Il martirio (seconda parte) [A. Shariati]

Il martirio (seconda parte)*

‘Ali Shariati

Se noi vediamo che più tardi, l’Imam Ja’far as-Sadiq, il sesto Imam, nella nona generazione dopo il Profeta (742 – 752 A.D.), stabilisce una scuola intellettuale, è a motivo di due fattori. Durante gli ultimi giorni del governo Ommayade e la prima entrata sulla scena del Califfato Abbasside, da un lato, la filosofia greca stava penetrando nel pensiero musulmano e dall’altro, il Sufismo indiano ed iraniano, così come il Cristianesimo, era divenuto caro ai cuori dei musulmani.

A causa di ciò, gli intellettuali musulmani dell’epoca Abbasside iniziano ad essere sensibili alla politica. Iniziano a pensare su quel che è giusto e quel che è sbagliato, su verità e falsità. Iniziano a chiedersi del perché ‘Ali uscì di scena e subentrò Mu’awiya. Iniziano a chiedersi chi abbia la legittimità a governare la comunità e chi no. Si interessano alle “Sette Città dell’Amore”. Si interessano alla relazione tra il primo caos e l’altro caos che avvenne apparentemente da sé. Si preoccupano dell’identità della materia originale o di base dal quale Dio ha creato il mondo. Si appassionano a queste questioni filosofiche del Corano o alla scoperta di alcune particolari questioni gnostiche. Ma anche se fossero riusciti a rispondervi, le loro risposte non sarebbero valse un centesimo.

Gradualmente si svilupparono in loro domande riguardo all’anima, al corpo, al caos, all’essenza, agli attributi, all’amore, ai primi e agli ultimi tempi, all’estasi, alla malversazione ecc., ma i problemi della responsabilità, dell’impegno verso la società, la comunità, la giustizia, l’uguaglianza, la leadership ecc., erano stati completamente dimenticati.

Il regime aveva iniziato a creare le sue proprie scuole di pensiero e le aveva provviste di teologi, razionalizzazioni, filosofie e ideologie così da cambiare le radici dell’Islam e giustificare la competenza del regime.

In tale situazione, una lotta intellettuale si rendeva obbligatoria, in particolare per una persona come l’Imam Sadiq che non aveva alcuna possibilità di prender parte alla lotta politica, il quale aveva detto: “Se avessi soltanto sette soldati fedeli, mi ribellerei“.

Ma al tempo dell’Imam Husayn, la situazione era diversa. Sessanta anni dopo l’emigrazione non c’era ancora alcun segno della filosofia occidentale. Le scienze che confutavano la realtà e la verità dell’Islam non erano ancora penetrate. L’Islam aveva ancora le sue radici originali e le sue memorie, ed il popolo aveva ancora un ricordo chiaro di esso.

Mu’awiya avrebbe voluto che l’Imam Husayn sedesse nella moschea di Damasco ed insegnasse la teologia, spiegasse i versi del Corano, la cultura islamica, il monoteismo, la storia dell’Islam o i costumi ed il comportamento del Profeta o qualsiasi altra cosa desiderasse. Era disposto al suo mantenimento purché l’Imam Husayn non prendesse parte all’attività politica, considerata da Mu’awiya un’attività inferiore per un Imam! Ma l’Imam sapeva che “il valore di qualsiasi azione nella società è pari al male che arreca al nemico!” Cosa doveva fare dunque? Doveva ribellarsi. Una rivoluzione armata? Ma una rivoluzione armata ha bisogno di forze e l’Imam Husayn non ne aveva.

Recentemente è stato pubblicato un libro divenuto molto popolare – e che ha subito molti attacchi. I suoi contenuti ne fanno, involontariamente, un libro interessante. Studiandolo mi sono accorto di come esso fosse l’unico libro scritto dai nostri studiosi basato sugli studi dell’autore stesso. Tutti i documenti sono raggruppati ed osservati dai due punti di vista – pro e contro -, sono esposti, analizzati, spiegati e valutati.

L’autore ha mostrato anche un grande coraggio nell’evitare di rigettarli o approvarli. In altre parole, egli ha intrapreso un ampio studio con un gran numero di riferimenti atti a compiere una ricerca scientifica al fine di poter annunciare una teoria scientifica nuova. Questo è il valore di questo libro e io ammiro l’autore sebbene non lo conosca personalmente. Lo rispetto come uno scienziato che ha intrapreso una ricerca, una spiegazione ed una analisi seria, da pensatore indipendente, nel quale egli annuncia una nuova tesi. “L’Imam Husayn lasciò Medina per dar vita ad una politica o una rivolta militare contro i governanti al potere e distruggere un regime oppressivo riguadagnando i propri diritti e quelli del popolo”.

Non sono d’accordo con questa teoria, sebbene essa sia ideale, ma essa non combacia con la particolare realtà della situazione. Una persona, nel rigettare questa teoria, ha detto: “L’Imam Husayn non era un politico per potersi rivoltare contro il potere dominante”.

È sorprendente! A che scopo lottarono allora il Profeta e ‘Ali? A che scopo lottava l’Imam Husayn? Non era una questione politica? Non era per il fatto che dei criminali governavano sul popolo? Dunque, una persona responsabile avrebbe dovuto eliminare l’oppressione e prendere le redini del governo e restituire i diritti al popolo. Questo non era solo un diritto della guida, ma anche un suo dovere.

Perciò l’Imam doveva insorgere militarmente o politicamente contro il governo usurpatore, distruggere il potere dell’ignoranza, governare attraverso il proprio potere rivoluzionario, stabilire la verità nella comunità e mantenere le redini del comando.

Vorrei dire che questa rivoluzione, militare o politica, era la vera missione dell’Imam Husayn, ma, al momento, egli non ne aveva la capacità.

Chi crede che l’Imam Husayn intraprese una rivolta politica e militare, argomenta che la città di Kufa sostenne e protesse l’Imam Husayn, la sua famiglia e la famiglia del Profeta e di ‘Ali. È altresì giusto che l’Iran era dietro Kufa e che gli iraniani sostennero ‘Ali e la sua famiglia e che credettero che tutta Kufa fosse in mano all’Imam Husayn e che il popolo di Kufa era fedele e leale al suo messo, Muslim ibn Aqil.

Presumo che se Kufa era così potente e se l’Imam Husayn fosse riuscito a raggiungerla, l’avrebbe trasformata in una piazzaforte islamica dalla quale sconfiggere Damasco e stabilire un libero governo islamico sotto il suo comando. Ciononostante, io credo che il movimento dell’Imam Husayn non fosse politico e militare.

Questo non perché, come sostengono alcuni, sia stato un errore per l’Imam Husayn occuparsi di politica e intraprendere una rivoluzione politica. No. Questo è il dovere di un Imam. Quel che io dico è che egli non aveva la capacità di fare una tale Rivoluzione.

Si potrebbe obiettare: ma se l’Imam Husayn avesse raggiunto Kufa, come lei stesso ammette, avrebbe avuto la possibilità di sconfiggere Damasco e prendere quindi le redini del governo? Perché dunque non crede che la rivolta dell’Imam Husayn fosse una Rivoluzione politica e militare contro il regime Ommayade? Per chiarire questo punto, dobbiamo guardare alla partenza e alla forma del movimento dell’Imam da Medina.

