Disputa, Monito, Vaniloquio. La Questione del “Dialogo” (prima parte)

Disputa, Monito, Vaniloquio. La Questione del “Dialogo” (prima parte)

R. Arcadi

È oramai da oltre mezzo secolo, da quando la Cristianità cattolica romana ed il mondo intero furono testimoni dell’evento cruciale del Concilio Ecumenico Vaticano II, che la fa da padrone in ogni dove il cosiddetto “dialogo”. Ricordiamo che quell’evento fu preceduto da un celebre discorso dell’allora Papa Giovanni XXIII, che se la prese con i cosiddetti “Profeti di sventura”, nell’esaltazione dell’età presente, facendosi promotore di un “dialogo” con la modernità, in tutte le sue variegate realtà, al fine di conoscerle, per poi accettarle, almeno in parte, vale a dire, quelle più significative nella loro efficienza sotto il riguardo appunto della loro indole “moderna”.

Sarà da notare, a questo medesimo riguardo, una doppia fallacia dell’argomentare, alla quale se ne aggiunge una terza, sotto il rispetto del giudizio di valore sulla sequela delle vicende umane, e poi ancora una quarta, per quello che concerne il significato del termine in questione, del “dialogo”. Si tratta in primo luogo della pretesa affatto infondata, che la conoscenza debba portare in ogni caso ad un riconoscimento, nel senso di un’accettazione, questo valendo in ogni caso, non invece ad un’alternativa del giudizio di valore.

Laddove l’abuso risulta invece affatto evidente, quando s’abbiano a riconoscere, ma non certo nel senso d’accettare gli uni e gli altri, il bene ed il male, la realtà e l’inganno, l’essere ed il nulla, la perfezione ed il difetto, tanto da accettarli, oppure di rifiutarli, appunto in virtù della loro qualifica di oggetto di conoscenza. Come nel caso di chi, conoscendo appunto le varie realtà del mondo moderno e contemporaneo, abbia a metterne in rilievo le fallacie, gli abusi, e le prevaricazioni, per poi rifiutarle, con tutta nozione di causa.

Questo in vario modo, anche riconoscendone la condizionalità obiettiva contingente, ma di fatto imprescindibile, rigettandone le implicazioni d’ordine superiore, nel verso del compimento umano, quanto al quale andranno tenute a bada. Come se chi se ne renda conto, non dovesse conoscerle assai meglio di chi si ostini ad accettarle a tutti i costi. Essendo peraltro qui necessario fare un previo distinguo di significati, dato che la modernità, se intesa in senso stretto, implichi tutta un serie di abusi aberranti contro l’uomo, miranti a distaccarlo dalla trascendenza, che è il medesimo che la sua stessa natura propria, per sprofondarlo nelle voragini infere.

Laddove invece, in senso lato, essa comprenderà tutte le realtà della presente scansione temporale delle vicende umane di questo nostro basso mondo, ivi compreso quelle che ne rigettano la prevaricazione. Andando poi entrambe distinte da quel famigerato “modernismo”, nel quale a suo tempo, nella sua versione applicata al mondo cattolico, l’allora Papa Pio X ebbe a riconoscere la “summa di tutte le eresie”, modernismo che non fa se non estrapolare della modernità in senso lato, a livello mentale l’aspetto regressivo, quello in senso stretto, per farne quindi il fulcro delle sue concezioni mondane e submondane, con tutte le conseguenti applicazioni aberranti.

Dunque presunta “conoscenza”, che dovrebbe portare immancabilmente a benevolenza a tutti i costi, con tanto di discorsi melliflui, ed ammiccamenti amichevoli, dove la nozione di conoscenza, dell’identità esistenziale, con conseguente rifiuto dell’inesistenza qualsivoglia, viene falsata all’inverosimile. Per condurre a quell’uniformità, che non farebbe se non rifiutare in definitiva, a parte l’uso strumentale nascosto che se ne possa fare per tacitare le coscienze, solo quanto si mostri di quella realtà ad essa inassimilabile, in virtù del suo ufficio attuativo eminente sulle vie dell’ascesa.

Realtà inassimilabile alla prevaricazione ed alla degradazione, che non accetta di farsene fagocitare od usare, senza esser loro in nessun modo uguale mercé della presunta scaturigine, almeno implicitamente assunta, di queste e di quelle dal Signore massonico del vortice della voragine infernale, vale a dire, dal nulla puro, dall’essere indefinito, o dalla materia prima, con le sue pretese creative. Ma richiamandosi ad un succedersi graduale di dignità esistenziali, che potranno ricondursi solo alla Fonte dell’essere, donde tutto proviene.

