Il Martire
(seconda parte)*
Ayatullah Mutahhari
Piangere per il martire
Tra i martiri dei primi tempi dell’Islam il nome del più brillante martire fu Hamzah Ibn Abd al-Muttalib (as). Egli ricevette il soprannome di Sayyid al-Shuhada (Signore, o Principe, dei Martiri). Era lo zio del Santo Profeta (S) e diventò martire nella Battaglia di Uhud.
Coloro che hanno la fortuna di recarsi a Medina dovrebbero visitare anche la sua tomba. Quando Hamzah emigrò da Mecca era solo, giacché nessuno viveva con lui nella sua casa. Quando il Santo Profeta (S) tornò da Uhud vide che tutti i martiri avevano parenti che li piangevano, fatta eccezione per Hamzah. Egli disse solamente una frase: “Hamza non ha chi lo piange”. I Compagni del Santo Profeta (S) tornarono nelle loro case e riferirono alle proprie mogli quanto aveva detto il Santo Profeta (S). Tutte le donne che stavano piangendo per i loro figli, mariti e fratelli, immediatamente uscirono per recarsi nella casa di Hamza e piansero lì, per rispetto nei confronti del desiderio del Profeta (S). In seguito divenne una tradizione che chiunque volesse piangere per un martire dovesse prima recarsi nella casa di Hamza e piangere lì.
Questo evento mostra che sebbene l’Islam non spinga le genti a piangere per la morte dell’uomo ordinario, tende a desiderare che si pianga per un martire, perché il martire crea un’epopea e piangere per lui è come partecipare alla sua epopea, entrare in comunione con il suo spirito, provare la sua gioia e muoversi lungo l’onda che ha creato.
Il titolo di “Sayyid al-Shuhada” (Signore, o Principe, dei Martiri) venne applicato inizialmente ad Hamza e dopo l’evento di Ashura e il martirio dell’Imam al-Husayn (as) – che ‘oscurò’ tutti gli altri casi di martirio – questo titolo gli venne trasferito. Non vi è dubbio che questo epiteto si applichi ad Hamza, ma quando utilizziamo l’espressione Sayyid al-Shuhada da sola si intende l’Imam Husayn (as). Hamza fu Sayyid al-Shuhada del suo tempo mentre l’Imam Husayn (as) è Sayyid al-Shuhada di tutti i tempi, nella stessa maniera in cui la Vergine Maria (as) fu l’archetipo delle donne della sua epoca, ma Fatima (as) è la Signora delle donne di tutti i tempi.
Prima del martirio dell’Imam Husayn (as) era Hamza (as) ad essere considerato il simbolo del pianto per il martire, e versare lacrime per lui significava partecipare all’epopea del martire, entrare in comunione con il suo spirito e provare la sua gioia. Da quando l’Imam Husayn (as) venne martirizzato è lui a ricoprire questo rango.
La filosofia del pianto per il martire
Crediamo necessario a questo punto riferirci brevemente alla filosofia del piangere per il martire. Oggi giorno molta gente obietta sul piangere per l’Imam Husayn (as). Alcuni di essi asseriscono che questo costume è il risultato di un ragionamento errato e di una concezione equivoca del martirio. Questa pratica avrebbe inoltre ripercussioni negative e sarebbe responsabile dell’arretratezza e della decadenza delle genti che l’hanno adottata.
Quando ero studente a Qom lessi un libro di Mohammad Mas’ud (1), uno scrittore molto conosciuto in quei giorni. In questo libro si faceva una comparazione tra l’usanza sciita di piangere per l’Imam Husayn (as) e la pratica cristiana di celebrare la crocifissione (secondo il loro credo) di Gesù (as) festeggiando e non con il lutto.
L’autore scriveva:
“Vedete che una nazione piange per il suo martire perché considera il martirio come qualcosa di indesiderabile e deplorevole, mentre un’altra nazione si rallegra davanti alla morte del suo martire giacché considera il suo martirio come un grande traguardo e una fonte di orgoglio. Una nazione che piange e si lamenta per migliaia di anni perde naturalmente la propria vitalità e diventa debole e codarda, mentre la nazione che celebra il martirio del suo eroe diventa potente, coraggiosa e disposta all’autosacrificio.
