La via dell’amore. Poesie spirituali dell’Imam Khomeyni (Y.C. Bonaud)

La via dell’amore. Poesie spirituali dell’Imam Khomeyni

Yahya Christian Bonaud

L’adorazione avviene attraverso l’ebbrezza della religione dell’amore

Allâmeh Mohammad Husayn Tabâtabâ’i,

estratto dal poema Kish-e Mehr (La religione dell’amore)

 

Nel 1988 (1367 AH secondo il calendario solare iraniano), la Radio e la Televisione della Repubblica Islamica dell’Iran pubblicarono, con il titolo Bâdeh-ye ‘eshq (La Coppa dell’Amore), le sei pagine manoscritte di una lettera di consigli spirituali scritta circa due anni prima dall’Imam Khomeyni a Fâtima Tabâtabâ’i, moglie di suo figlio Ahmad, accompagnata da alcune poesie che le aveva affidato. Altre poesie, la cui confidente fu sempre Fâtima Tabâtabâ’i, furono pubblicate l’anno dopo la sua morte, avvenuta il 4 giugno 1989 (14 Khordâd 1368), dalla Fondazione per l’edizione e la pubblicazione delle opere dell’Imam Khomeyni con i titoli Mahram-e râz (La confidente dei segreti) e Noqteh-ye ‘atf (Il punto critico), ogni volta accompagnate da lettere di consigli spirituali indirizzate al figlio Ahmad.

La stessa fondazione raccolse in seguito, in un Divân dell’Imam (pubblicato nel 1993/1372), tutto ciò che si poté trovare delle sue poesie scritte dal suo arrivo a Qom all’età di 20 anni (1922/1340) fino a circa tre mesi prima della sua morte. Si tratta di un’opera lussuosa in cui le 276 pagine di poesie sono completate da un glossario, un indice e un’analisi riassuntiva delle specificità di ogni testo. Era accompagnato da un Farhang-e Divân di circa cinquecento pagine, contenente spiegazioni sull’arte poetica iraniana e sulle sue figure retoriche, nonché un’enciclopedia del lessico della poesia mistica persiana.

Alcune di queste poesie furono anche musicate e cantate da Hosâm ad-Din Serâdj in una cassetta intitolata Yâd-e yâr (Ricordo dell’Amato), un verso della quale avrebbe avuto uno strano destino, alcuni vedendovi un’allusione a un incontro con l’Imam nascosto degli Sciiti duodecimani, altri pensando che evocasse il Profeta stesso, le benedizioni di Dio siano su di lui e la sua famiglia:

Mi sono innamorato, tesoro mio, del neo sulle tue labbra.

Vidi il tuo occhio malinconico e ne fui affascinato.

Quale collegamento, si potrebbe pensare, potrebbe esserci tra un neo sulle labbra di una persona amata e figure venerate di una storia sacra come il Profeta o un Imam, che si immaginano più facilmente come venerabili patriarchi o valorosi eroi?

Sapere che alcune descrizioni tradizionali del dodicesimo Imam gli attribuiscono un neo del genere o che un ritratto di un giovane efebo con una guancia punteggiata da un neo simile è talvolta considerato come rappresentante il Profeta nella sua prima giovinezza[1] fornirà certamente un elemento di risposta. Sapendo inoltre che il persiano non conosce il genere, né maschile né femminile, ne forniremo un’altra. Ma questo non chiarirà la questione fondamentale, quella del legame tra languore amoroso e pietà religiosa, tra amori umani e sentimenti sacri, tra “ragioni del cuore che la ragione ignora” e “sapienza divina, follia agli occhi degli uomini” o, più in generale, tra ebbrezza e stati irrazionali da una parte, estasi spirituali e stati che trascendono la ragione dall’altra.