Saremmo dunque “tutti eguali”, non fosse che l’eguaglianza esistenziale è un assurdo puro e semplice, una mera insussistenza imposta come un letto di Procuste alla varietà esistenziale, estrapolata che sia velleitariamente, nella sua guisa solamente mentale, dalla sua Scaturigine autentica. Essendo questo peraltro il senso di quel consesso tra eguali, di quel “parlamento delle religioni” di teosofica memoria, a cui si riduce in definitiva il presente “dialogo ecumenico”.

Essendo peraltro già questa una significativa scelta di campo tra Iddio, Ne sia esaltato l’Essere, ed il nulla, con tutti i suoi suppositi apparenti, a prescindere da quello puro, dato che Egli, come recita il Sacro Corano, abbia costituito ogni cosa nella sua misura (LV, 3), mentre la Bibbia dice anch’essa “omnia in numero, pondere, et censura fecisti”, “hai fatto tutte le cose secondo un numero specifico, un peso sostanziale, ed una misura esistenziale.

Chi si rifà qui dunque a quella uniformità ed uniformazione, ha già fatto la sua scelta di campo, voglia o non voglia ammetterlo, lo sappia o non, in quest’ultimo caso mercé di un’“ignorantia vincibilis”, la quale può e deve essere superata, in virtù della legge rivelata addita, e della Legge di natura abdita, per usare il linguaggio di Campanella, non essendo quest’ultima niente altro che la prima. Vale a dire, la prova esterna, il promulgatore della Legge Divina ed il suo erede, e la prova interna che loro corrisponde, come recita il Kāfī.

Ora la seconda delle fallacie dell’argomentare suddetto sarà la pretesa, che quel riconoscimento ed accettazione uniforme ed informe sia radicato in una qualche conoscenza. Dicevamo appunto che la conoscenza sarà, in vario modo, anche per estrapolazione mentale, identità esistenziale che rifugge per sua natura dal nulla, laonde in primo luogo, non ogni conoscenza conduce ad un riconoscimento di dignità esistenziale, potendo essa anche implicare un rifiuto ben motivato dal riconoscimento di un nulla almeno relativo, com’è nel nostro caso.

La pretesa di riconoscere a tutto, od a quasi tutto, una dignità siffatta essendo radicata, contrariamente a quello che pretendeva il Papa suddetto, e quanti che come lui lo pretendevano e lo pretendono, se in buona fede, nell’“ignorantia vincibilis” di cui dicevamo, della quale ci si farà carico, oppure in mala fede, quando ci si dovesse rendere conto della fallacia, della quale nondimeno costoro si fanno latori, per il conseguimento dei loro fini perversi.

Altro inganno incluso nell’argomentare suddetto, è che dopo secoli d’incomprensioni e di ciechi contrasti, si sarebbe alfine giunti, appunto grazie all’azione illuminata di quel soggetto, e di quelli come lui, grazie alla loro pretesa larghezza di vedute, ad una reciproca comprensione, e ad una pacifica convivenza. Nulla di più errato. Nell’Islam è invece sino dai tempi del Nunzio divino, e delle Guide suoi puri successori, che ci si incontra e si discute.

Esemplare fu, a questo medesimo riguardo, il comportamento dell’Inviato d’Iddio Altissimo, il quale ospitò benevolmente nella sua stessa casa la delegazione dei cristiani di Najiran, per poi discutere con loro la questione della divinità di Gesù, la pace su di lui, prima con l’argomento intellettivo, quindi sfidandoli addirittura per tacitarne ogni dubbio ulteriore, a quel Giudizio d’Iddio, in arabo “mubāhalaħ” (1), di cui entrambi ci dice Sacro Corano (III, 59-61).

Sacro Corano che raccomanda recisamente d’avvalersi dell’argomento intellettuale: “adducete il vostro argomento, se siete veridici” (XXVII, 64). Argomentare non fallace, ma radicato invece nell’intelligenza trascendente, vale a dire nei nomi adamici primordiali, II, 31, nel deposito originale della fede accettato ab inizio dall’uomo (XXXIII, 72), nel riconoscimento iniziale della signoria divina da parte dell’uomo (VII, 172), nulla avendo a che vedere con i cavilli e con gli inganni del ragionamento meramente discorsivo e razionale.

Celebre e memoranda fu la disputa che Ali Ibn Musa Rida, la pace su di lui, ottavo Erede e legittimo Successore dell’Inviato d’Iddio Altissimo, ebbe a Tus, allora capitale del califfato, al tempo del Califfo Ma’mun, con i rappresentanti di Cristiani, Ebrei, e Zoroastriani, che dovettero inchinarsi al cospetto della sua sapienza ispirata. Dunque nulla di nuovo sotto il sole, almeno sotto il riguardo della libera discussione, non dell’accordo a tutti i costi.