Per una nazione il martirio significa il fallimento. La sua reazione è il pianto ed il lamento che conducono a debolezza, impotenza e sottomissione. Ma per un’altra nazione il martirio significa trionfo, e per questo la sua reazione è di gioia e rallegramento, sollevando così il morale.”
Questo è il tipo di critica fatto da questo autore. Gli stessi argomenti vengono presentati anche dagli altri critici.
Desideriamo analizzare questa questione e provare che la celebrazione festiva del martirio per i cristiani sorge dal loro approccio individualistico ed il lamento dei musulmani per i martiri dal loro approccio sociale (2).
Non voglio certamente giustificare l’attitudine di coloro fra le nostre masse che vedono l’Imam Husayn (as) solamente come una persona che subì una grande ingiustizia, che per nulla venne assassinata e non ha compiuto niente di eroico. Essi esprimono un profondo lamento per la sua morte, ma prestano poca attenzione alla sua eroica ed esemplare azione. Abbiamo già denunciato questa attitudine. Vogliamo spiegare perché gli Imam (as) hanno esortato a piangere per il martire e quale è la filosofia reale che soggiace a questa esortazione.
Non conosciamo quando e chi iniziò la celebrazione festiva del martirio di Gesù (as), ma sappiamo che il piangere per i martiri è stato raccomandato dall’Islam ed è una dottrina indiscutibile della scuola Sciita dell’Islam.
Ora, per analizzare il punto principale, discutiamo prima l’aspetto individuale della morte e del martirio. Per una persona la morte è un traguardo o è qualcosa di indesiderabile? Gli altri dovranno considerarla come un atto eroico da parte della persona cui concerne?
Sappiamo che in questo mondo ci sono state scuole di pensiero, ed alcune di esse esistono ancora, secondo le quali la relazione tra l’uomo e il mondo, o in altre parole, tra l’anima e il corpo, è simile alla relazione tra un prigioniero ed il carcere, tra un uomo che cade in un pozzo ed il pozzo stesso, o tra un uccello e la sua gabbia. Naturalmente, secondo queste scuole, la morte equivale alla liberazione ed emancipazione. Pertanto esse permettono il suicidio. Si dice che il famoso falso profeta Manicheo (3) sostenesse lo stesso punto di vista. Secondo questa teoria la morte possiede un valore positivo ed è desiderabile per tutti, e nessuna morte è disdicevole. La liberazione dal carcere, uscire dal pozzo e la rottura di una gabbia sono motivi di gioia, non di sofferenza.
Un’altra teoria sostiene che la morte significhi non-esistenza, completo annichilimento e distruzione totale, mentre la vita significhi esistere. Ovviamente l’esistenza è migliore della non-esistenza. E’ una cosa istintiva che la vita, qualunque sia la sua forma, sia preferibile alla morte.
Molana [Rumi] (4) cita il medico di Alessandria Galeno (5), riportando che questi disse che in ogni circostanza egli preferisse il vivere al morire, non importa quale forma prendesse la vita. Egli preferiva la vita anche se significasse stare nella pancia di un mulo tenendo soltanto la testa fuori, sotto la coda dell’animale, per respirare. Secondo questa teoria la morte possiede solo un valore negativo.
Esiste un’altra teoria secondo la quale la morte non significa annichilimento. Significa solamente passare da un mondo a un altro. La relazione tra l’uomo ed il mondo, e tra l’anima ed il corpo, non è simile a quella che vi è tra il prigioniero e la prigione, tra l’individuo nel pozzo ed il pozzo, tra l’uccello e la gabbia. E’ simile alla relazione tra uno studente e la sua scuola e tra un agricoltore e la sua fattoria.
E’ vero che a volte uno studente può trovarsi a vivere lontano dalla propria casa, senza la compagnia dei suoi amici e proseguire i suoi studi all’interno della ristretta e limitata atmosfera della scuola, ma l’unico modo per avere una vita felice nella società è completare con successo il suo corso di studi. E’ anche vero che il contadino deve lasciare la propria casa e la sua vita familiare per lavorare nella propria fattoria, ma ciò gli fornisce un buon mezzo di sostentamento e gli permette di avere una vita familiare felice nel corso dell’anno.
