste due fonti di rivolta che andavano distrutte. Se questi due focolai, questi poteri luminosi che alimentano il movimento non fossero stati distrutti, potevano sopravvivere e crearsi dei covi.
L’attacco comincia. Si raccolgono le armi per distruggere le due fonti del pericolo, le due vere fonti di esplosione e di incendio dei cuori e delle menti.
Ma questa battaglia ha bisogno di un altro tipo di armi, scudi, archi e frecce e di un altro tipo di esercito, politica, progetti, piani, governatori e conquistatori. A guidare questa offensiva non serve l’oro né le cariche di governo su Rey o sull’Iraq, né gli inganni né il genio di Amr, né la condotta omicida di Busr ibn Artat, Yazid ibn Mohlab e Hajjaj ibn Yusuf.
In questo attacco a sorpresa, l’armamento sarà il Corano e gli scudi saranno le tradizioni del Profeta. Pensiero e scienza saranno l’equipaggiamento, la fede la fortificazione, l’Islam la bandiera e l’esercito sarà formato da commentatori, pensatori, conferenzieri, teologi, studiosi, giudici e guide. I leader saranno i grandi Compagni del Profeta, i religiosi importanti e i grandi Muftì.
L’attacco comincia. L’esercito della religione avanza agevolmente e con successo nella terra dove un esercito mondano, terreno, già era avanzato e aveva sgombrato il campo da ogni ostacolo e resistenza. Essi entrano, avanzano e progrediscono nei due principali focolai, gradualmente li conquistano e li rovinano dall’interno senza alcuna particolare resistenza, con un coordinamento terribile. Essi usano un elisir, una creazione che i sacerdoti ufficiali di tutte le religioni conoscono bene. Essi si tramandano la ricetta l’un l’altro attraverso la storia. È lo stesso nefasto elisir che mutò il potere conferito a Mosè di distruggere Faraone e Qarun in un qualcosa che rese certi suoi seguaci più criminali, venali e falsi di quanto lo fossero Faraone, Qarun e Balaam; lo stesso elisir che trasformò l’amore e la pace portati da Gesù Cristo in azioni sataniche e indegne per la religione da parte dei Cesari.
L’intellettuale si è venduto e il clero si è legato al potente. Nell’Islam comincia a cambiare il destino d’ogni cosa. Tutti i valori sono annichiliti. Essi uccidono lo spirito, deviano il corso della Rivoluzione islamica e sacrificano il popolo nel nome della religione.
È la prima volta che l’Islam, con l’assistenza dei sapienti, regge il gioco agli elementi e alle azioni del regime. Le autorità religiose obbligano a collegare ogni cosa a Dio. Due cancri orribili cadono sulla gente – nel “Nome di Dio” e della “religione di Dio.”
Il primo è il cancro delle autorità religiose.
Essi sono gli studiosi pseudo-islamici e i religiosi. Sono gli oratori dell’Islam, gli studiosi della religione, le guide della comunità. Non hanno incarichi ufficiali. Non sono assassini. Studiano negli angoli delle scuole, imparano ed insegnano. Chi sono queste autorità religiose? Cosa propongono?
La loro tesi è che chiunque abbia commesso errori, abbia ingannato, cospirato o si sia macchiato di crimini, puro o peccatore che sia, deve avere la speranza della misericordia e del perdono di Dio. Questo perché Dio ha detto: “Ci sono persone piene di speranza nel decreto di Dio.” E’ la speranza che apre le porte al perdono, alla misericordia e alla compassione di Dio. Dio è perdonatore e si deve sperare che Egli perdonerà qualsiasi crimine. Non è dunque consentito ad alcun uomo normale, anch’egli potenziale peccatore, di definire tali persone come criminali. Non li si può condannare né si può combattere contro di loro.