L’Imam Husayn lascia Medina e va alla Mecca. A Medina riceve l’invito della gente di Kufa: “Noi crediamo in te e ti aspettiamo per riconoscerti come guida. Noi abbiamo bisogno della tua guida. Ti consegneremo il potere. Ci solleveremo con te contro l’usurpazione e l’oppressione. Ti difenderemo. Per favore liberaci da questo governo sfruttatore”.

A Medina, l’Imam Husayn annuncia: “Seguendo le tradizioni di mio nonno e di mio padre, sto per lasciare Medina per ‘invitare il popolo al bene e proibire il male“. Quindi viaggia per 600 chilometri e arriva pubblicamente alla Mecca, accompagnato dalla sua famiglia.

Alla Mecca annuncia ai pellegrini convenuti per l’annuale pellegrinaggio: “Sto andando verso la mia morte“. Una persona che sta progettando una ribellione politica non parla in questi termini. Direbbe piuttosto: “Sto partendo per combattere e uccidere. Conquisterò. Distruggerò il nemico”.

Ma l’Imam Husayn si rivolge alla gente dicendo: “La morte, per i figli di Adamo, è bella come una collana al collo di una giovane e bella fanciulla. La morte è un ornamento per l’umanità“. Poi lascia la Mecca per dirigersi verso la morte.

È possibile che un politico che vive nel centro del potere della tribù Ommayade e che è circondato da un distretto del governo dominante, in replica a un invito inviatogli da una delle remote città ribellatesi al governo centrale, vada a raggiungerli per accettare il comando della loro rivoluzione e poi annunci formalmente: “Sto venendo”, prenda sua moglie, i bambini e tutti i membri della sua famiglia, i suoi nipoti e tutti gli uomini e le donne della sua famiglia, li raccolga in una pubblica carovana – in maniera pubblica – e si muova in maniera del tutto naturale da una città all’altra, ambedue occupate da nemici che sostengono il governo centrale? Egli percorre seicento chilometri in questo modo ed entra alla Mecca.

Là si trovano tutti quelli assoggettati al governo di Damasco, tutti i poteri, i fronti ed i nazionalisti islamici. Qui egli annuncia ancora una volta di voler andare a Kufa. Lascia il versante occidentale della penisola Arabica e l’attraversa secondo l’intero asse est-ovest, alla stessa maniera; va in Iraq e arriva vicino Kufa, il centro della ribellione e della rivoluzione. È ovvio che il governo centrale non avrebbe permesso un tale movimento.

Se una nota personalità politica o un qualunque oppositore politico volesse lasciare un paese per unirsi ai rivoluzionari fuori del paese per partecipare alle loro attività contro il regime, è chiaro a quali condizioni e in che maniera dovrebbe lasciare il paese per avvicinarli.

Di certo non dovrebbe annunciarlo. Non dovrebbe fare un appello palese. Dovrebbe mantenere piuttosto segreti la sua meta e il suo viaggio così che nessuno sappia niente a riguardo. È’  ovvio che se egli annuncia formalmente al governo: “Sono un rivoluzionario che si oppone al regime. Non giurerò fedeltà al regime. Intendo lasciare il paese per unirmi ai gruppi rivoluzionari fuori del paese e lottare con loro contro questo regime. I rivoluzionari mi hanno chiesto di essere la loro guida. Per questo sto lasciando il paese. Per favore rilasciatemi il passaporto!”, essi non gli rilasceranno un passaporto, ma lo prenderanno e lo annienteranno. Che fa invece l’Imam Husayn?

Egli annuncia formalmente, chiaramente e distintamente al governo, al potere dominante, al governatore militare, al popolo: “Non giuro fedeltà. Sto lasciando la Mecca. Sto migrando a Kufa. Sto migrando verso la morte. Inizio il viaggio”.

Se il popolo avesse compreso immediatamente che l’Imam Husayn aveva lasciato la città, se l’Imam Husayn avesse lasciato segretamente la città, se egli fosse migrato tranquillamente e grazie all’aiuto delle tribù, avesse raggiunto Kufa nello stesso modo in cui il Profeta era emigrato dalla Mecca a Medina, dopo un po’ il governo centrale avrebbe capito che egli era a Kufa e fra i rivoluzionari, e sarebbe stato poi ovvio per l’Imam Husayn ribellarsi al governo.

Ma la forma del suo movimento, il suo viaggio in carovana mostra che l’Imam Husayn si era mosso per un altro scopo. Il suo scopo non era né correre né cercare l’isolamento. Egli non stava arrendendosi né stava mettendo da parte politica e ribellione per occuparsi di affari intellettuali, scientifici, teologici e morali né per una rivoluzione militare. E allora?

Egli aveva raggiunto il punto dove i pensieri erano stati paralizzati. Dove le personalità si erano vendute. I fedeli erano stati lasciati soli. Le virtù erano state isolate. Dove i giovani cadevano nella disperazione o si vendevano. Gli importanti pionieri dell’Islam erano stati martirizzati o fatti tacere e soffocati o comprati. È un tempo in cui nessuna voce proviene dalla comunità. Le penne sono state spezzate. Le lingue tagliate. Le labbra cucite. Tutti i pilastri della verità sono stati abbattuti e sono caduti sopra i seguaci fedeli.

L’Imam Husayn, da leader responsabile, capisce che se resta zitto, l’Islam diverrà una religione di governo. L’Islam sarà mutato in un potere militare ed economico e nulla più. L’Islam diverrà come gli altri regimi e poteri. Quando il potere diminuisce, quando l’esercito e il governo sono distrutti, non ne sarebbe restato più nulla. Sarebbe divenuto nulla più di una memoria storica, un evento del passato ormai esaurito.

È per questa ragione che l’Imam Husayn ora è tra due impossibilità. Né può restar zitto né può gettarsi nella lotta. Non può restare zitto perché il tempo e l’opportunità giusta stanno passando. Tutto sta crollando, eliminato dalla mente e dalla coscienza profonda della gente – sentimenti, pensieri, scuole di pensiero, mete, obiettivi, significati, ideali – tutto quel che era stato portato dal messaggio di Muhammad, tutto ciò che dell’Islam era stato portato e sviluppato attraverso il Jihad, i grandi sforzi e le lotte. Tutti obbediscono al potere dominante. Si ingannano a vicenda. Ora, la loro atmosfera è un silenzio completo, inquietudine e resa. Egli non può restar zitto perché ha il dovere di lottare contro l’oppressione.

Né d’altro canto può combattere perché non ha un esercito. E’ circondato dal dominio del regime oppressivo. Non può gridare né arrendersi né attaccare. E’ rimasto a mani vuote mentre il pesante carico di tutte le sue responsabilità è sulle sue spalle. Non ha ricevuto nulla del potere e dei risultati delle lotte e degli sforzi di suo nonno, il Profeta, di suo padre, il nobile ‘Ali, e di suo fratello, l’Imam Hasan, se non un onore, un disagio e una responsabilità molto pesanti. Egli è solo e disarmato. Di fronte a lui c’è uno degli imperi più bestiali del mondo che si copre d’equanimità e che inganna i più coprendosi della pietà, della sacralità e dell’unità che il potere dominante possiede.

Egli è solo. E’ un uomo solitario responsabile di questa scuola di pensiero. In questa scuola di pensiero, l’uomo solitario è anche responsabile di opporsi al potere determinante del destino, perché la responsabilità deriva dalla fede e dalla consapevolezza e non dal potere e dalle possibilità. E chi è più consapevole e più responsabile dell’Imam Husayn?