La relazione tra questo mondo e l’altro, e quella tra l’anima e il corpo, è di tale tipo. Anche a coloro che possiedono questa visione del mondo ma che falliscono nella vita pratica a causa della loro pigrizia e delle loro azioni riprovevoli, l’idea della morte naturalmente sembra terribile ed orrenda. Di fatto essi temono la morte perché temono le conseguenze delle loro azioni. Ma l’attitudine di coloro che hanno questa visione del mondo ma nella pratica riescono ad affermarsi è naturalmente quella dello studente che ha studiato diligentemente o quella dell’agricoltore che ha lavorato duramente. E’ ovvio che tale studente abbia il desiderio di ritornare nel suo paese e il suo cuore batta per rivedere la sua casa, i suoi cari e i suoi amici, e allo stesso modo che il contadino pensi costantemente al giorno in cui finirà il lavoro e porterà a casa il frutto dei suoi sforzi. Lo studente, nonostante l’ardore del desiderio di ritornare nel suo paese, si sforza comunque per non lasciare i suoi studi incompiuti, e il contadino non sacrifica mai il suo lavoro e il suo dovere per questo suo desiderio.
Gli intimi di Dio (awliya Allah) sono come quello studente di successo per cui trasferirsi nell’altro mondo – la morte – è un desiderio, e tale desiderio non li lascia in pace neanche per un attimo. Come dice l’Imam Alì (as) al loro riguardo: “Se Dio non avesse fissato l’ora della loro morte, le loro anime non sarebbero rimaste nei propri corpi neanche per un momento, per via del desiderio della ricompensa e del timore della retribuzione”.
Allo stesso tempo essi non corrono dietro la morte perché sanno che è solamente questa vita a fornire l’opportunità di operare e crescere spirituale. Essi sanno che più vivranno, maggiore sarà la perfezione che raggiungeranno. Per questo essi resistono alla morte e chiedono sempre a Dio di conceder loro una lunga vita. Rivolgendosi agli ebrei che pretendevano di essere amici di Dio, il Sacro Corano dice:
“Di’: “Se è vostra la dimora finale presso Dio, escludendo tutte le altre genti, auguratevi la morte se siete veritieri!”. Essi non lo faranno mai, per ciò che le loro mani hanno commesso. Dio conosce bene i prevaricatori.” (Corano 2, 94-95)
“Di’: «O voi che praticate il giudaismo, se pretendete di essere gli alleati di Dio, ad esclusione degli altri uomini, auguratevi la morte, se siete veritieri». Giammai se lo augureranno, a causa di quel che hanno commesso le loro mani. Dio ben conosce gli empi.” (Corano 62, 6-7)
Più avanti dice che essi mai desidereranno la morte perché conoscono quali opere commisero e quale castigo li attende nell’Aldilà. Queste persone appartengono alla terza categoria menzionata precedentemente.
Ci sono due condizioni nelle quali gli intimi di Dio (Awliya Allah) si astengono dal pregare per una vita lunga. La prima è quando raggiungono uno stato continuo nel compiere opere virtuose e temono che invece di progredire possano retrocedere. L’Imam ‘Ali ibn al-Husayn (as) diceva: “O Dio! Prolunga la mia vita soltanto se è spesa nella Tua obbedienza, ma se diventa il pascolo del Demonio, portami con Te.” (6)
In secondo luogo, gli Awliya Allah pregano chiedendo incondizionatamente la morte sotto forma di martirio, giacché esso costituisce tanto un’azione virtuosa quanto un’ascesi spirituale. Già abbiamo citato un detto profetico secondo cui il martirio rappresenta la virtù suprema. Il martirio significa inoltre entrare nell’Aldilà, perciò l’uomo nobile possiede tale aspirazione.
E’ per questo che troviamo che la gioia dell’Imam ‘Ali (as) fu illimitata quando sentì che sarebbe diventato martire.