D’altra parte, quando alcuni vengono definiti e additati come criminali, oppressori e cospiratori si definisce per converso altri come oppressi o schiavi; così facendo è come se si arrogasse delle prerogative divine perché Dio è il Signore assoluto ed è su questa base che Egli mette le azioni sul conto di ognuno e giudica la condotta ed il comportamento di ognuno con la bilancia della giustizia. Non si ha dunque il diritto di giudicare l’oppressore e il cospiratore. Vuoi forse stabilire la bilancia della giustizia qui? Sei tu Dio? Vuoi accusare degli uomini e mettere in chiaro i loro conti prima che lo faccia Dio? No. Non è nostro compito giudicare tra un cospiratore ed un servitore. Non c’è permesso di condannare il criminale. Non c’è permesso di sollevarci contro questo o quel gruppo. Dobbiamo accettarli. Dobbiamo essere pazienti e lasciare la punizione a Dio. Questo è il problema innescato dalle autorità religiose quando dicono: “Lasciate ogni cosa a Dio.”
La malattia della speranza e il cancro delle autorità religiose paralizza la seconda generazione dell’Islam, la quale non ha avuto un addestramento sufficiente nella scuola dell’Islam e non ha ricevuto il messaggio del Corano e dell’Islam dalla bocca del Profeta, di ‘Ali, dei Muhajirin e degli Ansar. Essi ricevono un insegnamento islamico di seconda mano da parte di chi ha venduto i propri pensieri e le proprie idee. È per questa ragione che la loro coscienza, le loro deduzioni e il loro spirito religioso sono durevolmente avvelenati dalla propaganda delle autorità religiose appoggiate dal regime dominante. Sono proprio i responsabili della comunità, quelli che avrebbero dovuto sentire in ogni momento la responsabilità di ‘comandare il bene e impedire il male’ (amr bil maruf wa nahi anil munkar), ad instupidire la gente mettendo d’accordo Dio e il diavolo, facendoli coesistere fianco a fianco, essi che non hanno niente a che fare l’uno con l’altro.
Il secondo cancro che vediamo crescere in questo periodo è quello del fatalismo. Se la prima scuola di pensiero creata durante il tempo degli Ommayadi è quella delle autorità religiose che usano il Corano per paralizzare e distruggere ogni idea e credo, Jihad in primis, la seconda è la scuola del fatalismo, prima scuola di filosofia divina a manifestarsi durante il tempo degli Ommayadi.
Vedremo come la corruzione si andrà a nascondere dietro i volti santi e sacri. Decreto Divino, secondo il Corano, vuol dire che “Dio è il Comandante Assoluto.” Essi ampliano questo significato affermando che qualsiasi sofferenza accada nell’universo è voluta da Dio. Qualsiasi cosa si faccia, è fatta secondo la volontà di Dio. Qualsiasi posizione si occupi, in qualsiasi situazione ci si trovi, qualsiasi scelta si faccia, qualsiasi azione si intraprenda – pura o corrotta che sia – si sia assassino o innocenti, condannati o carnefici, tutto scaturisce dalla volontà di Dio e dal determinismo. Se si è schiavo o padrone, tutto è governato da Dio. È Dio che dà il potere e lo toglie. È Dio che uccide e fa esistere. È Dio che dà onori e umiliazioni. Nessuno ha diritto su niente.
La credibilità e l’attrattiva di questa spiegazione del fatalismo ebbe un potente effetto sui fedeli musulmani che prendevano in considerazione le parole del Corano insieme alle Tradizioni del Profeta – Tradizioni prodotte in serie e in quantità industriale da gente come Abu Hurayra. Si raggiunse il numero di 40.000 tradizioni nel nome del Profeta, Profeta che avrebbe dovuto vivere 1000 anni per poterle enunciare tutte quante.
Questi insegnamenti degli studiosi hanno un effetto paralizzante sul pensiero dei musulmani che vivono in obbedienza alla volontà di Dio. Viene spiegato loro che gli Ommayadi dominavano perché Dio aveva dato loro questo potere. Se ‘Ali era stato sconfitto è perché Dio aveva voluto la sua sconfitta. Nessuno è buono o cattivo; se il buono è annientato e il cattivo domina, tutto è basato su una saggezza più alta che non ci è chiara, ma dipende dalla volontà di Dio. Essa non è alla nostra portata. Perciò, qualsiasi reazione, da qualsiasi parte o persona provenga, è considerata una protesta e una critica alla Volontà, al Potere ed al Decreto di Dio.