Qual’è la sua responsabilità? E’ quella di lottare contro l’eliminazione della verità, la distruzione dei diritti del popolo, l’annientamento di tutti i valori, l’eliminazione di tutte le memorie della Rivoluzione, la distruzione del messaggio della Rivoluzione e di proteggere la più cara delle culture e la fede della gente, perché la loro distruzione è lo scopo del più turpe dei nemici. Essi, per una volta ancora vogliono uccidere e farlo sparire nel mistero, esiliare, mettere la gente in catene; essi, gli adoratori del piacere, delle discriminazioni, gli accumulatori di ricchezza, i mercanti di valori umani, di fede, di onori, i forgiatori del nuovo sciocchezzario religioso, del razzismo, della nuova aristocrazia, della nuova ignoranza e del nuovo politeismo.

La responsabilità di resistere, lottare e combattere contro tutti questi tradimenti e crimini contro il pensiero e il popolo, ai colpi portati contro la gente e contro il Jihad condotto contro il nuovo conservatorismo e proteggere quella grande Rivoluzione divina, è posto tutto sulle spalle di un uomo. Uno solo! Nessun altro è rimasto nelle fila della verità, della giustizia, della consapevolezza, del popolo e di Dio. Tutti i fronti si sono sciolti. Tutti i difensori sono stati uccisi o sono fuggiti. Egli è rimasto solo, a mani vuote…, senza alcuna possibilità, circondato dal nemico che ha costretto gli altri al silenzio, all’indifferenza e all’ignoranza.

Ma non può né restar zitto né gridare. Non può restar zitto perché le responsabilità attendono l’agire di questo uomo solitario. Non può gridare perché il suono della sua voce è stato soffocato. Il suo grido non può raggiungere il terribile silenzio delle persone sacrificate; non giungerà alla minaccia dell’immunità, alla negligenza dell’ignoranza, allo stupore della religione dominante, non può dar vita alle contese, alle guerre false e selvagge del Califfato compiute nel nome del Jihad, vittorie, profitti, slogan, assemblee, pellegrinaggi, il Corano e l’Islam. Nel frattempo, danze, musica e arti progrediscono; potere, piacere e libertà corrotte sono annunciate nel nome del Califfato.

Egli deve lottare, ma non può. Com’è strano. Deve, ma non ne ha la capacità. Questa responsabilità schiaccia la sua coscienza. La responsabilità gli viene dal suo ‘essere Husayn’ e non dalla sua ‘capacità’. Anche se solo, incapace, disarmato e senz’aiuto, egli è pur sempre Husayn.

Che deve fare? Il suo ‘essere Husayn’ lo chiama alla lotta, ma non ha armi per lottare, e pur tuttavia ha il dovere di farlo. Tutti i sostenitori della saggezza e della religione, gli esperti di tradizioni e leggi comuni, i consiglieri della bontà e della logica, dicono unanimemente: “No!”

Ma Husayn dice: “Sì”.

Egli lascia Medina per questo scopo. E’ venuto alla Mecca per annunciare la sua risposta unica a tutti i musulmani che sono lì riuniti per le cerimonie del Pellegrinaggio. Lascia la Mecca per rispondere alla domanda: “Come?” La domanda si pone in quell’importante momento della storia nel quale il destino del popolo e dell’Islam stava cambiando e determinandosi. Al momento, tutte le cose sono crollate. Tutti gli intellettuali, le persone consapevoli e i fedeli alla verità, alla giustizia, alla libertà dell’Islam e della Rivoluzione, tutti quelli che potrebbero vedere, sentire, capire e dunque soffrire e sentirsi responsabili, quelli che anelano alla Rivoluzione, stanno chiedendosi: “Che fare?”

Ognuno ha una risposta.

I fatalisti dicono: “Niente”. Qualsiasi cosa sia accaduta continuerà ad accadere secondo la saggezza e la profondità divina. Dio vuole che sia così. Dobbiamo essere soddisfatti per quanto ci è stato dato, perché non ci è permesso di decidere il nostro destino.

Secondo costoro, è vero che esistono i crimini dell’oppressione, l’usurpazione dei diritti, le pretese di Jihad, di Zakat (tassa religiosa), le Tradizioni del Profeta, la vittoria dell’Islam, la conversione dei templi del fuoco e delle case degli idoli in moschee per la diffusione del Corano e per aumentare il numero dei musulmani. Ma tutto questo è falso e ingannevole. Ma che si può fare? Non cade foglia dall’albero senza la volontà di Dio. Dio ha voluto così. Questo è la Sua regola di saggezza. Nessuno può protestare, criticare o chiedersi perché sia così. Ogni cosa va da sé o secondo il suo destino. Qualsiasi cosa accada, buona o cattiva, accade secondo il destino eterno ed è registrata nel Corano. Se ‘Ali è stato sconfitto ed è restato solo, se Mu’awiya ha conquistato e raggiunto il potere, tutto questo è in accordo alla volontà di Dio. Il Corano dice: “Dio porta all’esistenza qualunque cosa Egli desideri che sia”. “Dio abbatte chiunque Egli desideri”. “Dio dà potere a chiunque Egli desideri”. Che si può dire allora? Che si può fare? Si può solo essere pazienti e restarsene zitti. Che altro si può fare oltre che restarsene fermi e arrendersi quando ciò che blocca una persona sono le catene costruite dal destino? Nulla.

Ma con questa filosofia vediamo che la questione della capacità o dell’incapacità al Jihad perdono di importanza. Ci si ritrova esentati da qualsiasi senso di responsabilità perché non c’è modo di scegliere la giusta soluzione. Le guide religiose rispondono: “Che dobbiamo fare? Contro chi? In opposizione a chi? Dio chiede di sperare e cercare la salvezza e il paradiso per tutti gli uomini. Come possiamo condannare un uomo e dire che andrà all’inferno e poi combatterlo? Sarebbe come compiere un atto iniquo insorgendo prima del Giorno del Decreto e condannando prima del Giorno della Giustizia”.

“Cosa accadrebbe se quest’uomo condannato, questo criminale quale Mu’awiya è, viene perdonato da Dio nel Giorno del Decreto? Non bisogna perdonarlo né chiederne la punizione; se domani Dio dovesse benedirlo, cosa risponderemmo? Qual’era il nostro dovere? Cosa faremmo? Di chi chiederemmo? A chi risponderemmo? Chi dovrebbe agire? Nessuno. Nulla. Dobbiamo aspettare e vedere cosa farà Dio”.

D’altra parte – argomentano le guide religiose – Abu Bakr, Omar, Uthman, ‘Ali, Talha, Zubayr,  Mu’awiya e Yazid erano tutti Compagni del Profeta. Erano tutti mujahidin. Ognuno di loro operò secondo il proprio sentimento e discernimento religioso. Non c’è discrepanza tra il sacro e il profano, tra l’oppressore e gli oppressi, tra l’amico e il nemico. Gli esperti non sono tenuti a considerare il punto di vista della gente. La gente ordinaria non dovrebbe interferire con gli esperti religiosi e i teologi. Dio è il Giudice Supremo. Dio è Misericordiosissimo. Non ci è consentito di chiedere perché.