Senza voler teorizzare, limitiamoci a constatare che l’espressione delle più elevate esperienze spirituali nel linguaggio amoroso e/o bacchico è tutt’altro che sconosciuta alla cultura occidentale, dove trova i suoi riferimenti più antichi nel Cantico dei Cantici della Bibbia e riecheggia in mistici come, ad esempio, santa Teresa d’Avila, ma non ha assunto una forma consacrata che permei l’intera cultura poetica. In Iran, al contrario, grandi poeti come Hafez – pseudonimo che significa “colui che conosce a memoria il Corano” – hanno fornito una forte matrice culturale che integra in modo così inscindibile il significato letterale e quello metaforico che spesso si è del tutto incapaci, in assenza di dati biografici certi, di decidere con argomenti diversi da quelli intuitivi quale dei due significati sia quello “vero” per un particolare poeta. Soprattutto perché il reale e il metaforico non sono considerati nella relazione che ci si potrebbe aspettare: l’amore “reale” (haqiqi) è quello mistico, mentre l’amore umano, e perfino quello carnale, è irreale e “metaforico” (majâzi).

Se gli iraniani scoprirono il talento poetico della Guida della Rivoluzione Islamica solo l’anno prima della sua morte, il 4 giugno 1989 (14 Khordad 1368), non furono sorpresi nel vedere questo venerabile dottore della Legge evocare nelle sue poesie che il gioco dell’amore e della seduzione, un amante che fugge dal fariseismo della moschea e dal suo predicatore eccessivamente ipocrita per la società rozza dei furfanti delle taverne e del loro coppiere, chierici che abbandonano i cavilli della scuola e bruciano i loro abiti e i loro tappeti da preghiera per consumarsi nell’amore e nell’ubriachezza, soffrendo i dolori della separazione e godendo dell’unione, annegando la prima nel vino e alzando le loro coppe alla gloria della seconda…

L’Imam faceva infatti parte di una lunga tradizione di studiosi iraniani, sia ecclesiastici che laici, che praticavano questo importante genere di poesia persiana. Tra gli ecclesiastici di alto rango, sarebbe quasi il silenzio poetico a sembrare sorprendente, soprattutto per coloro che praticano le “incredulità” (kofrayât) della filosofia avicenniana o, peggio ancora, sadriana e si abbandonano all’ebbrezza della gnosi (‘irfân).[2] Ora, gli iraniani sapevano fin dai primi giorni della Repubblica Islamica che l’Imam era ben lungi dall’essere solo un virtuoso giurista o un politico inflessibile: nel dicembre del 79 e nel gennaio dell’80 (âdhar – Dey 1358), egli aveva infatti dedicato una serie di interventi televisivi settimanali a letture filosofiche e gnostiche della prima sura del Corano.[3] Se non tutti potevano comprenderne interamente gli sviluppi, tuttavia ne «gustavano» l’essenza, perché l’Imam non si limitava a conoscenze astratte e a terminologie astruse, ma al contrario riportava costantemente all’essenziale della spiritualità:

«Il più giurato dei tuoi nemici è il tuo “io” che è tra i tuoi fianchi» [dice un hadith…]. È peggiore di tutti i nemici, più grande di tutti gli idoli: […]«La madre degli idoli è quella del tuo “io”» [dice un verso di Rumi]. Di tutti gli idoli, è questo che l’uomo serve di più […] e finché non lo avrà distrutto, non potrà diventare divino. Non può esserci allo stesso tempo l’idolo e Dio, non può esserci allo stesso tempo l’egoismo e la divinità. Finché non ci saremo […] allontanati da questo idolo e ci saremo rivolti a Dio, […] siamo in realtà idolatri, anche se in apparenza adoriamo Dio. Nel discorso diciamo “Dio” e ciò che è nel nostro cuore è noi stessi. Vogliamo Dio anche per noi stessi! (p. 30)

