I colloqui dell’Imâm con Komayl ibn Ziyâd (H.Corbin)

I colloqui dell’Imâm con Komayl ibn Ziyâd

H.Corbin

Tratto dal IV volume dell’opera dello studioso francese intitolata “En Islam iranien”. La traduzione in italiano è stata gentilmente messa a disposizione dell’Associazione Islamica Imam Mahdi (AJ) dal Dott. Fabio Tiddia, che a tale argomento ha dedicato la propria tesi di laurea.

In realtà, pensiamo in particolare qui a due colloqui del I Imâm con Komayl ibn Ziyâd, che fu uno dei suoi discepoli e compagni insigni. Il primo di tali colloqui, per il proposito perseguito qui, forma in qualche modo un’introduzione al secondo. Sono questi testi che ci mostrano al meglio il senso e la posta della «battaglia spirituale» secondo il pensiero dell’Imâm, e anche quale cavalleria spirituale è in grado di sostenerla.

Nel corso del primo di questi colloqui, Komayl chiede all’Imâm: «Cos’è la gnosi [83]?» L’Imâm, per metterlo alla prova, gli risponde: «Cos’hai a che fare tu con la gnosi?» e gli spiega perché sarebbe dannoso, all’uno e all’altro, che rovesciasse un tal segreto dalla propria persona alla sua; un vaso non può contenere più della sua capacità, e l’Imâm ha l’ordine di mettere ogni cosa al suo posto. È precisamente questa disposizione che invoca allora Komayl: «Qualcuno come te, dice all’Imâm, può deludere l’attesa di colui che l’interroga? Qualcuno del tuo rango, quanto alle alte conoscenze delle realtà spirituali e quanto al discernimento dell’attitudine di ciascuno, può frustrare colui che lo interroga, rifiutargli il suo diritto, far sì che la sua meta gli resti interdetta, perché si sarà astenuto dal rispondergli? No, il precetto divino: Quanto a colui che domanda, non respingerlo (Corano 93:10), – questo precetto ti fa un dovere di rispondere, prendendo per massima quella del Profeta: Parlando alle genti, parlate a ciascuno secondo la sua intelligenza.»

Allora l’Imâm accoglie la richiesta e comincia a spiegare: «La gnosi, è il disvelamento degli oratori della Maestà divina, senza che lo si possa per nulla mostrare. – Spiegami ancora. – È cancellazione di tutto il congetturale, serenità del conosciuto in tutta certezza. – Spiegami ancora. – Il velo è strappato, il segreto ne ha trionfato. – Spiegami ancora. – Una luce si leva dall’alba della preeternità; essa brilla nei templi del Tawhîd (cioè nelle persone di coloro che professano la Vera Unità. Una glossa di uno dei nostri manoscritti aggiunge in margine: questa luce, è l’Imâm eterno). – Spiegami ancora. – Spegni la lampada, il mattino è sorto. – Dopo ciò, l’Imâm si mantenne in silenzio.»

Un simile testo sarebbe sufficiente da solo a mostrarci che l’insegnamento degli Imâm, fonte della teosofia sciita, ci mette in presenza di qualcosa che differisce tanto dalla dialettica degli scolastici dell’Islam (i Motakallimûm) quanto dal metodo dimostrativo dei filosofi ellenisti (i falâsifa), e dall’indifferenza dei pii asceti riguardo alla Conoscenza. Si tratta d’una forma d’insegnamento tipica troppo poco considerata generalmente presso di noi, quando parliamo dell’Islam, tanto che ci si è potuti ingannare al punto di parlare dello sciismo come d’una «religione d’autorità», nel senso che questo termine ha in Occidente, tanto abbiamo perso il senso di ciò in cui consiste l’iniziazione spirituale. L’Imâm, lo vediamo, non impone alcuna formula dogmatica. La scienza che insegna, i nostri autori la caratterizzano come una conoscenza ereditata dall’anima (‘ilm irthî, cfr. infra cap. VI, 4). È un’eredità alla quale l’anima ha diritto – e in possesso della quale essa entra – nella misura della sua capacità. L’erede, è colui che è capace di comprendere; non ha da conquistare la sua eredità attraverso gli sforzi di una dialettica concettuale. È il suo grado di comprensione che assicura il suo diritto alla «successione», e fa di lui qualcuno a cui il «deposito affidato» può essere rimesso; è la stessa cosa che ha fatto valere Komayl pregando l’Imâm di rispondergli.