Sono passati sessanta anni dall’emigrazione del Profeta. Tutto quel che era stato guadagnato dalla Rivoluzione è stato distrutto. Tutti i progressi guadagnati mezzo secolo prima sono stati perduti. Il Libro portato dal Profeta è posto sulle lance dei Bani Omaya. La cultura e le idee che l’Islam aveva sviluppato attraverso il Jihad, la lotta e gli sforzi nei cuori e nei pensieri della gente divennero un mezzo per giustificare il governo degli Ommayadi. Tutte le moschee sono convertite in sistemi di supporto al politeismo, all’oppressione e alla falsità e collaborano ad addormentare il popolo. Tutte delle spade del mujahidin sono messe al servizio dei carnefici. Tutto il reddito della Zakat e delle altre tasse religiose sono usate per mantenere il Palazzo Verde di Mu’awiya. Tutte delle parole che si riferiscono a realtà, unità, il Profeta, la sunna, il Corano e la Rivelazione sono preda di Mu’awiya e del suo regime. Tutti i leader della comunità, giudici, interpreti e recitatori dei Corano, studiosi e oratori delle moschee, o sono stati uccisi o pregano in silenzio negli angoli delle moschee o sono testimonial del regime di Damasco (i.e. i Bani Omaya).
Le istituzioni di Muhammad non hanno più un portavoce né una cattedra né un pulpito. Attraverso tutto quel territorio che include (l’Impero di) Roma, l’Iran e gli arabi non resta più niente che si riferisca alla famiglia del Profeta o a quelli della generazione fedele alla Rivoluzione. I risultati di tutte le sofferenze dei Muhajirin e dei Compagni erano stati dispersi al vento. Il palazzo di Mu’awiya si era guadagnato con tanta facilità un tesoro.
I rivoluzionari del passato erano morti nel remoto deserto di Rabazeh o erano stati uccisi nei campi di Marial-Azar. La seconda generazione della Rivoluzione, quella che aveva creato un movimento ed aveva combattuto era stata massacrata. Gli altri erano prigionieri della pessimistica filosofia del fatalismo oppure si erano arresi al fianco dei leader religiosi. Essi comprendevano che qualsiasi sforzo per cambiare la situazione attuale era inutile. Avevano imparato attraverso l’esperienza che qualsiasi lotta per proteggere l’Islam e ristabilire verità e giustizia, qualsiasi lotta contro la neo-ignoranza montante, sarebbe stata sconfitta.
Così, ora, sessanta anni dopo l’emigrazione, tutti i poteri sono nelle mani del governo oppressore. I valori sono determinati soltanto dal regime dominante. Idee e pensieri sono sviluppati dagli agenti dell’ideologia e del pensiero. I cervelli sono lavati, riempiti e avvelenati con materiale presentato nel nome della religione. La fede è alterata, comprata, paralizzata. E se nessuno di questi sforzi riesce, la fede è recisa con la spada. Ora, contro questo potere – il potere che possiede i pensieri, la religione, il Corano, la ricchezza, la spada, la propaganda, le pubbliche armi e l’eredità del Profeta – appare Husayn. Ma Husayn appare a mani vuote. Non ha nulla. Che può fare? Diverrà un asceta e si rifugerà in adorazione in un angolo? Manterrà una calma razionale poiché egli è il nipote del Profeta, il figlio di ‘Ali e Fatima, colui al quale il Paradiso è stato garantito?
Ma questi argomenti con lui non tengono. Gli altri ci credono ma lui si sente responsabile, investito di una missione. Può forse barattare la sua responsabilità di compiere il Jihad con l’impegno, certo più semplice, di avvicinarsi a Dio attraverso la lettura e la recitazione di preghiere? Non può scegliere questa soluzione anche perché sono passati 60 anni giusti dall’Emigrazione e nessun libro di preghiere è stato ancora stampato. Egli ha due strade aperte davanti a sé – entrambe per dire “No”.
“Non posso dare il via ad una lotta politica contro la tribù Ommayade perché una lotta di questo tipo necessita di un esercito che io non ho; né posso restarmene seduto e combattere il Jihad solo mentalmente”. L’Imam Husayn non poteva scegliere queste soluzioni.
Per leggere la seconda parte del saggio: http://islamshia.org/il-martirio-seconda-parte-a-shariati/
Traduzione a cura di Islamshia.org © E’ autorizzata la riproduzione citando la fonte