Il vino nella poesia gnostica attraverso l’esempio di Hâfez: dall’ebbrezza terrena all’estasi spirituale
Amélie Neuve-Eglise
Sebbene rivelato gradualmente, il divieto del vino è chiaramente espresso nel Corano ed è stato collegato a diverse cause: individuali, in quanto alterano la ragione, mentre la religione è intesa come un risveglio consapevole dell’uomo a se stesso, o sociale, a causa dei disordini e dei pericoli che può generare all’interno della società. Nel Corano, le bevande inebrianti sono menzionate in due contesti: terrestri, dove vengono gradualmente vietate, e nell’Aldilà, come una delle ricompense dei credenti in Paradiso. Da lì in poi, sorge una domanda: come può ciò che qui giù è proibito e considerato negativo essere un elemento del Paradiso promesso? Stiamo parlando sempre della stessa cosa? Lo stato di perplessità aumenterà quando scopriremo che molti poeti arabi e iraniani successivi all’Islam, come Ibn al-Fârid, Omar Khayyâm o Hâfez, lodarono il vino e lo stato di ebbrezza in poesie descritte da molti commentatori come “baccanali” (khamriyyât). Secondo questi ultimi, tali versetti sarebbero la migliore espressione dell’esistenza di una sorta di “epicureismo islamico”. Dovremmo allora considerare Hâfez – il cui stesso nome significa “colui che conosce il Corano a memoria” – come un credente libertino che sacrifica certi divieti religiosi sull’altare dell’amore per i piaceri terreni? Sebbene molti commentatori iraniani e stranieri abbiano risposto affermativamente, una lettura più attenta delle poesie di Hâfez e del loro significato generale ci permetterà di mostrare che il motivo del vino è utilizzato nel contesto di un simbolismo particolarmente ricco della ricerca umana di Dio, mirato in particolare a esprimere i diversi stati del viandante (sâlik) durante questo viaggio spirituale.
Tra il divieto terreno e il piacere paradisiaco
Nel Corano, le bevande inebrianti sono indicate con la parola khamr (che si riferisce alla fermentazione (takhmir) da cui queste bevande sono prodotte)[1], o con sakar, un nome derivato da sukr o sakra che esprime ebbrezza o ubriachezza. Il khamr o sakar designa quindi qualsiasi bevanda che, dopo la fermentazione, porta all’ebbrezza e altera l’esercizio della ragione.[2] Oltre all’ebbrezza, la parola sakra significa anche uno stato di intenso intontimento, grande stupore o torpore; in entrambi i casi, quindi, troviamo la stessa idea di uno stato in cui la ragione è indebolita o sopraffatta da sentimenti e passioni.[3] Così, nel Corano, il popolo di Lot è descritto come composto da persone che «vagavano offuscate (sakra)» (15:72).
Il divieto del vino venne rivelato gradualmente, dato che il suo improvviso divieto avrebbe potuto produrre un rifiuto in una società abituata a consumarlo regolarmente. Così per la prima volta fu rivelato ai credenti di non pregare in stato di ebbrezza: «O credenti! Non avvicinarti alla preghiera (salat) mentre siete ebbri (sukārā), finché non siate in grado di capire quello che dite» (4:43). Mentre un altro versetto menziona alcuni dei benefici del vino, il loro aspetto negativo prevale chiaramente: «Ti chiedono del vino (al-khamr) e del gioco d’azzardo. Di’: “In entrambi c’è un grande peccato e qualche beneficio per le persone; ma in entrambi il peccato è maggiore del beneficio”» (2:219). Il divieto fu rivelato definitivamente solo più tardi in un versetto della Sura “La Mensa Servita”, che non lascia dubbi sullo status legale del vino: «In verità colvino (al-khamr) e il gioco d’azzardo, Satana vuole seminare inimicizia e odio tra di voi e allontanarvi dal Ricordodi Allah e dall’orazione. Ve ne asterrete?» (5:91).[4] Il vino è qui direttamente associato a Satana, il cui scopo supremo resta quello di allontanare l’uomo dal suo Creatore.