Tanto che adesso, tutto al contrario, nessuna luce riluce su quelle riunioni melense da “fiera delle religioni”, com’ebbero giustamente a definirle i cattolici tradizionalisti, identificandole correttamente, almeno dal loro punto di vista, con l’“eresia”. Che vorrebbero portare ad un guazzabuglio indistinto, a quella “notte in cui tutte le vacche sono nere”, che Hegel rimproverava all’assoluto di Shelling nell’introduzione alla sua Fenomenologia dello Spirito, ad un “tutti insieme, tutti uniti”, anche con Lucifero, all’insegna di un indiscriminato “vogliamoci bene” privo di ragione sufficiente.

Essendo questo in effetti un assunto prettamente moderno e modernista. Già John Locke, a suo tempo, pubblicava la sua celebre e conclamata “Lettera sulla Tolleranza”, proprio agli albori di quella famigerata prevaricazione anglosassone, la quale avrebbe poi portato al più abietto servaggio coloniale un quarto delle terre emerse, ed un quinto della popolazione mondiale, ci riferiamo qui ai dati della seconda metà dell’ottocento e della prima metà del novecento.

Pur vivendo un quinto della popolazione della stessa Gran Bretagna, a dire delle sue stesse fonti, di mendicità, questo a dispetto delle enormi ricchezze depredate in ogni parte del mondo, ed ivi accumulate nelle mani di pochi. E preferiamo stendere un velo pietoso sulla sventuratissima Irlanda, destinata dai dominatori allo sterminio per fame, come avvenne pure in India ed in Iran, per non dire delle stragi efferate perpetrate altrove da questi “benefattori”.

Dunque John Locke scopriva quella tolleranza indistinta, non radicata in nessuna conoscenza, scevra da ogni disputa e discrimine, che in definitiva era, almeno occultamente, acquiescenza ai crimini inenarrabili dei suoi connazionali. “Tolleranza” della quale si sarebbe fatta in seguito vessillifera, come dicevamo, proprio quella Chiesa Cattolica, che si era distinta in precedenza per il suo fervore persecutorio, dove condanniamo non la cosa in sé, ma l’esagerazione.

Locke era in effetti un sensista che non dava nessuna importanza alla conoscenza ed alla realtà trascendente, poco prima di Kant, ed agli albori dell’Illuminismo, e di quella massoneria speculativa, resasi sovversiva una volta scissa dal suo previo distacco da quelle che erano state le antiche vie attuative legate ad un’arte. Trattandosi per lui di accettare ed imporre uno stato di fatto preteso, ed una concezione del mondo, quella che in definitiva, nella convinzione che l’essere debba scaturire dal nulla, la farà finita con ogni dignità esistenziale, con le conseguenti antecedenze nel verso della prossimità divina.

Era ancora la sua una “tolleranza” con una qualche non indifferenza, in virtù della sfumatura peggiorativa del termine, che implicherebbe un qualche giudizio di valore. Sfumatura che sarebbe venuta meno, per lasciare il posto all’indifferenza, successivamente mascherata da “pari dignità”, che sarebbe solo servita a coprire lo sfruttamento materiale e indiscriminato, e l’abbrutimento corporeo ed intellettuale delle sventuratissime popolazioni, che si fossero trovate a contatto con questi mirabili vessilliferi dell’“eguaglianza“ umana.

Più eguali però che fossero essi stessi, nell’indifferenza ad orpelli per loro oramai insignificanti, senza nessun riguardo quanto allo sfruttamento indiscriminato ed all’abbrutimento, ben peggiori della strage e del genocidio, senza nessun rispetto, senza neppure dire “tolleranza”, delle altrui risorse corporee ed animiche. Basti ricordare a questo proposito la diffusione dell’oppio e del tabacco in Cina ed in Iran, e dei liquori tra gli indigeni del Nord America, per indebolire la fibra di quelle popolazioni, rendendole incapaci di reagire.

Per fare quindi posto, in questa meravigliosa vicenda delle “magnifiche sorti e progressive” della specie umana, al tentativo ultimo di prevaricazione intima contro la stessa intelligenza, nella fattispecie quella trascendente, contro ogni autentica sottomissione ad Iddio, sia magnificato ed esaltato, in nome di tolleranza ed eguaglianza, perché, come recita appunto il Sacro Corano, costoro non saranno contenti sino a che non ti avranno tolto la tua religione (II, 217, e II, 120).

Preludendo così a quella “fiera delle religioni” suddetta, corrispettiva al loro “libero mercato”, dove nessuno si sarebbe più premurato di avvalersi dell’intelletto, ma invece facendo leva sulle più basse pulsioni concupiscili e passionali dell’anima inferiore “prona al male” (S. C., XXI, 53). A cominciare dall’uso di quel denaro, oppure anche di certi vari interventi materiali, volti ad alleviare le miserie provocate da quei medesimi millantati benefattori dell’umanità, come il pompiere che spenga l’incendio della casa cui ha dato fuoco.