Certo, il testo del colloquio è difficile. Ha provocato lunghi commentari [84]. Haydar Âmolî che lo commenterà egli stesso lungamente nella seconda parte della grande opera che prenderemo in esame più in là (infra libro IV, cap. I) si limita a osservare, citandolo una prima volta, che il significato ultimo di questo colloquio è nel tratto finale: «Dopo ciò, l’Imâm si mantenne in silenzio». Ciò che per lui vuol dire: Komayl, condotto fino al livello della via mistica, può vedere ormai coi suoi propri occhi. Dopo ciò, non ci sono più domande da porre in termini di dialettica razionale, poiché la dialettica è come il lampo in confronto al sole. Le cose che rientrano nel campo della rivelazione interiore e dell’esperienza mistica, non possono essere alla fine né espresse né mostrate, come dice allusivamente l’Imâm già dall’inizio. Haydar Âmolî ne trae una duplice conseguenza. Prima di tutto, è nel silenzio che lo gnostico giunge alla meta della sua ricerca attraverso un’esperienza spirituale che è il supremo grado possibile del raggiungimento di Dio. In secondo luogo, se gli Imâm hanno divulgato questi segreti divini (asrâr ilâhîya) ai più eminenti fra i loro discepoli e familiari, non è permesso a nessuno divulgarli dinanzi agli indegni e ai profani. Di nuovo qui, un richiamo solenne al precetto concernente il «deposito affidato». Coloro dunque che, di generazione in generazione, ne assumono la custodia e la trasmissione, chi sono?

Un secondo colloquio dell’Imâm con Komayl si situa in una solitudine solenne [85]. L’Imâm prende Komayl per mano, lo conduce fuori città, nel deserto, e là, esalato un profondo sospiro, gli dichiara: «O Komayl ibn Ziyâd! I cuori sono vasi, i migliori di essi sono quelli di capacità più grande. Trattieni di me ciò che sto per dirti. Gli uomini sono di tre categorie: c’è il saggio divino (‘âlim rabbânî, il theosophus perfetto); ci sono coloro che, ricevendo il proprio insegnamento, sono condotti alla Liberazione; e poi c’è la massa della gente comune, coloro che seguono non importa quale agitatore e girano nel senso di non importa quale vento. Costoro non sono affatto rischiarati dalla conoscenza; essi non s’appoggiano su un saldo pilastro. O Komayl! la Conoscenza ha più valore dei beni materiali; è la Conoscenza (la gnosi) che veglia su di te, mentre tu, tu vegli sui beni materiali. La ricchezza, la si diminuisce spendendola. La Conoscenza, la si accresce prodigandola [86] […]. La Conoscenza, è ciò che giudica; la ricchezza, ciò che è giudicato. O Komayl! il tesoro dei beni materiali perisce, mentre gli gnostici sono dei viventi, di una vita che permane con i secoli dei secoli. Le loro persone fisiche spariscono; altre che loro rassomigliano nel cuore, prendono il loro posto.»