Di fronte a questo divieto irrevocabile, in diversi versetti il vino è comunque considerato una delle gioie del Paradiso: «[Ecco] la descrizione del Giardino che è stato promesso ai timorati [di Allah]: […] ruscelli di un vino delizioso a bersi, e ruscelli di miele purificato» (47:15). Altri versetti si riferiscono a un “nettare sigillato” (rahiq makhtoum)[5] o a una “bevanda molto pura” (sharâb tahour) con cui Dio abbevera direttamente i credenti.[6] Tuttavia, a differenza del vino di questo mondo, il vino paradisiaco non provoca vertigini o alterazioni dell’intelletto, ma dona invece una perfetta chiaroveggenza: «Si muoveranno tra loro fanciulli di eterna giovinezza, [recanti] coppe, brocche e calici di bevanda sorgiva, che non darà mal di testa né vertigini» (56:17-19). Questa è una delle chiavi che ci permetterà di comprendere l’essenza del vino in un poeta come Hâfez. Infine, viene menzionata anche la nozione di ebbrezza nell’altro mondo, ma in modo negativo: «Il Giorno in cui la vedrete, ogni nutrice dimenticherà il suo lattante e ogni femmina gravida abortirà. E vedrai ebbri gli uomini, mentre non lo saranno, ma sarà questo il tremendo castigo di Allah» (22:2).
Il vino nella tradizione poetica e gnostica persiana: l’amore divino come fondamento e forza trainante della creazione
Prima di evocare più precisamente il motivo del vino nella poesia di Hâfez, è necessario presentare in modo conciso quella che sembra essere la sua visione generale del mondo e dell’origine della creazione. In una frase che è rimasta famosa, Hâfez scrive: “La Tua bellezza, un baleno nell’attimo eterno, in principio/ L’amore apparve e infiammò il mondo intero”.[7] Queste parole riecheggiano un hadith Qudsi[8] ampiamente citato dai grandi gnostici dell’Islam, secondo cui la forza motrice della creazione era l’amore di Dio e il Suo desiderio di essere conosciuto dalle Sue creature: “Ero un tesoro nascosto e volevo essere conosciuto, così ho creato il mondo perché Mi conoscessero“. D’altra parte, secondo il Corano, il corpo dell’uomo era costruito di argilla mentre il suo spirito venne insufflato in lui direttamente da Dio: “Gli diede la forma e vi soffiò con il Suo Spirito” (32:9). L’origine della creazione dell’uomo è quindi questo soffio di amore divino che guiderà tutto il suo destino spirituale: per trovare la verità del suo essere e raggiungere la sua perfezione, dovrà intraprendere un intero viaggio per uscire dal suo sé illusorio (majâzi) – cioè, dalle sue passioni, dal suo egoismo e da tutto ciò che non è Dio – che gli permetterà di raggiungere il suo vero sé (haqiqi), che non è altro che la presenza divina all’origine della sua creazione.
Il simbolismo del vino è particolarmente appropriato qui per descrivere questo processo. In senso terreno, il vino e l’ebbrezza che provoca fanno dimenticare all’uomo il suo orgoglio, la sua posizione sociale, la sua ricchezza e tutto ciò che riguarda i transitori valori terreni. Se è ubriaco, un re può iniziare a ballare con un mendicante, dimenticando tutte le distinzioni create dalle usanze di questo mondo. Allo stesso modo, la manifestazione dell’amore divino nel cuore dell’uomo gli fa dimenticare tutti i suoi attaccamenti terreni, annientando il suo ego nella magnificenza divina. Come evoca Molânâ (noto in Occidente come Rumi), “come potrebbe esserci spazio per l’orgoglio e la vanità nell’ebbrezza, dove non si può trovare un atomo di esistenza individuale?“[9]. È inoltre interessante menzionare qui che il verbo arabo khamara (da cui deriva la parola khamr che significa “bevanda inebriante”) significa “invadere qualcuno”, “essere posseduto da un’idea”[10], e quindi designa perfettamente lo stato del pellegrino spirituale sul sentiero verso il suo Creatore.[11]