Senza questo amor proprio e questo egoismo, l’uomo non denigrerebbe i difetti degli altri. Tutte queste denigrazione che facciamo gli uni verso gli altri sono dovute al fatto che ai nostri occhi siamo molto buoni e giusti e, a causa di questo amor proprio che abbiamo, ci consideriamo uomini perfetti e tutti gli altri difettosi, e critichiamo i loro difetti. In una poesia che non voglio citare, un signore rimprovera una donna di un certo tipo e lei risponde: «Io sono tutto ciò che dici, ma tu, sei come sembri?» (pag. 50-51)

Tutti gli atti del servizio divino sono un mezzo, tutte le preghiere sono un mezzo, tutto questo è un mezzo affinché il meglio dell’uomo si riveli in lui, affinché ciò che è in potenza e che è essenziale nell’uomo si attualizzi ed egli diventi umano, affinché l’uomo in potenza diventi uomo in atto, affinché l’uomo naturale diventi uomo divino, affinché tutto in lui diventi divino e in tutto ciò che vede veda la Realtà divina. Anche i Profeti sono venuti per questo, anche loro sono mezzi. I Profeti non vennero per formare un governo: cosa avrebbero voluto farne? […] Stabiliscono anche un governo, che è un governo giusto, ma non è questo l’obiettivo: tutti questi sono mezzi affinché l’uomo raggiunga un altro livello, ed è per questo che sono venuti i Profeti. (pag. 74-75).[4]

Indipendentemente dalla loro valutazione della persona e del talento poetico dell’Imam[5] gli iraniani non sono affatto sorpresi dalla sua poesia, che per loro è quasi “ovvia”. Ma cosa potrebbe capire dalle traduzioni delle sue poesie qualcuno il cui universo culturale non comprende questo genere? Cosa penserebbe di questo uomo religioso che nel 1987 scrisse:

L’Amico non ha varcato la porta e la mia vita sta giungendo al termine,

Questa è la fine della mia storia e questo dolore non è finito;

Con la coppa della morte in mano, non ho visto quella del vino,

dopo tanti anni trascorsi, nessuna gentilezza è giunta dall’Amato.

(Divân, p. 97, Rajab 1407)

Soprattutto quando sente questo vecchio chierico esclamare, dopo un silenzio di due anni, circa tre mesi prima della sua morte:

Un nodo si è sciolto dalla treccia aggrovigliata dell’Amato,

Proprio come un giovane amante, il vecchio asceta è ai suoi piedi.

Ho bevuto una goccia di vino dal calice della Tua grazia,

poi la mia anima è annegata nell’onda del Tuo dolore. […]

L’annuncio dell’unione giunse ai frequentatori della taverna, e

subito ci fu tumulto, balli e gioia all’unisono.

(Divân, p. 88, Rajab 1409)

Alcuni, se non conoscessero l’autore, immaginerebbero che il “vecchio asceta” di questi versetti sia riuscito finalmente a ottenere i favori di colui il cui amore gli aveva fatto dimenticare la pietà e la vocazione, come un certo shaykh di San’ân immortalato dalla poesia persiana. Ben per lui, dicevano, ma invece di aspettare di avere “il calice della morte in mano”, non avrebbe potuto assaggiare prima “il calice del vino”? E tuttavia non abbiamo qui ritenuto di gran lunga i versi che si prestano al massimo disprezzo…

Come possiamo far comprendere questa lingua a chi non è iniziato? Potremmo cominciare col sottolineare che l’amore in questione è quello stesso amore divino incompatibile con l’idolo dell’«io» evocato nei pochi paragrafi appena citati e che trovano eco in questi versetti:

È sulla via dell’Amore che bisogna cercare di godere.

E l’impegno preso, bisogna mantenerlo!

Finché sei te stesso, non c’è unione con la persona amata!

Io stesso devo morire sul cammino dell’amato.