Dicevamo che questa “fiera” e questo mercato nulla avranno più a che vedere con il confronto intellettuale delle convinzioni, quale si ebbe in precedenza specialmente nel mondo musulmano. Anche tenendo conto del fatto che ivi, prima del diffondervisi divisioni secolarizzanti di matrice occidentale, le minoranze religiose vi furono sempre rispettate, rimanendovi vive e vegete, Cristiani, Ebrei, Zoroastriani, come la maggioranza Indù dell’India.

Ed entra qui in gioco la quarta delle fallacie sopra menzionate, vale a dire, quella che concerne l’uso improprio del termine “dialogo”. A questo medesimo proposito, occorrerà essere assai chiari. Questo vocabolo non aveva mai avuto in precedenza in nessun modo il significato banale d’indifferenza melliflua attribuitagli al giorno d’oggi, anzi significava, sotto un certo rispetto tutto il contrario di quel che invece si pretenderebbe al presente d’affibbiargli, snaturandolo all’inverosimile, anche quanto alla sua notazione linguistica.

In effetti, il suo precedente più celebre ed autorevole sarà da reputarsi quello dei “dialoghi” di Platone, sotto i quali sono raggruppate la maggior parte delle sue opere. Vale la pena osservare, a questo medesimo riguardo, che il vocabolo suddetto, nell’antica lingua degli Elleni, ha un significato sia di unità, mercé del verbo suffisso “lego”, nel senso di “raccolgo”, “raduno”, così come anche nel verbo latino della medesima forma “legere”, “passare in rassegna unendo”, donde il nostro “leggere”, come per l’’equivalente verbo latino.

Sia avendo il medesimo termine un significato anche distintivo o separativo, grazie alla preposizione prefissa “dia”. Dialettica dunque, proprio in quel senso primario, che in Platone viene chiarito nel Fedro, di unire distinguendo, e di distinguere unendo. Vale a dire, in altri termine, sotto il riguardo puramente ed eminentemente esistenziale, la discesa creativa dall’Uno al molteplice, e l’ascesa iniziatica dal molteplice all’Uno, come preconizzata anche da Ibn Arabi e soprattutto da Molla Sadra (2), in primo luogo negli Asfar.

Concezione ch’egli corroborava, nei suoi Mašā°ir, persino con una citazione dall’Evangelo dell’Apostolo Giovanni, per cui non ascende a Iddio, sia magnificato ed esaltato, se non chi Ne era disceso, in piena conformità col verso coranico “d’Iddio siamo, ed a Lui ritorniamo”. Concezione esemplare, com’era anche per Platone, di un’attitudine unitiva, per cui si procede da dall’Identità Trascendente Suprema, alle distinzioni ed alle separazioni effettuali, per tutto il tramite dei livelli intermediari dell’essere e dell’esistenza.

Senza che si debba invece andare, com’è esemplificato nell‘Organon di Aristotele, da qualità a qualità, oppure da supposito a qualità, a prescinderne dallo stato unitivo trascendente, nella loro maggiore o minore inclusione qualificativa, a dispetto di quello che asseriva invece Molla Sadra, sulla scorta e di Platone e della sua corrente, vedi Plotino, appunto della loro identità in divinis, con le implicazioni predicative e distintive conseguenti ed effettuali.

Tutto questo sotto un riguardo esemplare, come dicevamo. Dal punto di vista applicativo invece, abbiamo nei “dialoghi” platonici una procedura la quale porterà ad una soluzione unitaria inequivocabile, in ogni caso del tutto esclusiva del suo opposto, sia che le due parti siano in dissenso tra loro, sia anche che una delle due solamente si presti a rispondere alle domande di chi conduce il discorso, per lo più Socrate, ma non solamente, al fine di giungere ad una conclusione univoca, che non dia luogo a nessuna ambiguità.

Questo in ogni caso, come dicevamo, anche in quello di una ricerca dottrinale dove chi risponde, invece d’opporsi, sia pure senza un suo dissenso palese, la faccia nondimeno da controparte pur sempre di un confronto, che dovrà portare in ogni caso ad un esito univoco. Senza nessuna concessione dunque alla pretesa contemporanea di stare insieme ad ogni costo, anche nelle opposizioni più estreme ed irriducibili, che non ammettono nessuna unità, ma solamente esclusione, quali quelle di cui dicevamo dianzi.