Il simbolismo del vino è ben lontano dall’aver avuto origine in Hâfez, ed è stato usato prima di lui da mistici e poeti come Molânâ. In generale, quest’ultimo si riferisce al “vino” come a tutto ciò che causa ebbrezza e devia dalla coscienza del proprio “sé”, che si tratti di alcol, ricchezza, potere, Dio…: “Per l’anima carnale (nafs), ci sono i vini della dannazione, che sviano quest’anima infelice dalla retta via/ Per l’intelletto, ci sono i vini della beatitudine, affinché ottenga la dimora che non si abbandona mai/Con la sua ebbrezza sradica la tenda del cielo e prende la via che conduce lontano da questa direzione terrena/Ascolta, non lasciarti ingannare, o cuore, da ogni ebbrezza: Gesù è inebriato di Dio, l’asino è inebriato dall’orzo“.[12] Dopo aver distinto tra questi due tipi di vino, cioè il vino divino e quello delle passioni dell’anima, Molânâ ci invita chiaramente a non confondere l’ebbrezza: “O intenditore di vino, fai attenzione, assaggia accuratamente, affinché tu possa trovare il vino che non è adulterato/Le due anfore ti inebrieranno, ma questa (benedetta) ebbrezza ti condurrà al Signore del Giudizio”.[13]
Qui, il vero vino (haqiqi) è quello della gnosi e la manifestazione della presenza divina, mentre la bevanda terrena è solo il suo aspetto ingannevole (majâz).[14] Diventa quindi necessario purificare il calice del proprio corpo per renderlo capace di ricevere il dono celeste: “Quando cerchi con l’aiuto di Dio, l’essenza del tuo spirito è il vino, e il corpo è la bottiglia“.[15]
Il motivo del vino e dell’ebbrezza si basa quindi su una visione dell’uomo secondo cui, per via della sua natura divina, non può essere soddisfatto del limitato quadro di una vita materiale ed è animato da una sete di perfezione illimitata. Questa sete lo porta a uscire da se stesso e a cercare l’ebbrezza nel nel denaro, nel potere e nella soddisfazione dei suoi desideri carnali… Basandosi su un’ontologia dell’amore come base della creazione, gli gnostici mistici considerano l’ebbrezza in Dio, il Creatore illimitato e perfetto, come l’unica cosa capace di placare questa sete e condurre l’uomo alla realizzazione della propria perfezione. Il vino rende così possibile spezzare l’idolo del proprio “sé” egoista e passare dallo stato umano a quello divino, poiché finché rimane una traccia di egoismo, il divino non può manifestarsi nel cuore dell’uomo. L’uomo ebbro non si considera più il centro del mondo, ma vede le cose come tante manifestazioni di una singola realtà divina che abbraccia tutto e corrisponde alla visione dell’”unità dell’esistenza” (wahdat al-wujud) su cui si basa la gnosi. Come l’alcol, l’amore divino introduce così una rottura dello stato abituale di coscienza. Oltre a un semplice simbolismo convenzionale, il confronto ha quindi una base radicata nella realtà.
Hâfez e l’ebbrezza mistica
La nozione di vino (sharâb, mey o bâdeh) è onnipresente nella poesia di Hâfez, così come nel campo lessicale ad essa collegato: parole come “coppa”, “feccia”, “ebbrezza”, “coppiere” ecc. sono quindi costantemente evocate. Una lettura attenta della poesia di Hâfez ci permette di capire che, lungi dall’essere una lode ai piaceri materiali, il vino è usato nel contesto di un ricco simbolismo che descrive gli stati spirituali del pellegrino sul sentiero verso Dio. Questa lingua mira a esprimere realtà elevate con parole note a tutti, ma il cui significato profondo comprenderanno solo gli iniziati, mentre coloro la cui visione è limitata al mondo terreno e ai suoi piaceri si accontenteranno di una lettura di primo grado. Le diverse letture rispondono quindi al detto “Dimmi cosa leggi, ti dirò chi sei”.