E l’Imâm, con un gesto della mano indicante il proprio cuore, prosegue: «C’è qui gnosi sovrabbondante. Se solamente trovassi degli uomini abbastanza forti da portarla! Certo, mi capita di incontrare qualche spirito sottile, ma non posso dargli la mia fiducia, perché le cose religiose sono per lui un mezzo che mette al servizio degli interessi di questo mondo; i benefici di Dio sono per lui pretesto per prevalere sui servitori di Dio; le risorse del sapere, pretesto per avere il sopravvento sugli amici di Dio. Oppure mi capita di incontrare qualche spirito docile verso i dottori, ma che, nel suo conformismo, è totalmente sprovvisto di visione interiore; il dubbio penetra nel suo cuore alla prima difficoltà che si presenta. E no! né questo né quello (non sono degni della mia fiducia né della mia gnosi). Oppure ancora, incontro qualche insaziabile del piacere, che si lascia docilmente condurre dai suoi appetiti carnali; oppure talaltro che ha la passione d’accumulare e di tesaurizzare. Né l’uno né l’altro possono essere in nulla pastori della religione; tutt’altro. Ciò che loro assomiglia di più, sono le greggi al pascolo. Bisogna dunque che in una tale epoca muoia la gnosi, allorché muoiono coloro che ne sono i supporti? E no! Mai, infatti, la Terra è vuota di uomini che, rispondendo per Dio, si assumono il mantenimento delle sue testimonianze, che lo facciano allo scoperto e senza velo, o che dimorino nascosti e totalmente ignoti. È grazie a uomini simili che le testimonianze divine e la comprensione del loro senso non sono annientate. Quanti sono? Dove sono? Dio mi è testimone! il loro numero è infimo, ma il loro rango è sublime. È attraverso di essi che Dio conserva le sue testimonianze e i suoi segni in questo mondo, finché essi le trasmetteranno ai loro emuli e ne affideranno la semenza al cuore di coloro che ad essi rassomigliano. Per essi la gnosi si mostra d’un sol colpo, secondo tutta la verità della visione interiore. Essi mettono in opera la gioia della certezza. Trovano facile ciò che trovano arduo i rammolliti. Hanno familiarità con ciò che spaventa gli ignorantelli. Sono nella società di questo mondo con corpi animati da spiriti che restano sospesi alla Dimora Suprema. O Komayl! costoro sono i califfi di Dio sulla sua Terra, coloro che chiamano alla sua Religione vera. Ah! quale ardente desiderio avrei di vederli!»

Se si giustappone questa dichiarazione solenne del I Imâm a quella dell’Imâm Ja’far, che abbiamo ricordato alla fine del paragrafo precedente, si constata che, l’uno dopo l’altro, gli Imâm dello sciismo hanno proposto il medesimo insegnamento fondamentale. Dall’una e dall’altra dichiarazione, come da una moltitudine di dichiarazioni similari, raccogliamo una triplice certezza: che lo sciismo costituisce fondamentalmente e a pieno diritto l’esoterismo o il senso interiore della religione islamica; questo esoterismo o senso interiore è inizialmente e integralmente l’insegnamento al quale gli Imâm hanno iniziato i loro discepoli, e quello che questi ultimi hanno trasmesso; dalla dispensazione di questo insegnamento, dalla sua accettazione da parte degli uni, dal suo rifiuto da parte degli altri, deriva spontaneamente la ripartizione degli umani in tre categorie.

Su questi tre punti, il migliore commentario della grande dichiarazione fatta dal I Imâm a Komayl ibn Ziyad si trova negli hadîth degli Imâm che riprendono il medesimo tema. Ne indichiamo qui solo qualcuno. L’insieme è di un’importanza decisiva. Decidendo della vocazione dello sciismo come iniziazione a una dottrina superiore, come «esoterismo», queste tradizioni degli Imâm mettono rispettivamente davanti alle loro responsabilità quegli sciiti che pretendono di passare a fianco a quest’esoterismo, come quei sufi che vogliono ignorare l’origine e il supporto della loro propria gnosi. L’idea di questi testimoni che, seppur completamente ignorati dalla massa degli uomini, di generazione in generazione, «rispondono per» Dio in questo mondo, comporta l’idea di una comunità spirituale la cui gerarchia è fondata non sulle precedenze di un ordine sociale esteriore, ma unicamente sulle qualificazioni dell’essere interiore. Inoltre sfugge ad ogni materializzazione e ad ogni socializzazione. I «califfi di Dio» sulla Terra, di cui parla il I Imâm, furono in primo luogo gli undici Imâm suoi successori, e, più distanti ancora, tutti coloro la cui successione invisibile mantiene la pura gerarchia spirituale intorno a colui che ne è il «polo» mistico, l’«Imâm nascosto», fino alla fine del nostro Aiôn; senza di essi l’umanità, che essa lo sappia o no, non potrebbe continuare a sussistere. Ed è là finalmente che si decidono il senso e la posta della battaglia spirituale dello sciismo.