Il gruppo religioso intransigente, i fondamentalisti, rispondono: “Ci sono tante strade verso Dio tante quante sono gli uomini. È il Jihad l’unica risposta? La Preghiera rituale è uno dei pilastri della religione mentre il Jihad è uno dei rami che riguardano l’incoraggiamento alle buone opere e la proibizione delle cattive. Compi ed esegui tutte le formalità, i compiti, le regole, i comandamenti, i doveri, le condizioni inerenti alla Preghiera rituale quotidiana? Ricordi tutte le regolamentazioni riguardo ai dubbi nelle Preghiere rituali che sono simili a complesse tavole logaritmiche? Hai imparato le regole attinenti il puro (tahir) e l’impuro (najis)? Le importanti ed obbligatorie regole della Preghiera?”

“I tuoi che stanno pensando alla gente e che intendono guidarla e dirigerla, hanno corretto se stessi? Sei arrivato al grado di non incorrere mai in errore? – non essere egoista, non avere nessun desiderio? – essere distaccato da ogni desiderio materiale? – essere completamente puro e innocente? I tuoi pensieri e le tue opere, anche le più insignificanti, sono tutte nell’interesse del compiacimento di Dio? Solo e esclusivamente per Dio? Hai corretto tutti i principi e le varie branche della tua religione? Ti sei purificato? Hai ricevuto misericordia? Ti consideri così innocente e corretto da poter tentare la riforma della comunità?”

“D’altra parte, il paradiso ha otto porte. Non si è obbligati ad entrarvi solo dalla porta del Jihad. Il Jihad è semplicemente una delle chiavi che aprono le porte del Paradiso. La Preghiera, le altre forme di adorazione e dhikr sono chiavi più sicure e puoi usarle senza alcun danno, perdita, pericolo o rischio!”

“Ci sono molte opere caritatevoli che ti condurranno allo stesso punto – sfamare il bisognoso, badare alle famiglie povere, visitare i luoghi santi, pregare, praticare l’ascetismo, la pietà, facendo voti, dedicandosi, aiutando il tuo vicino, dhikr, riti di preghiera, lamentazioni ed intercessioni. Arriverai alla stessa meta di colui che sceglie il Jihad; perché allora soffrire e addolorarsi scegliendo l’azione molto più difficile del Jihad? E’ stato menzionato in alcuni libri di preghiera che semplicemente leggendo alcune invocazioni e suppliche l’uomo ottiene più ricompensa e beneficio di settanta martiri della battaglia di Badr! Non è chiaro allora cosa fare?”

Un altro gruppo crede che l’ingresso di una personalità santa o di un religioso negli affari politici è una deviazione dalla vera religione. A loro dire così facendo si vende la religione ai materialisti e invece di occuparsi di etica e questioni religiose, si cerca la ricchezza e si ammassano beni terrene. Queste cose non possono essere mischiate tra loro.

“Non disse il Profeta, tornando da una guerra santa: ‘Noi ora stiamo tornando dal piccolo Jihad, ma siamo ora di fronte ad un Jihad più grande’? Gli chiesero quale genere di grande Jihad fosse. Egli rispose: ‘E’ il Jihad contro i desideri carnali!’ Bisogna dunque mettere da parte il Jihad minore e occuparsi soltanto del più grande. Bisogna lottare contro i propri desideri carnali, non contro un nemico esterno”.

Compagni, alte personalità, teologi e sapienti religiosi alle dipendenze del regime dichiarano: “Il modo di pensare di ‘Ali non è pratico e presuppone troppo sforzo. È troppo severo. Bisogna considerare la realtà, essere realisti e non idealisti. ‘Ali dominava su gran parte del mondo conosciuto, ma ancora si accomodava le scarpe da sé! Lavorava come un comune operaio. Oggi la gente giudica in base a quel che vede. Questo è vero soprattutto da quando l’Iran e Roma sono stati sconfitti e i musulmani hanno visto la gloria e magnificenza di enormi e fantastici palazzi e la grandezza e la maestà del Re dei Re dell’Iran e dei Cesari di Roma. No, questo modo di vivere non è accettabile! Non è degno della reputazione e del prestigio di un governo islamico”.

“D’altra parte, come si potrebbe tollerare il regime di ‘Ali nelle società aristocratiche dell’Iran e di Roma? Quando ‘Ali fu nominato Califfo, modificò tutte delle scale salariali e le rese uguali. Dava lo stesso salario di 3 dirham tanto a Uthman ibn Hanif, il grande ed importante statista, suo intimo amico e alto ufficiale nel suo governo, quanto ad un schiavo!” Secondo questa idea, questo sistema economico è impraticabile. Dicono: “Abbiamo visto e ricordiamo ancora che in Iran, che ora è occupato dagli arabi ed era parte dell’Impero islamico governato da ‘Ali, quando Khosroe partì per combattere i musulmani – comprendendo che secondo le condizioni di guerra, avrebbe dovuto partire tra ogni possibile cerimonia – portò con sé settemila tra donne, schiavi, servitori e musicisti!”

Dicono: “Non discutiamo se questo è giusto o meno. Diciamo solo che ‘Ali fallì a motivo della impraticabilità della sua scuola di pensiero. Egli non volle adattarsi alla situazione e alla realtà sociale del momento. Egli non era uno statista! Non era un sociologo! Offese tutti con la sua severità eccessiva. Mai volle umiliarsi davanti a personalità, capi tribù, potenti, aristocratici o famiglie nobili”.

Dicono: “Non bisogna equiparare il Califfato all’Imamato e alla Profezia! Non bisogna confrontare Mu’awiya e Yazid con il Profeta e ‘Ali! Bisogna compararli piuttosto ai Cesare e ai Re. L’odierna corte di Damasco che si accusa di vivere in un Palazzo Verde nel quale sono stati investiti fondi pubblici e che ha annullato i diritti del popolo, è il luogo dal quale l’Impero islamico mondiale domina su Iran, Roma ecc., ma è tuttavia più umile del palazzo di un Concilio Romano o di un ufficiale nominato governatore della Siria”.

Abu Dharr attaccò Mu’awiya con queste parole: “Perché mangi pane bianco utilizzando soltanto il centro del chicco? Perché porti un vestito durante il giorno ed un altro durante la notte?”

I seguaci di ‘Ali credono di vivere ancora a Medina come al tempo del Profeta e che i ‘civili’ Romani e Iraniani che si sono uniti al mondo islamico siano come i Muhajirin e gli Ansar!

Dicono: “Noi dovremmo considerare la relatività dei problemi. Una adorazione corretta e assoluta è una utopia. Bisogna guardare in faccia la realtà. E’ impossibile convincere i poveri, oggi che i musulmani dominano su una importante parte del mondo già appartenuta a due imperi – Est e Ovest – a vivere come ai tempi del Profeta o a comportarsi come ‘Ali. Il livello di vita è cresciuto.

Le tradizioni, le regole, l’etica sociale, i sistemi economici ed aristocratici, i pensieri, le idee, i saggi, la letteratura, la poesia, la musica, la danza, i divertimenti, le relazioni sociali, gli usi e i costumi della ‘civile’ Roma e dell’Iran, il sistema della classe sociale e il regime aristocratico, il sistema politico dei Cesare e dei Re, il tipo e la forma delle tradizioni monastiche ed ecclesiastiche, le convenienze gerarchiche, la burocrazia, il sistema classico ed ufficiale di governo, ed infine le progredite civiltà iraniana e romana ebbero certamente un’influenza sulle semplici comunità islamiche.

La ricchezza, il potere, la posizione e gli innumerevole ‘bottini’ guadagnati nelle vittorie musulmane fecero si che la gente s’ingrassasse ed è a causa di ciò che non ascoltava più i consigli di ‘Ali, i suoi ideali e le sue sofferenze. La maggior parte della gente era piuttosto felice della situazione. Non era più sensibile a certi problemi. Non dimostrava più alcuna sensibilità. Questa gente era cambiata essendosi asservita a ricchezza e potere. Quei pochi che non avevano obbedito erano stati passati a fil di spada!