Essendo questo il medesimo procedimento che si aveva nelle dispute delle università medievali, alle quali accenna ad esempio Dante, delle quali si ha ancora al presente una qualche rimanenza in certe università pontificie, specie quelle d’indirizzo tomista, come l’Angelicum di Roma. Dominando tuttora nei centri d’insegnamento di una parte almeno del mondo islamico, nella fattispecie nei centri d’insegnamento sciiti, specie in Iran, in arabo le cosiddette “ĥawzaħ”, in arabo “distretto, con le loro dispute, le cosiddette “mubāĥŧaħ”, dal verbo di prima forma “baĥaŧa”, vale a dire, “ricercare”, “investigare”.

Nel Parmenide platonico, la dialettica assurge alle vette della trascendenza suprema dell’Uno, lo “En”, identico al Bene della Politeia, superiore all’essere stesso nella sua impredicabilità, risultato di tutta una serie di affermazioni e di negazioni donde esula pienamente. Con esiti che saranno gli stessi di quelli del suo continuatore Plotino, delle correnti sapienziali musulmane, e dell’interpretazione di Sankara del Vedanta quanto al mondo indù, nulla aventi a che fare con un qualsivoglia impersonalismo riduttivo nel senso di un’indifferenziazione pretesa primordiale, della quale abbiamo già detto sopra.

Mentre nel caso della cosiddetta “dialettica” hegeliana, come anche nelle procedure aristoteliche, si avrà tutto un succedersi di partizioni contrastanti, come “tesi” ed “antitesi” in Hegel, oppure soggetto e predicato in Aristotele, la quali che non faranno che soprastare al nulla ed all’essere indefinito pretesi originari. Riferendo loro, proprio a quella “notte in cui tutte le vacche sono nere” che Hegel condannava, esplicitamente in lui, implicitamente in Aristotele, quello che essi non potranno mai produrre, per quella separazione supposta iniziale, ad esempio il movimento, com’è per le più schiette dottrine massoniche.

Non più discesa ed ascesa, dall’essere all’esistenza e viceversa, nel comporsi di quest’ultima col nulla relativo in quanto essere relativo, ma pretesa ascesa dal nulla presunto originale della supposta mente divina vuota, identica all’“io penso” di Kant, appunto all’esistenza ed all’essere. Ma in ogni caso, in tutti gli assunti precedenti, nulla che abbia neanche lontanamente a che vedere, anche nel caso più spurio ed aberrante, che sarà quello hegeliano, con la concezione odierna del “dialogo” o non più dialogo, come quello platonico.

Laddove si voglia esulare, stendendovi un velo pietoso, dagli assunti ridicoli di certi occidentalizzati, sedicenti musulmani, che riducono la cosiddetta “dialettica” ad un vuoto nome roboante, per un mero insieme di partizioni contrapposte, che essi si limitano a giustapporre, in un modo di vedere le cose assai banale, assai più spurio di quello hegeliano. Com’è per quel Soruš, che lasciamo al suo vano blaterale delle sue lezioni universitarie ai suoi degni allievi americani, col suo vacuo cicalare modernizzatore contro l’Islam.

Ai nostri giorni, dopo il Concilio Vaticano II, autentico sconvolgimento cruciale, l’astuzia accattivante dei capi di quello che fu, e non è più, a nostro modesto avviso il Cattolicesimo Romano, ha fatto sì che la loro concezione aberrante del cosiddetto “dialogo” si sia imposta in tutto il mondo, approfittando dell’ingenuità altrui, quando non si trattasse di complici in mala fede, con tutto un conseguente cicalare a vanvera, che lascia il tempo che trova.

In un nostro precedente scritto, e chiediamo qui scusa se ci permettiamo addirittura di citare noi stessi, che avevamo dedicato al dialogo tra le civiltà, lo avevamo definito un compito certo imprescindibile, ma a patto che il suo punto o di partenza e di arrivo fosse l’attestazione dell’Unità Divina, come recita il Sacro Corano: “Addivenite ad un verbo comune, che non adoreremo se non Iddio, senza nulla associarGli” (III, 64), senza indifferenze banalizzatrici. Ed a patto che esso fosse tra autentiche “civiltà”, quale l’Occidente non è più, per il suo completo difetto di una qualche trascendenza direttiva.

Che cosa mai vorrà dunque significare tutto questo? Nello scritto suddetto, facevamo riferimento a precedenti illustri, quanto a Tommaso d’Aquino ed alla sua deferenza per Abu Alì Sina, il nostro Avicenna, che egli considerava suo Maestro, posto anche da Dante tra gli spiriti magni del Limbo cristiano, ed alla citazione da parte di Molla Sadra dell’Evangelo dell’Apostolo sopra menzionata. Che cosa intendiamo dire con tutto questo, che cosa intendevamo dire e fare esemplarmente quei grandi, anzi quei sommi spiriti del passato?