Tra gli hadîth che sottolineano espressamente, con ciò che ne è la ragione, l’essenza esoterica dello sciismo, ricordiamo ancora l’hadîth più volte già citato qui, perché è il leitmotiv che, con qualche variante, riappare regolarmente; figura in numerose raccolte e gli Imâm ne hanno essi stessi sottolineato l’importanza decisiva. «La nostra Causa è difficile; essa impone un duro sforzo; soli possono assumerselo un angelo ravvicinato a Dio (malak moqarrab), o un profeta inviato (nabî morsal), o un adepto fedele di cui Dio avrà provato il cuore per la fede» [87]. Il discepolo che riporta questa proposizione dall’Imâm Ja’far, precisa ancora: «L’Imâm Ja’far aggiunse: Tra gli Angeli ci sono dei Ravvicinati e dei non-ravvicinati. Tra i profeti ci sono degli inviati e dei non-inviati (cfr. infra cap. VI). Tra i credenti, ci sono dei provati e dei non-provati. Questa causa che vi è proposta, è stata proposta agli angeli. Non l’hanno assunta che i Ravvicinati. È stata proposta ai profeti. Non l’hanno assunta che gli Inviati. È stata proposta ai credenti. Non l’hanno assunta che i credenti provati». E già il V Imâm, Mohammad Bâqir, tenendo lo stesso discorso a uno dei suoi familiari, aggiungeva: «Non capisci che la difficoltà della nostra causa si mostra nel fatto che Dio ha scelto, per assumerla tra gli angeli, l’angelo ravvicinato a lui; tra i profeti, il profeta inviato; tra i credenti, il credente dal cuore provato [88]». E un commentatore dell’epoca safavide rimarca: «L’intenzione di questo racconto e di tutti gli altri simili, è di escludere che sia possibile assumere perfettamente questa causa senza ardente desiderio, senza assenso e amore perfetto verso la purezza immacolata (‘ismat) dei nostri Imâm [89].»

Il VI Imâm, l’Imâm Ja’far, fa d’altra parte a uno dei suoi familiari una dichiarazione che ripete martellante la parola sirr, «segreto». Se ne percepiranno tutte le risonanze, ricordandosi che la parola sirr designa insieme un segreto, una cosa nascosta, e uno degli organi psico-spirituali sottili: il pensiero segreto, la supracoscienza o transcoscienza. Questa dichiarazione, la ritroveremo più in là (cap. V) con la precedente, alla chiave dell’ermeneutica esoterica del Corano, intelligentia spiritualis. L’Imâm dunque dichiara: «La nostra causa è un segreto velato in un segreto (sirr mastûr fî sirr), il segreto di qualcosa che resta velato, un segreto che solo un altro segreto può insegnare; è un segreto su un segreto che resta velato da un segreto.» O ancora: «Nostra causa è la verità, e la verità della verità (haqq al-haqq); è l’essoterico, e l’esoterico dell’essoterico (bâtin al-zâhir), e l’esoterico dell’esoterico (bâtin al-bâtin). È il segreto, e il segreto di qualcosa che resta velato, un segreto che è velato da un segreto.»

Sono ancora da meditare qui in modo particolare questi pochi versi d’una poesia del IV Imâm, ‘Alî Zayn al-‘Âbidîn (95/714): «Della mia Conoscenza celo i gioielli – Per timor che un ignorante, nel veder la verità, non ci schiacci… – O Signore! se divulgassi una perla di mia gnosi – Mi si direbbe: Tu sei dunque un adoratore d’idoli? – E ci sarebbero musulmani a trovar lecito si versi il mio sangue! – Essi trovano esecrando ciò che di più bello si presenta loro.» Che uno dei santi Imâm abbia potuto proferire tali cose, o che perlomeno la coscienza sciita gliele attribuisca, è questa una testimonianza senza reticenza riguardo all’essenza esoterica dello sciismo e la posta della sua battaglia.

Ad ogni modo, è tutto questo che motiva la prescrizione imperiosa della taqîyeh, quella «disciplina dell’arcano» di cui si indicava sopra che deriva dal senso stesso del «deposito affidato». L’Imâm Ja’far arriva a dire: «Colui che è senza taqîyeh (colui che non osserva la discrezione, per incoscienza o rifiuto dell’esoterico), egli è senza religione.» E leggiamo nel «Libro delle credenze sciite» (Kitâb al-i’tiqâdât) del grande teologo sciita Ibn Bâbûyeh (m. 381/991): «Non è permesso abolire la taqîyeh finché non appaia l’Imâm annunciatore della resurrezione (al-Imâm al-Qâ’im), dal quale la religione (dîn) sarà manifestata integralmente, di modo che dall’Oriente all’Occidente essa si presenterà allora alla maniera d’una stessa religione, così come fu al tempo di Adamo.» C’è già qui una risposta a coloro che negano l’esoterismo. Se l’insegnamento degli Imâm non riguardasse che le spiegazioni della sharîat, della Legge e del rituale, come certi hanno preteso o pretendono ancora, l’imperativo della taqîyeh sarebbe incomprensibile. Proprio al contrario, osserva Haydar Âmolî, si tratterebbe di cose che si proclamano, e che inoltre bisogna proclamare dall’alto dei pulpiti delle moschee davanti a tutti. Ma non è evidentemente questo ciò a cui mirano le frasi degli Imâm sopra citate.