Ricordate quel che accadde ad ‘Ali e Fatima a Medina, alla loro epoca, a causa dei loro stessi amici e compagni, a quelli che lottarono al loro fianco?

La tribù Ommayade non era infatti presente a Medina o alla Saqifah. Nessuno di loro prese parte al comitato elettivo (shura). Ricordate gli alti ufficiali del nobile ‘Ali e dell’Imam Hasan dal glorioso passato? E di come si vendettero a Mu’awiya al culmine della battaglia? Cosa ne fecero di se stessi, della loro religione, del loro passato, della loro dignità, e delle sofferenze dei loro soldati, con Mu’awiya?

E i Kharijiti? Non erano della tribù Ommayade né erano legati a quel regime. Anzi, ne erano stati nemici giurati. Venivano tutti dal popolo, commercianti, persone comuni. Erano anche esempi di santità, pii devoti che praticavano l’ascetismo. Erano esempi importanti e ben conosciuti di severa religiosità. Fate attenzione a come divennero inconsapevoli strumenti nelle mani degli Ommayadi. Essi erano stati sobillati indirettamente da Damasco e così si erano ribellati ad ‘Ali. Al culmine della battaglia, avevano discusso con ‘Ali e l’avevano abbandonato. Così divennero servi non retribuiti del nemico, usati per sconfiggere ‘Ali. Furono quelle persone buone e religiose che indebolirono ‘Ali, accusandolo, insultandolo e persino scomunicandolo e corrompendolo.

Queste persone famose come Amr ibn al-‘As, ben conosciute dalla gente, non potendo nuocere alla reputazione spirituale e religiosa di ‘Ali, provarono a distruggerlo attraverso la scomunica. Abbiamo visto come alla fine tirano i fili della sua uccisione con questi argomenti e con il fanatismo. Attraverso queste esperienze, uno può pensare che la risposta alla domanda: “Cosa fare?” sia “Niente”. E’ Mu’awiya che soddisfa queste persone e non ‘Ali. D’altro canto, Mu’awiya, prendendo in considerazione tutti i suoi punti deboli e le deviazioni, è molto più di un pensatore moderno e più realista di ‘Ali. ‘Ali intende far vivere il popolo nella devozione e nella semplicità, cosa impossibile. Il regime di Mu’awiya, invece, pur oppressivo, corrotto e di parte, rapidamente fa sviluppare la comunità. Col suo spirito libero e spensierato, imita facilmente tutti i modi e le forme delle civiltà iraniana e romana. Durante i venti anni che stette al potere, dopo aver risolto le difficoltà interne e i contrasti con personalità del calibro di Abu Dharr, ‘Ali, Hasan, Hujr ecc., egli trasforma la capitale dell’Islam in una città moderna e progredita, di stampo occidentale. Egli stabilisce una forza navale armata nel Mediterraneo, occupa Cipro e porta attacchi costanti contro l’Impero Romano d’Oriente.

Nella costruzione del Palazzo Verde di Mu’awiya, si seguono i dettami dell’architettura romana e lo si decora in stile sassanide. Invece di pochi schiavi beduini arabi, egli dirige un’orchestra composta dai migliori musicisti iraniani unitamente a ballerini romani. Imita le tradizioni e i costumi delle ipocrite corti dei Cesari e dei Re dell’Iran. I loro abiti, i cibi, i divertimenti, le decorazioni, la musica, la poesia, la letteratura, la maniera di vivere, i progetti di città, palazzi e sistemi socio-politici sono stati creati tutti modificando l’originale e semplice stile arabo verso il moderno, civile e ‘rivoluzionario’ stile Romano.

Mettendo da parte l’argomento della verità e della falsità, dell’oppressione e della giustizia, se fosse ‘Ali ad essere nel giusto o Mu’awiya, dal progresso visibile e dal punto di vista della civiltà, molto era stato fatto e continuerà ad essere fatto. Comunque, con il rinnovo della capitale ed il suo abbellimento, con lo sfarzoso tenore di vita del Califfo e dei suoi palazzi, l’Islam acquista onore e rispetto agli occhi degli stranieri, Cristiani e Magi. D’altro canto, comparando il regime precedente – quello del nobile ‘Ali – ed il regime romano e iraniano, essi dicono che bisogna ammettere che il nuovo Califfato Ommayade serviva meglio il popolo e gli era più utile. Faceva in modo che la gente si comportasse meglio – rendeva le cose più facili e gratuite. Creava inoltre rispetto, potere, bottini, benefici, vittorie, espansione, buona reputazione ed un senso di importanza per l’Islam.

Molti templi e chiese sono stati sostituiti da moschee. Ora, in molte città e paesi nelle terre profane si può ascoltare il grido di Allahu-Akbar (Dio è il più Grande), la ilaha illa-Llah (non c’è divinità se non Dio), e Muhammadin rasulu-llah (Muhammad è il Profeta di Dio). La tesoreria pubblica trabocca di tesori e bottini. Anche se questi fondi non sono stati ottenuti lecitamente (ovvero, giustamente e secondo principi islamici), vengono utilizzati nei paesi islamici. Alcuni musulmani traggono vantaggio da questo. Inoltre queste vittorie creano nuove professioni e reddito per i giovani, posizioni di prestigio per i nobili e lavoro per i musulmani.

Perciò, in risposta a: “Che fare?” si risponde: “Gli standard rivoluzionari e ideali dell’Islam del tempo del Profeta vanno rivisti. I tempi sono cambiati e l’Islam oggi non ruota più attorno alla Mecca e Medina. Spazia da Bisanzio all’Iran. Non deve perciò essere influenzato dai desideri utopistici di ‘Ali e dai suoi modi severi e difficili che aspirano ad una giustizia integrale”. La gente corre verso Mu’awiya. Come c’era da aspettarsi, la gente, già stanca di un Cesare o di un Re, non poteva tollerarlo.

“Bisogna guardare in faccia la situazione attuale. Bisogna ammettere che il potere degli Ommayadi, la politica, l’intelligenza, la ricchezza e la forza stanno servendo l’Islam al fine di stabilire i rituali dell’Islam nel mondo, il suo sviluppo e la sua crescita. Sta combattendo le religioni profane, migliorando la reputazione dell’Islam, portando avanti il Corano e il Profeta. Sta tentando di promuovere la civiltà nella comunità islamica, di far crescere le città, elevare gli standard di vita, creare benessere sociale, guadagnare ricchezze e adattarvi le grandi civiltà dell’Est e dell’Ovest”.

“Perciò, in risposta a ‘Che fare?’, diciamo che si dovrebbe fare come noi – aderire al regime Ommayade. Abbiamo visto che interferenze, guerre intestine, lotte politiche, intellettuali e mentali, dibattiti sul diritto, la giustizia, l’Imamato, la scelta, l’elezione, la virtù, la pietà, la castità, le tradizioni, le innovazioni, l’eresia, sono del tutto inutili e i suoi risultati sono la sconfitta”.

“Inoltre, non è consigliabile che mentre il Califfo Ommayade combatte una guerra santa contro l’Iran e Roma, contro il Cristianesimo e i Magi, nemici profani ed esterni, si apra un fronte interno che indebolisce il potere islamico ufficiale. Così facendo si otterrà il solo risultato di bloccarne il progresso”.