Significherà qui il fatto, che richiamarsi alla Trascendenza Divina vorrà dire trarne o tutte le conseguenze, od all’uno od all’altro livello. Dato che altrimenti quella medesima Unità Divina verrebbe falsificata all’inverosimile separandola dalle sue implicazioni creative, iniziatiche, dottrinali, e giuridiche, dando luogo appunto a quella separazione ed associazione di realtà indifferenti, apertamente interdette dal Suo verbo Rivelato, quell’Unità dovendo essere principio e fine, come appunto dicevamo qui sopra.

Significherà riconoscere, siccome recita peraltro lo stesso Credo cristiano, o Simbolo Niceno, che Egli si è espresso per mezzo dei Suoi Inviati, significherà, quanto ai Giudei, indurli a riconoscere che la profusione della Sua generosità non si è esaurita, che la Sua Mano non è certo “incatenata” (S.C., V, 64), come essi pretenderebbero, ma che invece Egli è andato oltre, con Gesù, la pace su di lui, e con Muhammad, che Egli benedica lui e la sua Famiglia immacolata, senza artifici limitatori ad esclusioni di uno o d’entrambi.

Perché pretendere che Egli non abbia profuso alcunché di definitivo ed inclusivo per l’interezza dell’umanità e dell’uomo stesso, significherà mancargli di rispetto, perché avrà proprio questo senso, il fatto di pretendere che la Sua Legge o sia destinata ad una Gente solamente, oppure che essa sia rimasta monca, priva del suo aspetto giuridico, da raccattare all’occorrenza da altre tradizioni, con il pretesto che la fede debba giustificare anche senza le opere. Perché se poi le opere verranno ad essere necessarie, significherà appunto che la Rivelazione non è completa, mercé di siffatti aggiustamenti suddetti.

Tutto questo significherà in effetti indurre i cristiani ad una trasposizione trascendente delle loro concezioni limitative della trinità e dell’incarnazione. La prima andando intesa solamente al livello dei nomi e degli atti divini, le cosiddette “energie” divine increate sempiterne dei Cristiani d’Oriente, andando essa risolta in quell’Essenza Suprema del tutto scevra da relazioni personali o d’origine, quali appunto quelle trinitarie, che non esauriscono certo, mercé della loro “distinctio formalis”, com’’è per Scoto, l’Infinità Divina.

La seconda, vale a dire, la cosiddetta “incarnazione”, quanto al fatto che si avrà qui l’assunzione sic et simpliciter di una natura umana individuata da parte dell’ulteriorità incomunicabile del supposito divino, con la sua stessa natura, tanto che si avrebbe non un’incarnazione”, termine a nostro modesto avviso assai improprio, ma piuttosto una sorta di “deificazione”. Assunzione che l’assocerebbe alla Natura Divina individuata a cui quel supposito, o persona, è sotteso, mercé della “communicatio sermonum”, della qualità umane e divine.

Ma avendosi invece un procedere inclusivo di tutti i livelli dell’essere, dall’Essenza dell’Identità Suprema, sino al livello della sensibilità corporea, coinvolgendo così sia il supposito personale profuso e derivato, sia la sua qualificazione, vale a dire, il palesamento di cui sarà latore l’intelletto trascendente. Donde nessuna salto dalla trascendenza alla sensibilità, senza che il palesamento abbia ad essere un raggio dell’intelletto, ma costituendo invece la qualificazione della sua sussistenza, questo di livello in livello dell’essere profuso.

Senza che s’abbia, in questo modo, nessuna “figliolanza” divina, recisamente condannata in più luoghi del Sacro Corano, ed in sé stessa, e per i suoi possibili abusi. Da sostituirsi con la nozione assai più appropriata di “verbo divino”, di quell’“actus dicendi”, e non “intelligendi” della stessa dottrina trinitaria, che quest’ultima attribuisce peraltro al procedere della Sostanza Divina in sé stessa, all’identità della sua “relazione d’origine”, non alla sua produzione affatto subordinata, seppure sussistente ab aeterno al Suo cospetto.

Senza che inoltre la pretesa “figliolanza divina”, vale a dire, questa indebita deificazione, abbia ad interrompere la sequela del palesamento d’Iddio, Ne sia esaltato l’Essere, al mondo, dalla sua sublimità profusa a suo modo infinita, ma non esaustiva dell’infinità Divina. Essendo peraltro quella la sequela della sua perfezione ad extra, non certo sotto il riguardo dell’eminenza trascendente, che sarà l’identità stessa di quel palesarsi, oppure, se vogliamo qui usare un termine assai improprio ed abusato, la sua interiorità.