Molte frasi pronunciate dall’Imam ‘Ali (as) durante il periodo che va tra il momento in cui fu ferito e la sua dipartita da questo mondo sono riportate in opere quali il Nahjul-Balagha. Una di esse possiede una grande relazione con il punto della nostra discussione:
“Giuro su Dio che niente di inaspettato e indesiderabile è accaduto. Quanto successo è esattamente quello che avevo desiderato. Ho raggiunto il martirio, che avevo intensamente desiderato. Sono come l’uomo in cerca di acqua in una notte oscura e che all’improvviso trova un pozzo o una fonte. Sono come l’uomo che era faticosamente alla ricerca di qualcosa e l’ha trovata”.
Nella mattina del 19 del mese di Ramadan, quando il suo assassino lo colpì alla testa, la prima o seconda cosa che gli sentirono dire fu: “Futzu wa Rabbil Ka’aba!” (“Giuro sul Signore della Ka’aba, ho trionfato!”). Così, dal punto di vista islamico e personale, il martirio è un grande traguardo o, per meglio dire, è il miglior traguardo ed esso spetta al martire.
L’Imam Husayn (as) narra: “Mio nonno mi disse che ero destinato a raggiungere una posizione spirituale particolarmente elevata presso Dio, ma che non poteva esser raggiunta se non attraverso il martirio”. Il martirio è quindi per l’Imam Husayn (as) un’ascesi, il livello più alto di perfezione.
Fin’ora abbiamo analizzato l’aspetto personale della morte e del martirio e siamo giunti alla conclusione che la morte sotto forma di martirio è realmente un traguardo che spetta al martire. Da questa prospettiva non vi è dubbio che la morte sia un evento felice, ed è per questo che il grande sapiente islamico Ibn Tawus (7) disse: “Se non fossero state date istruzioni di piangere, avrei preferito celebrare i giorni del martirio degli Imam con festività”.
Rispetto a questa frase si può dire che il cristianesimo è nel giusto nel celebrare il martirio di Gesù (as) come un evento festivo. Anche l’Islam riconosce pienamente che il martirio è una vittoria del martire.
Ma dal punto di vista islamico dobbiamo vedere anche l’altra faccia della medaglia. Dal punto di vista sociale il martirio è un fenomeno che accade in circostanze specifiche ed è preceduto e seguito da eventi che devono essere valutati dovutamente. Nella società la reazione nei confronti del martire non dipende meramente dal suo successo o dalla sua sconfitta, ma dalla posizione della popolazione nei confronti della sua motivazione e di quella del fronte avverso.
Un altro aspetto del martirio è importante. E’ la duplice relazione del martire con la società: a) la sua relazione con coloro che sono stati privati della sua presenza; b) La sua relazione con coloro che, a causa della loro corruzione, avevano creato un’atmosfera nella quale egli si è sollevato contro di essi e ha ricevuto il martirio per mano loro.
E’ evidente che dal punto di vista dei suoi seguaci la morte di un martire è una grande perdita. Quando esprimono le loro emozioni in realtà piangono per loro stessi. Il martirio è desiderabile se consideriamo la situazione nella quale ha luogo. E’ necessario a causa di una situazione indesiderabile e sgradita. A questo riguardo può essere comparata ad un’operazione chirurgica che diventa necessaria, come nel caso dell’appendice, dell’ulcera duodenale o gastrica o di altre malattie simili. In assenza di tale situazione, l’operazione sarebbe ovviamente un errore.
Dal punto di vista sociale la lezione che le persone dovrebbero trarre dal martirio è di non permettere che si sviluppino situazioni simili. Questa tragedia viene presentata come un evento che non dovrebbe ripetersi. L’esternare tristezza e dolore e la condanna degli oppressori e degli assassini del martire hanno l’intenzione di dissuadere i membri della società dal seguire l’esempio di tali criminali. Conseguentemente, non troviamo nessuno tra coloro che seguono la scuola delle cerimonie di lutto per la morte dell’Imam Husayn (as) che desideri di avere la minima somiglianza con Yazid, Ibn Ziyad e simili (8).
Un altro insegnamento che la società dovrebbe apprendere è che in essa si verificheranno situazioni in cui sarà richiesto il martirio ed è per questo che l’atto eroico del martire deve essere presentato come un’azione cosciente e consapevole e non imposta, e che le emozioni popolari dovrebbero avere il profumo di quelle del martire. E’ qui che diciamo che piangere per il martire significa partecipare al suo fervore, essere in comunione con il suo spirito, in armonia con la sua aspirazione e muoversi lungo la sua onda.