Il tono è dato dal primo ghazal del Divan di Hâfez: “O Coppiere, porgi la coppa [ka’s] e falla girare!/ Perché all’inizio l’amore sembrava facile, poi son sorte le difficoltà […]/Se il Maestro dei Magi te lo dice, colora il tappeto da preghiera con il vino [mey]!/ Poiché il Viandante non ignora la Via e la condotta da seguire nelle tappe“.[16] Qui troviamo il motivo gnostico dell’amore come origine di tutte le cose. Così, l’ebbrezza promossa da Hâfez non è legata al vino terreno, ma all’esperienza dell’amore divino e all’incontro con Dio, l'”Amico” per eccellenza, nella pre-eternità: “Fino all’alba del Giorno della Resurrezione non rinuncerà all’ebbrezza/ chi, nel giorno primevo, assaggiò come me un solo sorso dalla coppa dell’Amico”.[17] Come abbiamo già detto, questo sorso bevuto all’alba dei tempi determinerà l’intera vita del pellegrino spirituale che cercherà ancora una volta di raggiungere l’ebbrezza dell’unione attraverso il suo viaggio iniziatico. Questo aspetto è in linea con l’idea coranica di fitra o “natura divina originale” che naturalmente incita ogni uomo a cercare l’assoluto e l’illimitato, cioè Dio. Altri versi rafforzano questa interpretazione: “Beato il cuore di colui che, come Hâfez, prende un calice di Vino del Patto Primordiale (alast)“.[18] Qui, l’espressione “alast” si riferisce direttamente al patto pre-eterno, menzionato nel Corano, che Dio fece con gli uomini: “E quando il Signore trasse, dai lombi dei figli di Adamo, tutti i loro discendenti e li fece testimoniare contro loro stessi [disse]: «Non sono (alastu) il vostro Signore?». Risposero: «Sì, lo attestiamo» (7:172). Il vino di “alast” evocato da Hâfez si riferisce chiaramente alla parola divina evocata in questo versetto che, rendendo l’uomo consapevole della realtà divina presente in sé, gli permette di riconoscere Dio come suo Signore.[19] Questa realtà divina presente nell’uomo è evocata anche in questi versi, nei quali la coppa simboleggia il corpo del pellegrino spirituale: “Abbiamo visto nel calice il riflesso del volto dell’Amato/ O tu che non sai nulla del nostro piacere nel bere ininterrottamente“.[20] A differenza della ragione, che è una forza conservatrice il cui scopo è preservare l’uomo, l’amore è una forza che ci fa uscire da noi stessi e ci inebria. Così gli permette di distruggere il suo sé egoista per far manifestare la scintilla dell’amore primordiale che è dentro di lui: “L’ebbrezza dell’amore mi ha rovinato, tuttavia/Le robuste fondamenta del mio essere posano su questa rovina“.[21] Per permettere a questo amore di manifestarsi, il primo passo sul cammino sarà purificare il proprio cuore dai vincoli di questo mondo: “Uno gnostico compì le sue abluzioni con le limpide acque del vino/ Quando all’alba si recò in pellegrinaggio alla taverna”.[22] La taverna[23], luogo di ubriachezza, è quindi la Via spirituale per eccellenza[24]: “Hâfez, per la Via della Taverna (râh-e meykadeh) hai abbandonato con gioia questo mondo!/Che la preghiera degli amanti accompagni il tuo puro cuore!“[25] La taverna non designa un luogo particolare, ma ogni aspetto del mondo che, come manifestazione della bellezza divina, è probabile che inebri il viandante spirituale. Il coppiere (sâqi) che serve il vino nel calice del pellegrino spirituale non dovrebbe essere percepito come una persona particolare, ma come qualsiasi essere o cosa che lo avvicina a Dio. In Hâfez, il vino si riferisce all’estasi e alla gioia provate quando l’Amato si manifesta nel cuore dell’amante, e che gli fa dimenticare il proprio egoismo.
Lungi dal significare un invito a godere appieno dei piaceri di questo mondo prima della morte, l’ebbrezza promossa da Hâfez invita al contrario a cercare di acquisire una consapevolezza delle verità divine in questa stessa vita, il che implica la pratica del distacco che dovrebbe condurre a estrema umiltà davanti al Creatore: “Portate il vino! In accordo con la fatwa di Hâfez, dal mio cuore puro/ versando il calice laverò via la polvere dell’ipocrisia“.[26] Si dice spesso che il vino deve essere bevuto all’alba (sahar), un momento particolarmente favorevole alle rivelazioni interiori nella tradizione islamica: “Per Dio, concedi un sorso a Hâfez, che si alza all’alba!