La precedente definizione potrebbe essere migliorata suggerendo che il Ta’wil sia il fatto reale dal quale il discorso dipende. Se il discorso contiene un’informazione, allora il fatto o l’evento menzionato sarebbe la sua “interpretazione”, e non ha alcuna importanza che gli eventi siano passati, come quelli dei Profeti e dei popoli del passato, o futuri, come nel caso dei versetti che descrivono gli attributi, i nomi e le promesse di Dio, e tutto quello che si manifesterà nel Giorno del Giudizio; e se esso promulga una legge, in tal caso sarà il beneficio che se ne trae a costituirne l’”interpretazione”. Ma anche questa spiegazione è insoddisfacente.
In primo luogo, in un caso siffatto, il beneficio dipende dal fatto che si esegua o no quel che si è ingiunto di fare. Simili benefici non hanno luogo per il semplice fatto di avere promulgato una legge. In altre parole, l’”interpretazione finale” è, in questo caso, un fatto reale che procede da un fatto reale, ossia dall’osservanza della legge. Pertanto, se è evidente che l’“interpretazione finale” è un fatto reale, ciò che ad essa fa ritorno, o piuttosto, per mezzo della quale essa si manifesta, è anch’esso un fatto reale, e non soltanto un’informazione o un ordine. Quando Dio ci dice che i versetti del Libro hanno un Ta’wil, un’“interpretazione finale”, ciò significa che essi narrano eventi reali (come ad esempio nel caso delle storie), o riguardano argomenti d’ordine pratico realmente esistenti (come nella promulgazione delle leggi), che a loro volta si riconnettono ad una loro interpretazione finale. Questa attitudine ad avere un Ta’wil diviene pertanto una proprietà non del discorso, ma della materia del discorso.
In secondo luogo, come abbiamo già prima spiegato, Ta’wil significa letteralmente “ritorno”, o “termine di ritorno”, e non una qualsivoglia sua specie, ma bensì una sua varietà particolare. Un dipendente, tanto per fare un esempio, “ritorna”, si riconnette al suo capo, ma quest’ultimo non è certo la sua interpretazione finale, e del pari, tutti i numeri “ritornano”, fanno riferimento all’uno, ma l’unità non è per nulla la loro interpretazione finale.
Per comprendere meglio l’argomento, possiamo ricorrere alla vicenda coranica di Mosè (as) e del Khidr (as). Il Khidr (as) fa uso due volte della parola Ta’wil, quando dice a Mosè “ti informerò dell’interpretazione che non potresti tollerare” (XVIII, 78), e “questa è l’interpretazione che non avevi potuto tollerare” (XVIII, 82). Quel che egli spiega a Mosè (as), è il vero significato delle sue azioni, che Mosè (as) aveva mal giudicato perché era all’oscuro dei suoi veri propositi (XVIII, 71, 74, 77, 79, 80-81, 82). Quel che risulta ovvio da questi versetti, è che il “ritorno” in essi menzionato lo si può ricondurre alla relazione che sussiste tra il castigo inflitto ad un bambino, e la formazione del suo carattere, alla quale il castigo “ritorna”, giacché il bambino è punito per essere educato. E’ evidente pertanto che un “ritorno” siffatto, che si riferisce ad uno scopo, nulla ha a che vedere con la conformità tra un’informazione ed il fatto che essa descrive, come nel caso invece della conformità tra la frase “Zayd è venuto” con il fatto stesso della venuta di Zayd.
Per un chiarimento ulteriore della questione, consideriamo l’uso che della parola Ta’wil viene fatto nella Sura di Giuseppe (as) (XII, 6, 21, 36, 41, 43-48, 100, 101). In tutti questi versetti, la parola è usata per contraddistinguere gli eventi a cui si riferiscono dei sogni. Colui che sogna, narra gli eventi non nella forma reale, ma in forma allegorica. E Giuseppe (as) fa “ritornare” queste allegorie agli eventi reali che essi rappresentano. I sogni erano forme, e le loro “interpretazioni” le realtà sostanziali che si celavano dietro a queste forme. (In altre parole) in questo caso il Ta’wil è la realtà allegoricamente rappresentata dalle parole (o frasi); queste locuzioni debbono essere fatte “ritornare” alla realtà che esse rappresentano, se se ne vuole conoscere il significato autentico.
Riflettendo peraltro sui versetti che descrivono il Giorno del Giudizio, ci si accorge che la visione che si avrà dei fatti descritti dai Profeti e dai Libri Rivelati al momento della loro realizzazione, sarà di una specie differente da quella della percezione corporale a cui siamo avvezzi in questo mondo. E d’altra parte, il significato che vi assume la parola Ta’wil (X, 39; VII, 53), è lo stesso di quello degli altri versetti sin qui esaminati. La manifestazione del Giorno del Giudizio ed il principio che la governerà si pongono al di là delle nostre attuali modalità di percezione. Pertanto, quando si dice che le informazioni date dal Libro e dalle Tradizioni “ritorneranno” al loro autentico significato nel Giorno del Giudizio, non è lo stesso che parlare dell’avvalersi in futuro di una previsione.
Possiamo pertanto concludere che, in primo luogo, il fatto che un versetto abbia un Ta’wil al quale esso fa “ritorno”, nulla ha a che vedere con la circostanza che un versetto implicito (mutashabih) si riferisce, fa “ritorno”, ad un versetto esplicito (muhkam). In secondo luogo, il Ta’wil non è una peculiarità dei soli versi impliciti, ma è invece un attributo dell’intero Corano. Sia i versetti impliciti che quelli espliciti hanno il loro Ta’wil. In terzo luogo, nel Ta’wil non è da ravvisarsi il significato di parole e frasi. Quando diciamo che un versetto ha un’”interpretazione”, intendiamo dire che il verso descrive un fatto reale, passato o futuro, o un evento reale, che a sua volta si riconduce ad un’altra realtà, che è il suo proprio Ta’wil, la sua “interpretazione finale”. D’altra parte, in questi ultimi tempi questo stesso questo stesso termine è stato adoperato per indicare un’interpretazione contraria al significato legittimo ed evidente delle parole. Ma in tal caso, non abbiamo a che fare con un’interpretazione, ma con un abuso di linguaggio, con un errore puro e semplice, e non vi è nulla che possa suggerire che questo sia il vero significato della parola in questione, e che esso fosse conosciuto ai tempi della Rivelazione Coranica.
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