Non implicando dunque questo preteso esternarsi della Divinità stessa, nel suo presunto “farsi come”, una trascendenza incolmabile rispetto alla dimensione giuridica del Messaggio Rivelato, che ne sarebbe un aspetto affatto inferiore e contingente, in quanto tale da assumersi dall’una oppure dall’altra tradizione, si tratti di quella mosaica, oppure della legge romana, anch’essa di origine divina, secondo quanto attesta Cicerone nelle Filippiche.

Essendo peraltro la dimensione giuridica, seppure nella sua esteriorità apparente, un aspetto sopraordinato dell’ascesa iniziatica, nel suo sembiante di discesa, non avendo nulla a che vedere con la discesa creativa, andando dunque riferita al quarto dei viaggi attuativi dell’intelletto trascendente attestati da Molla Sadra, così come da altri grandi sapienti, strumento peraltro irrinunciabile dell’ascesa iniziatica. Contro certe vacue e stolte immaginazioni contemporanee, che s’adoperano in ogni modo per vanificarlo.

Ragion per cui, la Rivelazione conclusiva dovrà includere tutti i vari aspetti della natura umana, sia normativamente, sia attuativamente, da parte di quell’intelligenza trascendente e presenziale, attiva nella sua compiutezza, alla quale essa sarà sottesa, dalle norme sia animiche, sia corporee del vivere quotidiano, quanto alla necessaria disciplina sussidiaria di realizzazione. Sino alla tanto conculcata dai contemporanei, a bella posta, dimensione comunitaria, aspetto quest’ultimo inscindibile, per quanto consequenziale della natura umana.

Per cui la Rivelazione dovrà essere tale, da poter dare indicazioni valide ed imprescindibili per il buon governo degli uomini, onde abbia ad assicurarne le migliori condizioni per l’ascesa personale, attuativa della trascendenza stessa. Secondo quella che era stata peraltro l’esigenza della Politeia platonica, che non fa per parte sua se non preconizzare i vari aspetti della Rivelazione stessa, richiamandosi in definitiva a quella sapienza adamica originale consumatasi nella Rivelazione muhammadica. Tutto questo quanto ai Cristiani.

Sarà questo dunque il senso di quel dialogo autentico, di cui sopra, che sarà in definitiva una disputa con conclusione univoca, quantunque sempre gentile e corretta, secondo le indicazioni coraniche, XVI, 125, ma se necessario anche un monito. Quando non s’abbia peraltro a che fare con i vaniloqui di quei cuori induriti che Egli ha sigillato (II, 6-7), con quelle anime annerite, secondo quanto recita l’Imam Jafar Sadiq, la pace su di lui, per cui non v’è oramai più ritorno, le quali andranno invece lasciate al loro destino irreparabile (XXVIII, 55).

Questo essendo dunque il senso autentico di una discussione la quale abbia ad avvalersi dell’intelligenza nella sua forma dell’argomento razionale (S.C. XXVII, 64). Guidandola con quella Rivelazione identica nel suo cuore a quei significati trascendenti della sua dimensione suprema, ma che avendo a che fare con un intelletto “possibile”, secondo il linguaggio tomistico ed aristotelico, oppure anche “materiale, secondo il modo d’esprimersi di Molla Sadra, avrà pur sempre bisogno di una guida sopraordinata, che abbia a trarla dal suo divagare, od addirittura dal suo sprofondare infero, che Iddio non voglia.

Portandola così ad essere, l’intelligenza, quello che essa è, quello che essa non sarà mai, se non in virtù di quello che essa è ab aeterno per suo diritto primigenio nella trascendenza del patto divino originale (VII, 172), semplicemente e puramente: “Iddio è la luce di cieli e della terra…Egli guida alla Sua Luce chi vuole” (XXIV, 35). Dato che non s’abbia da sé quel che si ha di là da sé, avendoselo contratto ed affievolito in quanto tale, essendo dunque solamente la grazia d’Iddio Altissimo, sia magnificato ed esaltato, come dicono anche i Cristiani, ad operare questo miracolo, che è il sommo miracolo.

Senza che inoltre vi sia nessun bisogno di ricorrere a quel preteso “sacrificio”, non si sa bene a chi, se a Iddio stesso, sia magnificato ed esaltato, con le fattezze di un carnefice, oppure a dei carnefici presi come dei, che Egli ci perdoni questo nostro crudo modo d’esprimerci. Senza che peraltro, in ragione dell’unità semplice sottesa alla distinzione delle relazioni personali trinitarie, si renda nessun conto, del fatto che questo “sacrificio” dovrebbe concernere o l’una, oppure l’altra persona della configurazione trinitaria.