/ affinché possiate ricevere qualcosa dalla sua preghiera recitata all’aurora!“[27]. Anche la sincerità è una delle condizioni sulla Via verso Dio: “Alla porta della taverna si recano gli uomini sinceri (yekrang)/ a coloro che si mettono in mostra, non vi è alcun accesso alla strada dei mercanti di vino!“[28] Se qui si trattasse di vino materiale, o anche solo di una metafora per l’amore fisico, cosa dovrebbero avere a che fare tutte queste condizioni di sincerità e umiltà? È anche in questo senso che dobbiamo comprendere le critiche generali di Hâfez ai Sufi e alla vanità delle loro organizzazioni: “Il convento e il mantello dell’ipocrisia mi disgustano/Dov’è il Monastero dei Magi, dov’è il vino limpido?“[29]
L’ebbrezza provocata dalla manifestazione della bellezza divina non porta a una perdita di intelligenza, anzi al contrario, togliendo il velo dell’ego, permette alla Verità di manifestarsi in tutta la sua purezza: “Il sufi pazzo che il giorno prima ruppe coppa e bicchiere/col primo sorso di vino divenne sapiente e saggio“.[30] Questi versi sono un’eco perfetta del versetto coranico menzionato sopra, secondo cui il vino bevuto in paradiso non causa mal di testa o vertigini (56:19). Questa ebbrezza rende possibile anche lenire l’anima dai dolori del mondo: “Voglio un vino inebriante la cui forza travolga l’uomo intrepido, forse per un momento troverò riposo dal mondo e dalla sua malvagità”.[31] Dio e l’ebbrezza provocata dalla Sua manifestazione diventano così il rifugio di ogni gnostico: “Da questo adorno, piove sedizione. Alzatevi!/ Rifugiamoci nella taverna, lontani da tutte queste calamità!”[32]
Alcuni ghazal di Hâfez fanno chiaramente riferimento anche ad alcuni hadith del Profeta Muhammad. Così, la frase “All’alba, in una terra, un viandante/ confidò questo mistero a un caro amico: ‘Sufi, il vino diventa puro dopo aver trascorso quaranta giorni nell’ampolla!’”[33] riecheggia l’hadith: “Chiunque consacra quaranta giorni a Dio, Dio farà scorrere sorgenti di saggezza dal suo cuore alla sua lingua“.[34] Riecheggiando i versetti coranici, Hâfez evoca anche il vino del paradiso: “Domani, avremo per noi una bevanda dalla sorgente del paradiso e delle urì/e oggi anche un coppiere dal volto di luna e una coppa di vino“.[35] Questi versi implicano anche che il paradiso, che non è altro che la gioia della vicinanza a Dio, può già essere raggiunto durante l’esistenza terrena.
Infine, facendo eco a Molânâ, Hâfez ci ricorda chiaramente la differenza tra “vero” vino e quello di “questo mondo”: “Grazie a Dio la porta della taverna è aperta!/Perché avevo proprio bisogno della Sua porta/Ribollono e spumeggiano tutte le giare dall’ubriachezza/E questo vino che è lì, è reale (haqiqi), non finto (Majâzi)”.[36] Il vino materiale è quindi solo una pallida metafora del vero vino servito nella Taverna dell’Amore Divino. L’ingiunzione di Hâfez a non limitarsi alla metafora delle cose è chiaramente evocata in un altro verso, e non lascia ambiguità sull’essenza del vero vino nella sua poesia: “Domani, quando la Soglia del Palazzo della Verità (haqiqat) sarà visibile/Si vergognerà il viaggiatore che ha agito per finzione (majâz)!”[37]
Sorge tuttavia una domanda: se tutto ciò è solo simbolico, perché ricorrere a un tale processo espressivo e non esporre questi significati in modo chiaro e diretto? Questa domanda tocca uno dei punti fondamentali della gnosi, secondo cui esprimere direttamente verità elevate a persone ad essa non preparate è molto probabile che abbia l’effetto opposto a quello previsto, e porti a un fraintendimento delle masse nel migliore dei casi, o alla morte per eresia nel peggiore, come è stato il caso di Hallaj. In questo senso, la comprensione dell’ebbrezza nel vero senso rimane riservata all’élite: “Vieni, ti riveli nel vino puro il segreto/a condizione che tu non lo mostri ai pervertiti dai cuori ciechi”.[38]