Questi versi provengono da una lettera dell’Imam alla nuora, Fâtima Tabâtabâ’i.[6] Assorbito fin dai primordi della Rivoluzione da una vita politica che considerava un dovere, non senza lasciar sfuggire dalla sua penna qualche lamentela altrove[7], circondato piuttosto da uomini che avevano più affinità con le questioni politiche che con quelle dello spirito, è a questa donna che l’Imam confidava l’intimità spirituale che consegnava nelle sue poesie. La lettera in questione era una risposta ad una richiesta insistente di guida spirituale, alla quale l’Imam rispose dicendo subito:

Chiedendomi una lettera gnostica, Fâti

esige il trono di Salomone da una formica

come se non l’avesse sentito

dire “certamente non Ti abbiamo conosciuto”

l’uomo da cui l’angelo Gabriele, invidioso,

implorò il respiro del Misericordioso

Questo preludio poetico intende suggerire quanto la Realtà spirituale trascenda la conoscenza umana, tanto che il Profeta Muhammad, le benedizioni di Dio siano su di lui e sulla sua famiglia – la cui realtà essenziale è l’intermediario attraverso il quale tutta la creazione, compresi gli esseri più immateriali, riceve il Respiro esistenziale e sostentante – poté solo dire: “Non Ti abbiamo conosciuto”. La ricerca della conoscenza consiste nel gettare via i veli dell’ignoranza, che hanno molte forme, tra cui quelle luminose, come il velo della pseudo-conoscenza, il più grande di questi veli è, senza sorpresa, l’egocentrico “sé” dell’uomo:

Ma finché l’uomo è velato dal suo ego e preoccupato di sé stesso, […] la sua natura essenziale rimane velata. Per superare questa fase, si deve, oltre alla lotta interiore [contro se stessi], essere guidati dalla sublime Realtà. […]

O Dio! Concedimi totale distacco da tutto quello che non sei Tu e avvicinami a Te; illumina la visione dei nostri cuori con la luce che sorge nel guardarTi, affinché possiamo attraversare i veli di luce e raggiungere la Fonte della Magnificenza, e i nostri spiriti siano elevati con lo splendore della Tua Santità” .

Dio mio! Fa’ di me qualcuno che Tu chiami e che risponda alla Tua chiamata, qualcuno che Tu guardi e che resti folgorato dalla Tua maestà, qualcuno con cui Tu conversi in intimità…”

Questa consacrazione totale consiste nell’abbandonare la scena dell’ego e di tutto ciò che ad esso si riferisce. […] Questo è un dono divino ai Suoi amici intimi e devoti che giunge dopo che sono stati colpiti dalla Maestà divina, non appena Egli ha gettato un angolo del Suo sguardo su di loro […] L’intima conversazione della Realtà divina con i Suoi servi d’élite prende forma solo dopo che sono stati colpiti e la montagna della loro stessa esistenza è stata polverizzata […]

Figlia mia, l’infatuazione e l’autostima nascono da un’estrema ignoranza della propria nullità e dell’immensità del Creatore. Se riflettiamo un po’ sull’immensità della creazione, nella misura in cui l’umanità è riuscita finora, con tutti i progressi della scienza, a conoscerne una piccolissima parte, prenderemo coscienza del nostro nulla e di quello dei sistemi solari e di tutte le galassie; coglieremo in qualche modo l’immensità del loro Creatore; ci si vergognerà della propria infatuazione, del proprio egoismo e della propria arroganza; e ci sentiremo molto ignoranti”.

Lo stato evocato dall’Imam di fronte all’immensità cosmica è quello dello spirito colto di fronte alla maestà: si sente schiacciato e annientato. Al contrario, quando la bellezza prevale sulla maestosità, lo spirito si sente “riempito” di agio e felicità. Questa “contrazione” (qabd) e questa “dilatazione” (bast) sono stati dell’anima e dello spirito che hanno la loro fonte ultima nella Bellezza (jamâl) e nella Maestà (jalâl) divine, a seconda che prevalga l’uno o l’altro aspetto.