Vediamo adesso se si accordano maggiormente con lo spirito del martirio la festività, il rallegramento, il ballo ed alcune volte anche la burla, il bere e la baldoria – come testimoniano le feste religiose dei cristiani – o il pianto.
Una comune errata interpretazione prevale riguardo il pianto, secondo la quale esso è causato dal dolore e dalla sofferenza e per tanto sarebbe qualcosa di negativo. Il piangere e il ridere sono due caratteristiche peculiari dell’essere umano. Altri animali provano piacere e dolore e diventano contenti o tristi, ma non ridono né piangono. Piangere e ridere sono manifestazioni di intense emozioni peculiari solo agli esseri umani.
Ridere possiede molte forme e tipologie che non vogliamo discutere qui. Anche il pianto possiede a sua volta differenti forme, ma è sempre accompagnato da qualche tipo di emozione e sensibilità. Tutti conosciamo lacrime di amore e di gioia. Quando una persona piange per amore si sente più vicina alla persona amata e in realtà in quello stato si sente unita al suo amato. L’allegria ed il riso, d’altra parte, hanno un carattere introverso, mentre il piangere ha un carattere estroverso, che indica abnegazione e unione con l’amato. Da questo punto di vista il riso è come la passione, che è introversa, e il piangere come l’amore, che è estroverso.
Grazie alla sua nobile personalità e morte eroica l’Imam Husayn (as) domina i cuori di milioni di persone. Il mondo intero potrebbe esser rivoluzionato se le nostre guide religiose potessero utilizzare questa enorme ricchezza di emozioni per porre in armonia lo spirito dell’uomo comune con il sublime spirito dell’Imam Husayn (as).
Il segreto dell’immortalità dell’Imam Husayn (as) risiede nel fatto che da una parte il suo movimento era logico e razionale e dall’altra parte ha evocato emozioni profonde. Quindi il consiglio dei Puri Imam (as) di piangere intensamente per l’Imam Husayn (as) è uno dei più saggi consigli. Sono questi pianti ad aver radicato la scuola dell’Imam Husayn nel profondo delle anime della gente. Ripeto: a condizione che coloro che dovrebbero proteggere questa grande ricchezza sappiano come utilizzarla.
La terra (turbah) del martire
Quando il Profeta diede a sua figlia Fatima Zahra (as) il ben conosciuto dhikr (che anche noi usualmente recitiamo dopo le Preghiere rituali o al momento di andare a dormire) (9), ella si recò presso la tomba di suo zio Hamza ibn Abd al-Muttalib (as) e raccolse da lì della terra per fare una mesbah (rosario). Quale è il significato di questa azione? Che la tomba di un martire è sacra. La terra nei suoi dintorni è sacra. E’ necessario un rosario per contare lo dhikr,e in realtà non vi è nessuna differenza se un rosario è composto da legno, pietra o argilla. La terra potrebbe esser presa da qualsiasi luogo. Ma preferiamo prenderla nelle vicinanze della tomba del martire, per il rispetto che nutriamo nei confronti del martire e del martirio e perché riconosciamo la loro santità.
Dopo il martirio dell’Imam Husayn (as), se qualcuno volesse cercare le benedizioni dalla tomba di un martire dovrebbe avere un rosario con la terra del mausoleo dell’Imam Husayn (as).
Quando vogliamo realizzare le nostre Preghiere rituali non consideriamo permissibile compiere la prostrazione (sajdah) su coperte, tappeti o qualsiasi altra cosa che può esser utilizzata come cibo o vestiario. Perciò prendiamo con noi un pezzo di pietra o di terra (10). Gli Imam (as) hanno detto che è meglio realizzare la prosternazione sulla terra della tomba di un martire. Se fosse possibile bisognerebbe ottenere la terra di Karbala, che emana il profumo dei martiri. Quando realizzate le vostre Preghiere rituali potete poggiare la fronte su qualsiasi tipo di terra, ma se per questo proposito si utilizza la terra che ha avuto qualche tipo di contatto con i martiri la vostra ricompensa sarà aumentata cento volte.