In conclusione, e come abbiamo menzionato nel corso di questo articolo, presso Hâfez il vino si riferisce all’estasi e alla gioia provate quando l’Amato si manifesta nel cuore dell’amante, e che gli fa dimenticare il proprio egoismo.[39] Di fronte al mondo che ci invita ad abbandonarci all’ebbrezza del potere e della sua bellezza effimera, la poesia gnostica invita l’uomo a ubriacarsi di Dio. Qui, il vino “vero” diventa la più lecita delle bevande. Lungi dall’invitarci a piaceri effimeri, Hâfez invita l’uomo alla beatitudine eterna che non è altro che l’incontro con il suo Creatore, incontro possibile proprio nel corso di questa vita: “Prima che il fragile mondo si perda in rovina/Perdiamoci nella coppa di vino rosso!”[40] Come ha sottolineato Yayha Bonaud[41], l’uso del linguaggio bacchico nel contesto del simbolismo spirituale non è assente dalla tradizione cristiana, e si trova in particolare nelle poesie di Teresa d’Avila e Giovanni della Croce. In uno dei suoi scritti, quest’ultimo evoca lo stato di unione con il divino, che ricorda il tono dei ghazal di Hâfez:
“È opportuno notare che questo favore della soave ebbrezza non passa così rapidamente come la scintilla, ma dura più a lungo. La scintilla, infatti, tocca l’anima e passa, mentre il suo effetto dura per un po’ e, talvolta, anche a lungo. Il vino aromatico, invece, di solito dura a lungo, come l’effetto che produce e che consiste, ripeto, in un amore pieno di soavità nell’anima… anche se non sempre con la stessa intensità, perché diminuisce o cresce, indipendentemente dalla volontà dell’anima. Talvolta, senza far niente da parte sua, l’anima sente nel suo intimo che si va soavemente inebriando e infiammando di questo vino celeste”.[42] Questo processo è presente anche nella Bibbia, specialmente nel Cantico dei Cantici.[43] Tuttavia, la ricchezza e il potere evocativo di questo simbolismo raggiungono nuovi livelli nella poesia gnostica iraniana, dove i significati più alti del Corano, inclusa la concezione dell’uomo perfetto come “vicario o luogotenente (khalifa) di Dio sulla terra”, al contempo Dio-uomo e servitore dipendente del suo Creatore, sono espressi con una bellezza unica: “Sono un mendicante nella taverna, ma guarda come, ubriaco/orgoglioso davanti al cielo, comando le stelle!”[44]
NOTE
[1] Khamr deriva anche dalla radice kh-m-r che evoca l’idea di rotta, disfatta.
[2] Allâmeh Tabâtabâ’i, Tasfir al-Mizân, traduzione persiana di Seyyed Mohammad Bâqer Mousavi Hamedâni, Vol. 6, Daftar-e enteshârât-e Eslâmi, Qom, pp. 174-175. L’estensione di ciò che rientra sotto il termine khamr è stata definita più o più ampiamente a seconda delle diverse scuole giuridiche. Al riguardo, cfr. “Vins, boissons intoxicantes et drogues”, Amir-Moezzi, Mohammad Ali (a cura di), Dictionnaire du Coran, Robert Laffont, Bouquins, 2007, pp. 910-915.
[3] Allo stesso modo, l’agonia è talvolta indicata con l’espressione sakra al-mawt, letteralmente “il torpore della morte”. Anche lo zucchero (sokkar) deriva dalla stessa radice ed è l’origine della parola “moskirât”, che indica bevande derivanti dalla fermentazione dello zucchero e, per derivazione, tutte le bevande alcoliche. Originariamente, la parola “sokr” si riferiva anche a tutto ciò che distanzia l’uomo dalla sua ragione o che “erige una barriera” tra lui e il suo intelletto (Râghib, Mofradât, op. cit. Al-Mizân, Vol. 12, pp. 418-419).
[4] Dio, tuttavia, è conciliante verso coloro che consumavano alcol prima che fosse proibito e si sono pentiti: “Per coloro che credono e operano il bene non ci sarà male alcuno in quello che avranno mangiato, purché abbiano temuto [Allah], abbiano creduto e compiuto il bene, temano [Allah], credano, e [sempre] temano [Allah] e operino al meglio. Allah ama i buoni”. (5:93)
[5] “Berranno un nettare puro, suggellato (rahiq makhtoum) con suggello di muschio – che vi aspirino coloro che ne sono degni [un nettare] mescolato con Tasnîm, fonte di cui berranno i ravvicinati”. (83:25-28)
[6] “Indosseranno abiti verdi di seta finissima e broccato. Saranno ornati con bracciali d’argento e il loro Signore darà loro una bevanda purissima (sharâb)” (76:21).
[7] Hâfez di Shiraz, Divân, Ghazal 148.
[8] Cioè, una parola in cui Dio si esprime direttamente attraverso la bocca del Profeta Muhammad e che quindi è considerata una parola divina, ma che tuttavia non ha lo status di rivelazione.
[9] Masnavi, libro sesto.
[10] Dizionario arabo-francese “As-Sabil”, Daniel Reig, Larousse, 1983, p. 1614.