Essendo dunque quella celebre visione del Cristo sofferente, piagato e moribondo, certo il prodotto dell’aura sottile circonfusa alla visione cardiaca presenziale di taluni dei suoi discepoli, mossi dall’aura passionale che offusca la luce dell’intelletto. Secondo quel modo della visione presenziale che coinvolge taluni uomini di conoscenza, impedendo loro il contemplare schietto di quel Cristo glorioso, che è poi il medesimo del Cristo Pantocratore dei Cristiani d’Oriente, com’è testificato anche dal Sacro Corano (IV, 158).

Essendo stata anche quella dei Giudei una visione presenziale, ma d’indole infera, che li confuse facendo loro vedere e credere, nell’essere mossi dalle loro passioni empie, quello che invece non era affatto, tanto che parve loro di crocefiggerlo ed ucciderlo, senza che lo facessero, come dice appunto il Sacro Corano (IV, 157). Confondendo questa loro aurea inferiore anche la percezione delle fattezze sensibili di Gesù, senza che ci sia bisogno di nessun sostituto, come pretenderebbe invece Corbin sulla scorta del Vangelo di Barnaba.

Col che si mancherebbe di rispetto alle fattezze corporee di Gesù, la pace su di lui, mercé della loro profusione divina, che si vedrebbero ridotte ad un comportamento, in virtù della somiglianza che sarebbe stata assunta nei confronti Giuda Iscariota, affatto indegna di un Suo Nunzio, il che non riusciamo a capire come possa essere sfuggito a tanti studiosi, nella loro pretesa che l’evangelo di Barnaba debba essere a tutti i costi il “vangelo dell’Islam”.

Donde tutte le conseguenze di questa grave innovazione dottrinale, forse richiamatesi anche a sacrifici di dei precristiani come Osiride per gli Egizi e Zagreo per gli Elleni, con tanto di “peccato originale”, che peraltro originale non è affatto, di filiazione divina, con la conseguente generalizzazione trinitaria, di “sacrificio vicario”, che riesuma certe usanze ebraiche espiatorie, il che introdurrà una cesura velleitaria nella discesa della profusione divina.

Facendo del sacrificio riparatore e del suo latore il tutto, in virtù della filiazione divina, come se la generosità divina originale non abbracciasse tutte le cose (S. C., VII, 156), a discapito di quella legge completa, non solamente morale, ma anche pubblica, che resta nondimeno l’apice dell’ascesa iniziatica. Serrando così le porte di quello che non poteva essere chiuso, le mani della generosità divina latrice di un perfezionamento rivelato ad extra, che avrebbe consentito la salvezza dell’infimo degli uomini dei tempi ultimi.

Ricordando che Ibn Arabi attribuisce a Gesù, la pace su di lui, la funzione di Sigillo universale dell’Intimità divina, in arabo “Wilayah”, del che è testimonianza coranica la sua suddetta assunzione corporea gloriosa nella Sua Sublimità (S.C., VII, 158), senza che egli abbia così a subire, com’è invece nella dottrina cristiana a causa del sacrificio vicario, la cesura della morte corporea. Proprio mercé di una siffatta universalità onnicomprensiva, che non accetta eccezione del suo prodursi esistenziale dalla Celsitudine Divina.

Non essendo peraltro in contrasto se non apparente i due assunti dello stesso Ibn Arabi, per cui Alì, la pace su di lui, verrebbe ad essere il Sigillo particolare dell’Intimità. Al quale s’insea dall’altro canto, siccome nella guisa di suo supposito, la sua stessa natura trascendente, altrove asserita dal medesimo Ibn Arabi, di Segreto trascendente del suddetto Sigillo, anche di quello universale, senza che abbia ad esservi pertanto nessun contrasto tra questi suoi due asserti, i quali andranno invece debitamente soppesati ed interpretati.

Includendo peraltro il Vaticinio di Muhammad, benedica Iddio lui e la sua Famiglia immacolata, tutti quanti questi riguardi, la qual cosa lo renderà da un lato suscettibile di una morte corporale, nella sua particolarità sottesa alla sua universalità. E senza che dall’altra parte, appunto per questa medesima compiutezza, intuitiva agli occhi dell’intelligenza presenziale di chi lo accetti, egli sia suscettibile di una qualsivoglia sorta di “deificazione”, com’è invece avvenuto per sia Gesù, sia per Alì, la pace su di loro, il che verrà ad essere indice, se non di una lacuna, certamente di un livello inferiore di perfezione.

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NOTE

1) Cfr. “Il giorno della Mubahila”: https://islamshia.org/il-giorno-della-mubahila-ordalia/

2) Cfr. S.H. Nasr “La vita, le dottrine e il significato di Sadr al-Din Shirazi (Mulla Sadra)”: https://islamshia.org/la-vita-le-dottrine-ed-il-significato-di-mulla-sadra-s-h-nasr/

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Writer : shervin | 0 Comments | Category : Il pensiero islamico , Novità

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