“Tutti coloro che sono dotati di spirito realistico devono cessare la lotta politica, scegliere l’isolamento, il sufismo e le devozioni, accettare la realtà e sostenere il regime Ommayade nel suo servizio per il popolo e per l’Islam. Quanto alle sue deviazioni, proveremo a correggerle e ad emendarle. In che modo? È’ ovvio – aderendo al sistema dominante”.

“D’altra parte, nel momento in cui faremo parte del sistema dominante ed avremo una posizione o una professione alta ed importante, potremo servire la gente povera, riscattare i diritti degli oppressi, affrontare questioni sociali, aiutare il bisognoso, essere anche religiosamente attivi e diffondere la religione, promuovere idee, riformare la società, combattere contro qualsiasi corruzione futura. D’altra parte, studiosi e letterati dicono: ‘Sono passati sessanta anni dalla migrazione. La rivoluzione di ‘Ali è stata sconfitta. Hasan, l’ultimo leader che si oppose all’oppressione, al conservatorismo e alle tradizioni antiche contrarie al popolo e al divino, dovette far pace con Mu’awiya, e fu da lui avvelenato. Perciò non si può far niente. E’ inutile. Occupiamoci solo di questioni religiose, della conoscenza divina, di giurisprudenza religiosa, ricerca, osservazioni e intuizioni gnostiche e attraverso questi mezzi, educhiamo il popolo con pensieri, idee e realtà islamici e a scoprire gli aspetti spirituali e i segreti scientifici del Corano’.”

“Occupiamoci solo della ricerca che ci permette di immergerci nella conoscenza divina e nella saggezza, nella filosofia della metafora, nei segreti del Corano, retorica, eloquenza, significati, espressioni, innovazioni, eresia, raccogliendo e collezionando il Corano, educando, insegnando, trascrivendo hadith, studiando il comportamento del Profeta, le guerre sante, giurisprudenza, teologia ecc. Occupiamoci di ricerca, educazione, diffusione della conoscenza religiosa, rituali e regole, promozione della cultura islamica, servendo mentalmente e scientificamente l’Islam e la comunità islamica, e null’altro!”

È così straordinario da risultar chiaro agli intellettuali, ai seguaci di ‘Ali, persino alla famiglia di ‘Ali e a quelli che sono vicini alla famiglia del Profeta e ai Bani Hashim, che la risposta alla domanda: ‘Che fare?’ è ‘Niente!’, perché il risultato di qualsiasi azione è la sconfitta. Non si può fare niente. È la storia di Caino e Abele. Non è lecito stare in piedi a mani nude … di fronte alla spada. Non è permesso. E ancora, ne siamo responsabili e saremo puniti. Non è stato detto: “Non metterti davanti alla morte con le tue stesse mani”? Il Jihad, dove il destino e la morte sono fissati, è certamente un suicidio. E’ a vantaggio del profano e dell’oppressore. È inutile.

Raccomandano di restarsene zitti e occuparsi dell’educazione religiosa del popolo, insegnando il Corano, promuovendo la giurisprudenza religiosa e ripetendo le Tradizioni del Profeta.

Ecco così che tutte le classi, incluse quelle di potere, gli uomini religiosi, gli studiosi – anche Sciiti – gli intellettuali che cercano la verità e conoscono la verità e la loro linea di condotta sociale, mentale e politica, se ne restano da parte – tutti, sessanta anni dopo la migrazione – in risposta alla domanda dei tempi, senza alcuna eccezione – a dire: ‘Niente!’

C’è un solo uomo – un uomo solitario – che dice ‘Sì’. Cos’è quel sì? È una risposta dietro la quale vi è una totale incapacità, una completa debolezza in un tempo di oscurità e silenzio, contro oppressione e tirannia, un uomo consapevole e fedele che ha ancora la responsabilità del Jihad. È’ l’ordine dell’Imam Husayn: ‘Sì!’ C’è anche un ‘devo’ nella sua incapacità. Per lui che sta vivendo nell’idea e nel Jihad.

Così, se lui è vivo e continua a vivere, è responsabile di dover lottare per un’idea. E’ l’uomo vivo che è responsabile, non l’uomo capace, e chi è più vivo di Husayn? Chi nella nostra storia ha più diritto a vivere ed è più degno d’essere vivo di Husayn?

L’anima dell’umanità, essendo consapevole, avendo fede, essendo viva, crea la responsabilità del Jihad in uomo ed Husayn è l’esempio più alto di essere vivo, ammirato e consapevole dell’umanità.

Abilità o incapacità, debolezza o forza, solitudine o moltitudine determinano soltanto la forma della missione e la maniera di approcciare la responsabilità, non la sua necessità. Egli deve lottare. Ma non ha armi. Ciononostante è suo dovere lottare. Husayn risponde al suo dovere ed egli è l’unico la cui opinione è ‘Si’. Egli è l’unico che in risposta a questa domanda in tali condizioni dice ‘Si!’ Egli è un uomo solo. Ha lasciato la sua casa di Medina. E’ andato da Medina alla Mecca durante la stagione del Pellegrinaggio, accanto alla Ka’aba dove le persone si sono riunite, per dire ‘Si’.

Ed ora egli sta lasciando la Mecca. Ha fretta. Il suo Pellegrinaggio è compiuto a metà al fine di mostrare al mondo ‘come’.

Sono passati sessanta anni dall’Egira, cinquanta anni dalla morte del Profeta. Tutti sono scomparsi. ‘Ali è scomparso. Hasan è scomparso, Abu Dharr è scomparso. Ammar è scomparso. Della seconda generazione, Hujr è scomparso e i suoi compagni sono stati massacrati. La forca è stata smantellata ed il sangue è stato lavato.

Pensieri ed idee si sono trasformate in disperazione, oscurità, deterioramento, deviazione, silenzio e paura. L’oscurità si è diffusa ovunque. Alla gente piace Abu Horayra, Abu Musa, Shurayh, Abu Darda e quelli come loro – quelli che durante la Rivoluzione Islamica, nel periodo glorioso, si erano vantati ed avevano guadagnato così rispetto – erano divenuti disgraziati e si erano evidentemente alleati con la profanità e l’oppressione.

I guerrieri tra i Compagni e i Muhajirin pensavano solo alle stanze del pubblico tesoro. I loro stomaci erano ingrossati dal cibo. Essi avevano consegnato le mani e le armi del Jihad alle mani e alle armi dei carnefici e sotto la sembianza del bisogno e dell’obiettività essi si erano radunati intorno a Yazid e l’ombra della rossa spada della sicurezza si era allargata su di loro, dal Khorasan a Damasco. Massacri, sconfitte, slealtà, cospirazioni, sotterfugi, diserzioni e delusioni avevano sparso la morte su tutto l’impero ed avevano imprigionato il fiato nei petti.

Nel cimitero della città silenziosa, non si ode più neppure il grido di un gufo. Quelli in pena mantengono un silenzio assoluto e le persone adirate stanno zitte.

I pugni stretti dei guerrieri si sono allentati, sono caduti in disgrazia e si sono voltati all’implorazione, nascosta o manifesta.

La forca è stata smantellata nel cimitero della città silente, ed il sangue è stato lavato.

Al loro posto, cespugli di rabbia e di odio, e le erbacce vi crescono.

E noi, adirati, disonestamente siamo rimasti.