[11] Il verbo nell’ottava forma “ikhtamara” evoca la stessa idea.
[12] Masnavi, libro IV, 2688-91.
[13] Ibid., 2694-2695.
[14] Altri passaggi del Masnavi fanno riferimento alla differenza tra ebbrezza divina e terrena, per esempio: “Una sola goccia di vini celestiali trasporta l’anima lontano dal vino dei vignaioli (di questo mondo)/ Quale ebbrezza colpisce allora gli angeli e gli spiriti purificati dalla gloria divina/ Che hanno legato i loro cuori a questo vino per averlo annusato una sola volta, e che hanno rotto l’anfora del vino terreno!” (Masnavi, libro III, 822-5).
[15] Masnavi, libro III, 4743.
[16] Ghazal 1, p. 85.
[17] Ghazal 63, p. 289.
[18] Ghazal 144, p. 445.
[19] Dio fa sì che le persone testimonino “su se stesse”, cioè a partire dalla loro realtà esistenziale. Li invita così a contemplare se stessi per riconoscere che Dio è il loro Signore. Ciò implica che la presenza divina esista nella stessa natura dell’uomo. Questa realtà è evocata anche dal famoso hadith profetico: “Chi conosce se stesso (la sua anima) conosce il suo Signore“.
[20] Ghazal 11, p. 119.
[21] Ghazal 36, p. 212.
[22] Ghazal 128, p. 413.
[23] Nella poesia di Hâfez, la taverna è talvolta chiamata meykadeh, a volte meykhâneh, che letteralmente significa “la casa del vino”.
[24] Questa realtà è evocata anche in questi versi: “Il viandante spirituale (sâlek) che conosce la Via che conduce alla strada della Taverna/ trova inutile bussare a un’altra porta!“, ghazal 48, p. 256.
[25] Ghazal 293, p. 768.
[26] Ghazal 372, p. 939.
[27] Ghazal 6, p. 103.
[28] Ghazal 72, p. 306.
[29] Ghazal 2, p. 88.
[30] Ghazal 165, p. 486.
[31] Ghazal 273, p. 721.
[32] Ghazal 366, p. 926.
[33] Ghazal 474, pp. 1149-1150.
[34] Bihar al-Anwâr, Vol. 67, p. 249. In generale, il numero quaranta possiede grande importanza nella tradizione islamica. Corrisponde anche al numero di giorni in cui Mosè digiunava prima di incontrare Dio: “E fissammo per Mosè un termine di trenta notti, che completammo con altre dieci, affinché fosse raggiunto il termine di quaranta notti stabilito dal suo Signore”. (7:142)
[35] Ghazal 421, p. 1038.
[36] Ghazal 41, p. 230.
[37] Ghazal 129, p. 415.
[38] Ghazal 273, p. 722.
[39] Mollâ Mohsen Kâshâni sottolinea questa dimensione mistica del vino in Hâfez, in particolare nell’introduzione che scrisse al Divan di Hâfez. Basandosi sull’unicità dell’esistenza degli gnostici, è possibile affermare per estensione che l’intero mondo è costantemente irrigato dal nettare divino, poiché le Sue manifestazioni e i Suoi doni sono ininterrotti.
[40] Ghazal 388, p. 970.
[41] Bonaud, Yahyâ Christian, “La via dell’amore. Poesie spirituali dell’Imam Khomeyni”: https://islamshia.org/la-via-dellamore-poesie-spirituali-dellimam-khomeyni-c-y-bonaud/
[42] S. Giovanni della Croce, Cantico Spirituale, pag. 52. Cfr. https://famigliafideus.com/wp-content/uploads/2016/05/SAN-GIOVANNI-DELLA-CROCE-CANTICO-SPIRITUALE.pdf
[43] “Mi ha introdotto nella cella del vino e il suo vessillo su di me è amore” (2:4). ” Sono venuto nel mio giardino, sorella mia, mia sposa, e raccolgo la mia mirra e il mio balsamo; mangio il mio favo e il mio miele, bevo il mio vino e il mio latte. Mangiate, amici, bevete; inebriatevi d’amore. (5:1)
[44] Ghazal 342, p. 870.
Articolo originale: Le vin dans la poésie gnostique à travers l’exemple de Hâfez : de l’ivresse terrestre à l’extase spirituelle – La Revue de Téhéran | Iran
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