L’Imam ha detto: “Fate la prosternazioni sulla tomba di mio nonno, Husayn ibn ‘Ali (as). Quando una persona realizza le proprie Preghiere rituali prosternandosi su questa terra sacra, attraversa sette veli.” L’idea è far sì che le genti comprendano il valore del martire e che la terra della sua tomba aumenti il valore della loro Preghiera rituale.
La notte del martire
E’ pratica comune, nel mondo moderno, dedicare un giorno di ogni anno ad un determinato gruppo o categoria di persone per rendere loro omaggio. Il giorno della Madre e il Giorno del Maestro sono esempi di tali giorni. Non troviamo però qualcuno che abbia dedicato un giorno specifico ai martiri ad eccezione dei musulmani. E’ il giorno di Ashura (10 di Muharram). La sua notte può esser considerata come la Notte del Martire.
Abbiamo già detto che la logica di un martire è una combinazione della logica di un innamorato con quella di un restauratore. Se si uniscono la personalità di un restauratore con quella di un amante gnostico prende forma un martire. Vengono ad esistere un Muslim ibn Awsajah, un Habib ibn Muzahir e un Zuhayr ibn Qayn (11). Bisogna ad ogni modo ricordare che non tutti i martiri possiedono il medesimo rango spirituale.
La testimonianza del Principe dei Martiri
L’Imam Husayn (as) offrì una testimonianza riguardo i martiri di Ashura che indica la loro sublime stazione. E’ un fatto noto che i martirioccupino una posizione prominente tra i pii e i virtuosi, e i Compagni dell’Imam Husayn (as) occupano una posizione prominente tra i martiri. Sapete quale era la testimonianza dell’Imam Husayn (as)? Sebbene i suoi Compagni fossero stati selezionati precedentemente e coloro che erano risultati inadeguati avevano già abbandonato il campo, nella notte di Ashura li mise nuovamente alla prova. Questa volta neanche una sola persona venne ‘bocciata’. Cosa fece nella notte che precedette il giorno Ashura?
Abbiamo due versioni della narrazione. Secondo la prima versione l’Imam Husayn (as) aveva una tenda dove era custodita l’acqua. Questa tenda, sin dal primo giorno, era stata assegnata a ospitare le otri piene di acqua e per questo veniva chiamata qirab al-maa (tenda delle otri di acqua). E’ riportato che egli riunì lì tutti i suoi Compagni. Ora non so perché lì radunò in quel luogo; forse perché in quella notte quella tenda non aveva più senso, non essendo rimasta più alcuna otre di acqua. Secondo quanto riportato dalla maggior parte dei narratori dei maqtal la notte di Ashura l’Imam Husayn (as) mandò il suo caro figlio Ali Akbar insieme a un gruppo di suoi Compagni che riuscirono a portare un po’ di acqua dall’Eufrate a cui attinsero tutti, e poi l’Imam disse di fare l’abluzione rituale maggiore (ghusl) con quella stessa acqua e che sarebbe stato l’ultimo sorso che avrebbero potuto bere.
La seconda versione parla invece di inda qurb al-masa, che significa che egli riunì tutti i suoi Compagni verso il tramonto. Il perché scelse questa tenda non lo sappiamo esattamente. Probabilmente perché la tenda, quella notte, non aveva più nessuna funzione. L’unica acqua che potevano aver avuto era quella che era stata trasportata dal figlio dell’Imam Husayn (as) con sé, ‘Ali Akbar, dall’Eufrate. Tutti bevvero l’acqua che portarono. Più tardi l’Imam Husayn (as) chiese loro di compiere l’abluzione rituale maggiore. Disse che questa era l’ultima provvista di acqua di questo mondo a cui potevano attingere. Al di là di quale delle due versione sia corretta, egli riunì tutti i suoi Compagni e tenne un eloquente e potente sermone nel quale fece riferimento agli sviluppi di quel pomeriggio.
Già sapete che nel pomeriggio di Tasua (il 9 di Muharram, il giorno precedente Ashura) il destino era ormai chiaro e l’ultimatum sarebbe scaduto il giorno successivo. L’Imam Zayn-ul-Abedin (as), che era presente, ha riportato che l’Imam Husayn (as) riunì i suoi Compagni in una tenda adiacente a quella in cui lui (l’Imam Zayn-ul-Abedin) era confinato a letto, e vi tenne un sermone. Egli iniziò dicendo: “Lodo Dio con la migliore lode. Gli rendo grazie in tutte le circostanze, siano piacevoli o no”.