Ora il tempo aspetta un uomo. Tutto è in attesa di un uomo che incarni i valori che sono stati distrutti, che incarni i simboli di tutti quegli ideali che sono rimasti senza amici e abbandonati. I sostenitori della manifestazione di queste idee e di questa fede si sono uniti al nemico. Sì. Il tempo sta aspettando l’azione di un uomo. Qualche volta è così nella storia. Sessanta anni dopo l’Egira, cinquanta anni dopo la morte del Profeta della libertà, della giustizia e del popolo. Il tempo è giunto in cui ogni cosa è lasciata cadere. Tutti gli scopi della Rivoluzione sono distrutti. La fede acquisita dal popolo è delusa.

Sì. In questi tempi neri l’aristocrazia ignorante si sta rianimando. Il potere si sta vestendo di pietà e sacralità. Il desiderio di libertà ed uguaglianza creati dall’Islam nei cuori di chi si è votato al potere o alla politica stanno morendo. L’ignoranza tribale ha sostituito la rivoluzione filantropa. Il vero Libro è stato messo sulle lance della falsità. Il suono della chiamata alla profanità si diffonde dai minareti delle moschee. Il vitello d’oro chiama all’Unità. Nimrod sostituisce Abramo. Cesare porta il turbante del Profeta di Allah. Il carnefice prende la spada del Jihad. La Fede diventa una droga. L’opera contro la profanità e le lotte dei guerrieri si sono disperse nel vento. Al loro posto, gli ipocriti si arricchiscono. Il Jihad è divenuto un mezzo per massacrare. Le tasse religiose sono un mezzo di pubblico saccheggio. La Preghiera è un mezzo per ingannare il popolo. L’Unità è stata coperta con la maschera della profanità. L’Islam è divenuto una sequela di rese. Le Tradizioni del Profeta sono divenute i pilastri del governo. Il Corano è divenuto un veicolo di ignoranza, i detti del Profeta vengono fabbricati. Bagliori di spada ancora una volta s’abbattono sulle spalle.

Si stanno prendendo nazioni in schiavitù come prima. La libertà è segregata permanentemente con una catena. I pensieri sono imprigionati e restano silenti. Le masse si sono arrese. Il libero è stato fatto prigioniero. Le volpi vengono tenute al caldo. I lupi vengono nutriti. Le lingue sono comprate con l’oro o imprigionate e tagliate dalla lama.

Il rispetto e l’onore che i Compagni avevano guadagnato nel periodo della fede e del Jihad, durante la Rivoluzione, a caro prezzo, è stato svenduto a prezzo irrisorio e il rispetto passato è stato scambiato con un governatorato civile. Essi hanno evitato i rischi di rivolta evitando di caricare le loro spalle di responsabilità e sono scappati in angoli sicuri, nell’ascetismo calmo e puro, guadagnando con ciò la salvezza e l’incolumità in un modo rispettoso, rispondendo con il loro silenzio all’oppressione, sottomettendosi al profano. Oppure sono stati uccisi nel deserto di Rabazeh o nel pascolo di Azra.

Ora, la religione e il mondo stanno correndo verso la profanità e l’oppressione. Le spade sono spezzate, le gole tagliate. La forca è stata smantellata ed il sangue è stato lavato.

Le onde della Rivoluzione, le grida di protesta, le fiamme della ribellione sono state sopite. L’eccitazione e l’entusiasmo sono scemati. L’ombra della paura e del soffocamento si sono allargate sui cimiteri dei martiri così come sul cimitero freddo e silenzioso del vivere.

Non c’è neppure il grido di un gufo che possa essere sentito tra le rovine della fede e della speranza dei musulmani. Una nuova ignoranza oscura il cielo. È più selvaggia dell’ignoranza precedente. Il nemico è più intelligente, più baldanzoso e più consapevole del primo.

Gli intellettuali hanno assaggiato le esperienze amare dei ribelli che conobbero la sconfitta e il martirio. Improvvisamente una scintilla appare nell’oscurità e brilla nel silenzio. Il viso raggiante di un martire che cammina vivo sulla terra. Dalle profondità dell’oscurità, delle corruzioni immense e delle oscure notti di disperazione si intravede la leggerezza e la potenza di ‘una speranza’.

Ancora una volta, dalla casa silenziosa e sofferente di Fatima, la casa piccola che è più grande dell’intero corso della storia, emerge un uomo, adirato, determinato, in stato di ribellione contro tutti i palazzi della crudeltà e i fronti del potere. Egli è come una montagna che contiene un vulcano o come un uragano, come quello che Dio inviò alla tribù di ‘Ad.

Un uomo emerge dalla casa di Fatima. Egli guarda a Medina e alla moschea del Profeta, alla Mecca e ad Abramo, alla Ka’aba incatenata da Nimrod, all’Islam e al Messaggio di Muhammad, al Palazzo Verde di Damasco, alle persone affamate, agli schiavi, a …

Un uomo emerge dalla casa di Fatima. Il carico di tutte le responsabilità è stato messo sulle sue spalle. Egli è l’erede della grande sofferenza dell’essere umano. Egli è l’unico successore di Adamo, Abramo, Muhammad. . . un uomo solitario.

Ma no! Una donna è uscita della casa di Fatima insieme a lui, camminandogli accanto. Lei porta sulle sue spalle metà del pesante fardello di suo fratello. Un uomo emerge dalla casa di Fatima. Solo, senza amici, a mani nude affronta il terrore, l’oscurità e la spada. Egli ha soltanto un’arma: la morte. Ma egli è il figlio della famiglia che ha insegnato l’arte di morire nella scuola della vita. Non c’è nessuno al mondo che sappia ‘come morire’ meglio di come lo sappia lui. Il suo nemico potente che sta dominando il mondo è privo di questa conoscenza. È’ a motivo di ciò che questo eroe solitario è così fiducioso della sua vittoria sull’immenso esercito del suo nemico e così deciso. Egli lo affronta senza alcuna esitazione.

Il grande insegnante del martirio ora è sorto per insegnare a quelli che considerano il Jihad solo in relazione alla capacità di vittoria e conquista. Il Martirio non è una perdita, è una scelta, una scelta per la quale il guerriero si sacrifica sulla soglia del tempio della libertà e sull’altare dell’amore, ed è vittorioso.

Husayn, l’erede di Adamo, che dà vita ai bambini dell’umanità, il successore dei grandi profeti che insegnarono all’umanità ‘come vivere’, ora è venuto ad insegnare all’umanità ‘come morire’.

Husayn insegna che la ‘morte nera’ è il misero destino di quelle persone umiliate che accettano il disprezzo per rimanere vive. Perché la morte sceglie quelli che non sono capaci di affrontare la scelta del martirio. La morte sceglie loro! La parola “shahid“, martire, contiene il significato più alto di quello che sto dicendo. Vuole dire essere testimoni, portare testimonianza. Significa anche che quel che è sensibile e percettibile, tutto si trasforma. Infine vuol dire modello, progetto, esempio.

Martirio: sorgere e portare testimonianza, nella nostra cultura e nella nostra religione non è un evento sanguinoso fortuito. Nelle altre religioni e nelle storie tribali, il martirio è il sacrificio degli eroi uccisi in battaglia dal nemico. E’ considerato un incidente doloroso e penoso. Quelli che sono uccisi così sono chiamati martiri e la loro morte è chiamata martirio.