Nel corso del suo secondo colloquio con Komayl, il I Imâm ripartiva gli umani in tre categorie. Numerose frasi del VI Imâm affermano a loro volta: «Noi, gli Imâm, siamo i Saggi che istruiscono; i nostri sciiti, sono coloro che vengono iniziati da noi; quanto al resto, è la schiuma spinta dal torrente [90].» Tre categorie di conseguenza. La prima è quella dello ‘âlim rabbânî, il Saggio divino, il theosophos perfetto, essendo il titolo riservato in senso proprio agli Imâm, benché l’impiego ne sia esteso a designare i teosofi perfetti, modellati a loro esempio. La seconda categoria è formata dai «fedeli dal cuore provato» che ricevono e trasmettono quest’insegnamento. Infine c’è la massa, non tanto dei «profani» quanto dei negatori e degli ostinati, l’insieme di coloro che ignorano o rifiutano ogni idea d’una scienza spirituale. L’Imâm Ja’far lo afferma espressamente: non c’è un quarto gruppo.

La posizione di un Haydar Âmolî, nel suo generoso sforzo per radunare insieme sciiti e sufi, facendo loro prendere coscienza di ciò che sono e dei loro doveri, è una posizione che consegue molto semplicemente. A ciascuno decidere sotto quale categoria allinearsi. Coloro che, nominalmente sciiti, negano l’insegnamento esoterico degli Imâm, perché sono incapaci di sopportarne non solo il peso ma addirittura l’idea, così come quei sufi che, mentre praticano l’esoterismo, ne misconoscono la sorgente e il supporto, non possono pretendere d’appartenere al secondo gruppo (e ancor meno al primo). Questo secondo gruppo è il gruppo dei «fedeli dal cuore provato» che assumono il peso e le conseguenze della triplice shahâdat. Sono coloro che, allo scoperto o nell’incognito, mantengono le testimonianze divine su questa Terra, e fanno sì che questo mondo sia ancora «un mondo che Dio guarda», – guarda e riguarda. La loro élite è formata da una minoranza fra essi, che ha per vocazione propria trasmettere i segreti degli Imâm e mantenerli vivi nei cuori dei «fedeli provati». Sono coloro in riferimento ai quali il I Imâm dichiarava: «Dove sono? quanti sono? Dio mi è testimone! il loro numero è infimo, ma il loro rango è sublime.»

Questa élite forma quella gerarchia spirituale incognito la cui idea resta fondamentale nello sciismo duodecimano, e il sufismo non sciita indubbiamente non ha fatto che mutuarla, poiché nella sua essenza, nella sua struttura e sua perpetuazione, essa presuppone colui che ne è in permanenza il «polo» mistico, il XII Imâm, l’Imâm nascosto. Senza l’idea di questa gerarchia o di queste gerarchie spirituali invisibili o incognito, non sapremmo sciogliere la questione posta qui, quella riguardante il senso e la posta della battaglia spirituale dello sciismo. Attraverso di essa cambia d’aspetto la questione dei rapporti dello sciismo e del sufismo. Ancor di più: è attraverso di essa che lo sciismo dei Dodici Imâm può, nel tumulto del nostro mondo, inserire discretamente il suo messaggio spirituale, – testimonianza d’un altro mondo, ricordo d’un mondo altro, non un compromesso con un’evoluzione definentesi irreversibile.