Per una persona che compie un passo nella ricerca della verità e della rettitudine, tutto ciò che succede è buono. Un uomo giusto coscientemente compie il suo dovere in tutte le circostanze, senza prestare importanza alle conseguenze.
In questo contesto l’Imam Husayn (as) diede una risposta molto interessante al celebre poeta Farazdaq (12), che incontrò lungo la strada per Karbala. Farazdaq spiegò la pericolosa situazione dell’Iraq. In risposta l’Imam Husayn (as) disse: “Se le cose si sviluppassero come desideriamo, loderemo Iddio e solleciteremo il Suo aiuto, essendo grati a Lui; ma se accade qualcosa contraria, noi non saremo i perdenti, giacché le nostre intenzioni sono buone e la nostra coscienza è limpida. Qualsiasi cosa accada è quindi positiva, non negativa. Io Lo ringrazio in tutte le circostanze, piacevoli o sgradevoli che siano”.
Quello che voleva dire era che nella sua vita aveva visto giorni belli e felici come gli spenditi giorni in cui da bambino si sedeva nel grembo del Santo Profeta (S) e quando passeggiava seduto sulle sue spalle. Questo era un periodo in cui era il bambino più caro nel mondo islamico. Egli ringraziava Iddio per questi giorni e ringraziava Iddio anche per le presenti difficoltà, perché considerava tutto quello che gli accadeva come positivo. Egli ringraziava Iddio che aveva eletto la sua Famiglia per la Profezia e alla sua Casa aveva elargito il dono della completa comprensione del Sacro Corano e di una corretta visione della religione.
Dopo aver affermato questo, l’Imam realizzò la sua storica testimonianza riguardo ai suoi Compagni ed ai membri della sua Famiglia, dicendo: “Non conosco nessun Compagno migliore e più fedele dei miei Compagni; né dei parenti più virtuosi e più rispettosi dei miei”.
Così egli conferì ai propri Compagni una posizione più alta di quella dei Compagni del Santo Profeta (S) che erano stati uccisi combattendo in sua compagnia, e dei compagni di suo padre, l’Imam ‘Ali (as), che erano presenti nelle battaglie di Jamal, Siffin e Nahrawan (13). Perché la loro particolare situazione era più importante.
L’Imam disse che non conosceva nessun parente più virtuoso e rispettoso dei suoi. Così espresse il proprio riconoscimento per l’alta stazione da essi raggiunta, esprimendo la propria gratitudine. Inoltre egli continuò dicendo:“…Desidero dire a tutti voi – miei Compagni e parenti – che queste genti (i nemici) sono interessate solamente a me. Mi considerano il loro unico avversario. Essi vogliono che io presti il patto di fedeltà [al califfo illegittimo Yazid]. Uccidendomi non avranno niente a che vedere con voi. Il nemico non è interessato a voi. Mi avete giurato alleanza ed ora io vi libero da questo patto. Non siete obbligati a rimanere qui. Non siete obbligati da alcun amico o nemico. Siete assolutamente liberi. Chi vuole andarsene, può farlo.”
Poi, rivolgendosi ai suoi Compagni, disse:
“Che ognuno di voi prenda la mano di uno dei miei parenti e vada via”.
I membri della famiglia dell’Imam Husayn (as) includevano adulti e minori, ed i Compagni rimasti non erano di quella zona. L’Imam intendeva dire che i suoi parenti non dovevano andarsene insieme, ma che ogni Compagno prendesse e accompagnasse alcuni dei suoi parenti.
E’ qui che comprendiamo l’alta stazione dei Compagni dell’Imam Husayn (as), in quanto non erano obbligati né da parte dei nemici né da parte dell’Imam. Erano tutti liberi.
Due aspetti del compiacimento dell’Imam
Il giorno di Ashura, e durante la notte che lo precedette, fu un motivo di grande compiacimento per l’Imam vedere che tutti i suoi parenti, dal più piccolo fino alla persona più anziana, seguirono i suoi passi.