Ma nella nostra cultura il martirio non è una morte imposta da un nemico ai nostri guerrieri. È una morte desiderata dal nostro guerriero, scelta con la piena consapevolezza, logica, raziocinio, intelligenza, comprensione, coscienza e prontezza che un essere umano possiede. Guardate a Husayn. Egli lascia la sua vita, lascia la sua città e sorge per morire perché lui non ha altri mezzi di lotta per condannare e disonorare il suo nemico. Egli sceglie questo per svelare gli inganni che coprono la brutta faccia del potere. Se lui non può sconfiggere il nemico, almeno lo disonora. Se non può conquistare il potere, può condannarlo iniettando sangue nuovo e la credenza del Jihad nei corpi morti di questa seconda generazione della Rivoluzione rivelata al Profeta.

Egli è un uomo disarmato, debole e solo. Ma è ancora responsabile del Jihad. Non ha altri mezzi eccetto il morire, avendo egli stesso scelto una ‘morte rossa’. Essere Husayn lo rende responsabile di compiere il Jihad contro tutti i corrotti e i crudeli. Egli non ha altri mezzi a sua disposizione per il suo Jihad se non la sua stessa morte. Egli prende solo se stesso e lascia la sua casa per entrare nel luogo dell’esecuzione. Noi vediamo bene come egli manifestò questo con piani meditati, pianificando una gloriosa, accurata e ben progettata partenza, migrazione e movimento. Scena dopo scena, egli chiarisce le modalità, spiega lo scopo del suo movimento, con un’unica scelta di compagni – uomini venuti a morire con lui – come tutti i membri della sua famiglia. Queste sono tutte le cose che egli possiede in questo mondo ed egli li conduce ad essere sacrificati sull’altare del martirio.

Il destino della fede sta per essere distrutto, il destino di quelle persone che stanno attendendo la giustizia islamica e la libertà, ma sono ora prigioniere di una oppressione ed una pressione peggiori che nel periodo dell’ignoranza, sta ora attendendo la sua azione.

Colui che non ha armi e nessun mezzo è venuto con tutta la sua esistenza, la sua famiglia, i suoi compagni prediletti, così che il martirio di se stesso e dell’intera sua famiglia porterà testimonianza al fatto che egli si assunse la sua responsabilità in un tempo in cui la verità era indifesa e disarmata. Egli portò la testimonianza che non poteva essere fatto nient’altro. Avete sentito che nella battaglia di Ashura, nel decimo giorno del mese di Muharram, l’Imam Husayn prese nelle sue mani il sangue che fluiva dalla gola del suo bambino, ‘Ali Asghar, e lo sollevò verso il cielo dicendo: “Ecco! Accetta da me questo sacrificio. Sii mio testimone, o mio Dio!”

È in questo tempo che un uomo, ‘morendo’, garantisce la ‘vita’ di una nazione. Il suo martirio è un mezzo per il quale la fede può permanere. Reca testimonianza al fatto che grandi crimini, falsità, oppressione e tirannia governano. Prova che la verità è stata rinnegata. Rivela l’esistenza di valori che sono stati distrutti e dimenticati. È una protesta rossa contro una sovranità nera. E’ un grido di rabbia nel silenzio che ha reciso le lingue.

Il martirio reca testimonianza di quello che si voleva far restare nascosto nella storia. È il simbolo di quel che deve esistere. Sta portando testimonianza a quel che sta accadendo in questo tempo silenzioso e segreto, ed infine, il martirio è l’unica ragione per l’esistenza, l’unico segno di esser presenti, l’unico mezzo di attacco e difesa e l’unica via di resistenza così che la verità, il diritto e la giustizia possano rimanere vivi in un tempo e sotto un regime in cui governano la vanità, la falsità e l’oppressione.

Esso ha sconfitto tutte le fortezze. Ha massacrato tutti i difensori e i seguaci fedeli. ‘Essere umani’ è stare in piedi sempre sulla soglia del baratro e del pericolo di morire. Tutti questi miracoli sono compiuti dal martirio: sorgere e portare testimonianza.

Sessanta anni dopo l’Egira, un salvatore doveva apparire e sorgere su questo nero e silente cimitero. E Husayn, consapevole del suo mandato che l’odio della storia dell’umanità ha posto sulle sue spalle, lascia la Mecca senza esitazione e si dirige verso il luogo del suo martirio. Sa che la storia lo sta aspettando. Il tempo, che è nelle mani di reazionari e politeisti, attende che egli parta.

La gente prigioniera, immobile e silenziosa, ridotta in schiavitù, insoddisfatta, necessita della sua partenza e del suo grido. Finalmente, la missione che ora è nelle mani dei diavoli, comanda la sua morte così che lui possa testimoniare il disastro. Si dice che il Profeta gli aveva detto: “Dio desidera vederti ucciso“.

Il martirio ha anche un significato speciale nella nostra filosofia umanistica. La creazione di un’umanità che è una miscela di Dio e diavolo, una mistura di spirito e creta e la combinazione di picchi altissimi e infimi, una composizione di religione e favole, devozioni, preghiere, giurisprudenza, opere buone, servizio, scienza, e tutto questo non è che lotta ed esercizio fatto dall’uomo al fine di indebolire il suo essere inferiore a favore del suo essere superiore, la sua parte di creta diabolica a favore della sua parte spirituale e divina. Ma il martirio è l’azione che un uomo, all’improvviso e in modo rivoluzionario, compie, e getta il suo essere inferiore nel fuoco di un amore e di una fede mutandosi in un essere luminoso e divino.

È per questa ragione che un martire non ha bisogno di compiere l’abluzione, non ha sudario e non ha bisogno di rendere conto nel Giorno di Giudizio. Un martire ha già sacrificato il suo essere di errore e peccato già prima di morire ed ora è sorto per testimoniare.

È per questa ragione che la sera prima di Ashura, l’Imam Husayn si lava accuratamente, si rade al meglio, veste i suoi abiti migliori, usa i migliori profumi. Nel flusso di sangue della morte egli distrugge tutto il suo passato e sulla soglia della partenza, vedendo che il numero dei martiri cresce, cadendo i suoi uno dopo l’altro, il suo destino diventa più rosso ed eccitante. Il suo cuore batte più veloce per l’entusiasmo. Egli sa che la distanza dalla sua ‘presenza’ si sta accorciando e che il martirio stesso è presenza.

Il martirio, insomma, nella nostra cultura, contrariamente alle altre scuole dove è considerato un accidente, un essere coinvolti, la morte imposta ad un eroe, una tragedia, è un grado, un livello, un rango. Non è un mezzo, ma è esso stesso una meta. È originalità. È un completamento. È un ascensore. E’ una autostrada verso il picco più alto dell’umanità ed è una cultura.

In tutte le epoche ed i secoli, quando i seguaci di una fede e di un’idea ebbero forza, essi garantirono il loro onore e la loro vite con il Jihad. Ma quando furono deboli e senza mezzi per combattere, essi garantirono le loro vite, i movimenti, la fede, il rispetto, l’onore, il futuro e la storia con il martirio. Il martirio è un invito, per ogni epoca e generazione che non può combattere, a morire.

 

Per leggere la prima parte del saggio: http://islamshia.org/il-martirio-prima-parte-a-shariati/

 

* Questo articolo è estratto dalla raccolta di scritti del dott. Ali Shariati denominata “Husayn Wares Adam” (Husayn l’erede di Adamo).

 

Traduzione a cura di Islamshia.org © E’ autorizzata la riproduzione citando la fonte

Writer : shervin | 0 Comments | Category : Ashura e il martirio dell’Imam Husayn(AS) , Novità

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