Gli stessi stati di oppressione e di esaltazione si riscontrano in presenza di una persona cara: il cuore si rallegra quando ci sorride e si rattrista quando ci abbandona. Il fatto è che la persona amata è investita, nella misura di questo amore, di bellezza e maestà, riflessi umani della Bellezza e della Maestà supreme. Quando questo amore è forte, l’atteggiamento della persona amata determina tutta la tua vita: un ammiccamento fa sussultare il tuo cuore, un sorriso un po’ di più, sciogliendo la sua treccia ancora di più… Ma al minimo cipiglio, il cuore si mostra inquieto; uno sguardo, una parola dura, il cuore smette di battere; e se ti volta le spalle, esce dal tuo campo visivo e il tuo cuore si spezza…

Ma un amore così forte non è ragionevole: lo diranno tutti, perfino la tua ragione, quel predicatore interiore che non capisce mai nulla delle emozioni del nostro cuore. Gli unici che capiscono l’amante sono coloro che condividono lo stesso amore inebriante che dà la sensazione di vivere pienamente e non piattamente, una vita “vera”, piena in ogni momento di dolore o di gioia, ma veramente vissuta… E tuttavia è solo follia e ebbrezza passeggera per tutti coloro che non capiscono questo amore, lo giudicano e lo condannano… Allora potremmo anche fuggire da queste persone e ritrovarci in compagnia di coloro che condividono la stessa ebbrezza e lo stesso idolo: l’adorazione è attraverso l’ebbrezza nella religione dell’amore.

Vediamo come gli stati dell’anima e dello spirito legati alle emozioni amorose o estetiche o ai cambiamenti degli stati di coscienza causati dall’alcol o da altri siano analoghi tra loro e come possano benissimo simboleggiare stati dell’anima e dello spirito legati all’esperienza mistica del sacro in tutti i suoi aspetti. Non attraverso immagini e allegorie che sarebbero come una specie di messaggio in codice: ogni volta che diciamo “un’occhiata”, dovremmo sentire “un Attributo divino” e quando diciamo “il neo”, si intende “l’Essenza divina”, perché il neo è nascosto sotto il velo, mentre lascia passare lo sguardo… Il simbolismo non ha l’arbitrarietà di un codice, ma nasce da analogie reali che collegano tra loro realtà che sono cause di effetti simili o, al contrario, effetti di cause simili. Il collegamento è esistenziale e non convenzionale.

Tanto più che tutti questi legami si spiegano fondamentalmente con il fatto che le realtà fondamentali che sono al principio stesso dell’esistenza, come gli attributi della Bellezza e della Maestà divina, si manifestano naturalmente a tutti i livelli dell’esistenza, essendo ciascuna di queste manifestazioni un’eco o un riflesso del suo principio in tale dominio e a tale livello. È questo principio di analogia ontologica degli stati di esistenza e delle manifestazioni dell’Esistenza che è al centro dell’intera tradizione della poesia persiana in cui si colloca l’Imam Khomeyni.

Si capisce allora che tra le settanta poesie malinconiche, dominate dai lamenti della separazione (hejrân) e dall’angoscia di morire prima di poter incontrare l’Amato e gustare il Vino della Conoscenza (che risalgono ai quattro mesi precedenti il Ramadan 1407/1987), e il canto di gioia e di celebrazione dell’unione che sgorga dalle ventitré poesie dei tre mesi precedenti il ​​Ramadan 1409/1989, è accaduto per l’Imam Khomeyni qualcosa di molto più importante di un banale successo amoroso. Lui stesso lo menziona in un modo che, alla luce dei testi e delle spiegazioni precedenti, dovrebbe essere compreso senza ulteriori spiegazioni:

Il coppiere, con la coppa in mano, risvegliò la mia anima:

nella taverna degli amanti, divenni un servo,

questo amante ubriaco fece di me, di questa corte, il servo.

(Divân, p.116, Sha’bân 1409/1989)

 

L’usignolo del Paradiso, verso l’Amico non aveva strada,

La mia fortuna era questo confortatore che mi ha indirizzato sul cammino.