Un altro motivo di compiacimento fu che nessuno dei suoi Compagni mostrò il minimo segno di debolezza. Nessuno di essi si unì al nemico. Al contrario un buon numero di persone che gli erano state ostili passarono dalla suo parte. Tali persone si unirono a loro nel giorno di Ashura e nella notte precedente. Hurr ibn Yazid (14) era uno di essi. In totale, trenta persone si unirono al suo campo durante la notte di Ashura. Questi furono eventi gratificanti per l’Imam.
Uno per uno i Compagni dell’Imam Husayn (as) gli dissero: “Nostra Guida! Dovremmo forse andare e lasciarti solo? Questo non può accadere. La nostra vita non ha valore comparata a te.”
Uno di essi disse: “Io voglio che mi uccidano; che il mio corpo sia bruciato e le mie ceneri disperse. Vorrei esser riportato di nuovo in vita, ed esser ucciso un’altra volta per te. Desidero che ciò avvenga settanta volte. Essere ucciso una sola volta è niente.”
Un altro disse: “Voglio che mi uccidano mille volte consecutivamente. Vorrei avere mille vite, per sacrificarle tutte per te.”
Il primo a parlare fu suo fratello, Abul Fadl al-Abbas (15). Gli altri ripeterono quello che egli disse.
Questa fu la loro prova. Dopo che tutti essi annunciarono la loro decisione, l’Imam Husayn (as) parlò di ciò che sarebbe accaduto il giorno successivo. Egli disse: “Vi annuncio che tutti voi sarete uccisi domani.” Tutti ringraziarono Iddio per avergli concesso l’opportunità di sacrificare le loro vite per la causa di Dio e del discendente del loro Santo Profeta (S).
C’è molto su cui riflettere. Se non fosse stata per la logica di un martire si sarebbe potuto arguire che la presenza di queste persone fosse inutile. Se l’Imam Husayn (as) doveva essere ucciso, perché dovevano sacrificare le loro vite? Perché dovevano rimanere? Perché l’Imam Husayn (as) gli ha permesso di rimanere? Perché non li ha obbligati ad andarsene? Perché non gli ha detto: “Nessuno vi cerca, la vostra permanenza non ha per noi alcuna utilità e l’unico risultato sarà quello che perderete la vostra vita, pertanto andatevene”? Perché non ha detto che era obbligatorio (wajib) andarsene e vietato (haram) rimanere? Se una persona come noi fosse stata al posto dell’Imam Husayn (as) e nella posizione di formulare un editto religioso (masnad shar’), avrebbe dichiarato o scritto: “Dichiaro d’ora in poi la vostra permanenza vietata (haram) e andarvene obbligatorio (wajib); e se rimarrete, da questo momento in poi, il vostro viaggio [compiuto verso Karbala] diventerà un peccato e quindi dovrete realizzare la Preghiera rituale in forma completa e non più da viaggiatore.”
Ma l’Imam Husayn (as) non ha fatto questo, ma anzi ha elogiato e lodato la loro predisposizione al martirio? Ciò dimostra che vi è una logica differente. Il martire deve sacrificare la propria vita per creare un’epopea, illuminare la società, vivificarla e infondere sangue fresco nel suo corpo. Questa fu una di tali occasioni.
Sconfiggere il nemico non è l’unico obiettivo del martirio. Possiede anche quello di creare un’epopea. Se quel giorno non fossero diventati martiri, come si sarebbe potuta produrre una simile epopea? Nonostante l’Imam Husayn (as) fosse la figura centrale in questo evento di martirio, i suoi Compagni contribuirono al suo lustro, grandezza e dignità. Senza il loro contributo il martirio dell’Imam Husayn (as) non avrebbe raggiunto tanta grandezza e importanza per smuovere, educare ed animare le genti per centinaia e migliaia di anni.
“Gli ingiusti vedranno, ben presto, il destino verso il quale si avviano.” (Sacro Corano: XXVI, 227)
NOTE
*Per leggere la prima parte del presente saggio, cfr. http://islamshia.org/il-martire-prima-parte-ayatullah-motahhari/
Traduzione a cura di Islamshia.org © E’ autorizzata la riproduzione citando la fonte