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NOTE

[83] Su Komayl ibn Ziyâd, discepolo e compagno del I Imâm, origine della silsilat komaylîya presso i sufi (benché Hujwîrî, Kashf al-Mahjûb, trasl. R. E. Nicholson, così sovente citato in Occidente, sembri ignorarlo, cosa che è forse significativa), cfr. Safînat Bihâr al-anwâr, II, 496-497, Mâmâqânî, Tanqîh al-Maqâl, II, n° 9938; sul colloquio riportato qui, cfr. Ma’sum ‘Alî-Shâh, Tarâ’iq al-haqâ’iq, II, pp. 39-44. Per haqîqat (e nel secondo colloquio ‘ilm haqîqî) con il senso di gnosis, cfr. R. Strothmann, Gnosis-Texte der Ismailiten, Göttingen 1943, p. 54.

[84] Segnatamente da Haydar Âmolî, nel suo Jâmi’ al-asrâr (op. cit., supra p. 56, n. 29), cfr. indice s. v. Komayl; da ‘Abdorrazzâq Kâshânî, il celebre commentatore di Ibn ‘Arabî; da Sayyed Mohammad Nûrbakhsh, cfr. Tara’iq II, pp. 39-40; cfr. ugualmente il commentario di Golshan-e Râz (La Roseraie du mystère [Il Roseto del mistero]) di Shamsoddîn Lâhîjî, ed. K. Samî’î, pp. 291-293.

[85] Questo testo figura in Nahj al-Balâgha, ed. Hâjj Sayyed ‘Alî-Naqî Fayz al-Islâm, con trad. persiana, Teheran 1371 e. l., vol. VI, art. 139, pp. 1144-1149. Cfr. ancora Safînat Bihâr al-anwâr II, 224, e la nuova edizione del Bihâr al-anwâr, Teheran 1376 e. l., t. I, p. 186; Shahrazôrî lo utilizza nel suo commentario della «Teosofia orientale» (Hikmat al-Ishrâq) di Sohrawardî, cfr. la nostra edizione (Bibl. Iranienne, vol. 2), pp. 302-303.

[86] Conviene pensare qui all’interpretazione spirituale (ta’wîl) della zakât (decima o elemosina prescritta dalla sharî’at) presso gli Ismaeliti: è trasmettere l’insegnamento della teosofia (‘ilm-e Dîn) agli adepti fedeli, a ciascuno in proporzione al suo bisogno, cioè alla sua capacità; cfr. Kalâmi Pîr, ed. W. Ivanow, Bombay 1935, p. 96 del testo, e Abû Ishaq Qûhistânî, Haft Bâb or Seven Chapters, ed. W. Ivanow, Bombay 1959, p. 54 del testo persiano.

[87] Questo hadîth di un’importanza capitale per la coscienza sciita figura negli Osûl minâ’l Kâfî di Kolaynî, Kitâb al-Hojjat, ed. di Teheran 1334 e. s. / 1375 e. l. (solo testo arabo), vol. I, pp. 401-402. Il Tafsîr Mir’at al-anwâr, p. 26, lo cita dai Ma’ânî al-akhbâr di Sadûq Ibn Bâbûyeh; cfr. Safînat, II, 29. Si noterà che la proposizione inverte l’ordine della celebre testimonianza del Profeta, nella quale Haydar Âmolî, d’accordo con molti altri mistici, distingue il segreto stesso del Profeta (sorpassante la sua condizione d’Inviato che trasmette il tanzîl, per ritrovare allo stato puro la sua walâyat): «C’è per me in compagnia di Dio un certo istante in cui non possono contenermi né Angelo del più alto rango né profeta inviato.»

[88] Safînat, ibid. Il familiare al quale si rivolgeva l’Imâm Mohammad Bâqir, era Abû Hamza al-Thamâlî (m. 150/768), un Arabo della tribù Azd (quella che è data come ascendenza di Jâbir ibn Hayyân l’alchimista). L’ VIII Imâm, ‘Alî Rezâ, dice di lui: «Abû Hamza fu al suo tempo come Salmân il Persiano lo fu al proprio, nel senso che fu il familiare di quattro di noi (il IV, V, VI e VII Imâm).» Safînat, I, 339.

[89] Tafsîr Mir’at al-anwâr, p. 26.

[90] Kolaynî, Osûl mina’l Kâfî, Teheran 1334/1375, vol. I, pp. 33-34.

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Writer : shervin | 0 Comments | Category : Via Spirituale

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