Il sufi, come lo gnostico, è lontano da questo luogo:

prendi il calice della gioia e vai dritto verso la purezza.

(Divân, p.39, Sha’bân 1409/1989)

L’identità di questo allegro coppiere (sâqi, motreb) che alla fine lo fece ubriacare rimarrà probabilmente sconosciuta alla storia, e tuttavia è da lui – ricordando che il persiano non conosce genere – che l’Imam deve aver ottenuto ciò che gli era più caro:

D’ora in poi rimarrò attaccato alla soglia di questo maestro mago,

che con un solo sorso di vino mi ha saziato di entrambi i mondi;

Fu per mia fortuna il padrone della taverna, con le sue stesse mani,

mi soggiogò, mi annientò e poi mi estinse;

Io sono il servo del mio padrone che, con la sua gentilezza,

mi ha reso assente da me stesso e completamente sconvolto.

(Divân, p.83, Sha’bân 1409/1989)

 

Fonte: La Revue de Teheran

 

NOTE

[1] Sebbene questo ritratto utilizzi tecniche, tra cui la prospettiva, tutt’altro che comuni all’epoca, la leggenda che lo circonda lo attribuisce a un monaco siriano che riconobbe in questo giovane efebo il Profeta atteso. Quanto all’originale del ritratto, esso farebbe parte del favoloso “tesoro nascosto del Vaticano”, senza che si sappia per quali misteriose vie una copia ne sarebbe potuta uscire per giungere nelle mani di un certo santo chierico di Najaf, dal quale l’Imam Khomeyni l’avrebbe avuto – o ne avrebbe fatto fare una copia? —, né come sia sfuggito a questa trasmissione esoterica per invadere i bazar in forme sempre più rozzamente degradate e colorate. In ogni caso, l’immagine ebbe ampia diffusione, e con essa il verso, a meno che non sia avvenuto il contrario…

[2] Per citare solo un altro caso contemporaneo, ricordiamo questo celebre emistichio del poema Kish-e Mehr (La religione dell’amore) di Allâmeh Mohammad Husayn Tabâtabâ’i — che animò la rinascita dell’insegnamento della filosofia (e della gnosi in circoli più ristretti) a Qom dopo l’esilio dell’Imam —, musicato e cantato da Shahrâm Nâzeri: L’adorazione avviene attraverso l’ebbrezza nella religione dell’amore. [Su questo argomento, in italiano, cfr. F. Tiddia, “Religione d’Amore e Amore dei Belli: la poesia mistica nell’opera di ‘Allāmah Sayyid Muhammad Husayn Tabataba’i”:  https://islamshia.org/religione-damore-e-amore-dei-belli-la-poesia-mistica-nellopera-di-allamah-sayyid-muhammad-husayn-tabatabai-f-tiddia/ (N.d.T.)]

[3] Fu purtroppo costretto ad interromperli di fronte all’ostilità di chierici letteralisti simili a quelli di cui egli riferisce nella sua Lettera aperta al clero che nel seminario di Qom purificarono sette volte il bicchiere da cui aveva bevuto suo figlio, sporcato dal semplice fatto che «suo padre insegna filosofia»! (Manshûr-e rûhâniyyat, scritto nel 1988/1367 e pubblicato nel 1990/1369).

[4] Tafsîr sûreh-ye Hamd, Qom, Daftar-e enteshârât-e eslâmi, 1363hs/1984.

[5] Poiché l’uno non è generalmente privo di influenza sull’altro, tuttavia ci asterremo dal dare un parere “oggettivo” su questo talento.

[6] Pubblicato dopo la sua morte con il titolo La via dell’amore.

[7] Vedere in particolare la fine di Risâlat at-Talab wa al-Irâda.

 

Traduzione a cura di Islamshia.org © E’ autorizzata la riproduzione citando la fonte

Writer : shervin | 0 Comments | Category : Imam Khomeyni (ra) , Novità , Via Spirituale

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