Israele, Nigeria e la fabbricazione di uno “scontro di civiltà” africano

Negli ultimi anni, gli ecosistemi mediatici di orientamento sionista hanno scoperto un’improvvisa e piuttosto inaspettata passione morale: il destino dei cristiani nell’Africa subsahariana. Popolazioni a lungo trattate come marginali, astratte o del tutto invisibili nel discorso strategico occidentale vengono ora spinte sotto i riflettori, ma solo per poter essere strumentalizzate contro i musulmani. Ai neri africani, tipicamente relegati a uno stato di non-essere simbolico, viene concessa una certa rilevanza condizionata nel momento in cui possono essere mobilitati all’interno di una narrazione anti-islamica. I cristiani nigeriani, in particolare, sono diventati centrali in questo cambiamento retorico.
L’affermazione dominante avanzata da questi organi di stampa è che “i musulmani stanno commettendo un genocidio contro i cristiani in Nigeria”. Questa affermazione, tuttavia, crolla anche al minimo livello di analisi.
In primo luogo, i principali autori di violenze su larga scala contro i cristiani non sono i “musulmani” intesi come blocco di civiltà o religioso. Sono gruppi armati specifici, in particolare Boko Haram e le sue fazioni dissidenti. Le loro vittime hanno costantemente incluso musulmani, spesso in numero uguale o superiore a quello delle vittime cristiane. L’ideologia di Boko Haram è violentemente wahhabita-takfiri. Prende di mira i musulmani che ne rifiutano l’autorità, collaborano con lo Stato o semplicemente appartengono alla tradizione islamica “sbagliata” (inquadrata come qualsiasi cosa al di fuori dei ristretti confini dell’innovativa ideologia wahhabita estrema, incluso, naturalmente, l’Islam sunnita tradizionale e normativo). Inquadrare questa violenza come un semplice caso di aggressione tra musulmani e cristiani è quindi analiticamente pigro e, più che altro, politicamente motivato.
In secondo luogo, il termine “genocidio” è utilizzato con notevole superficialità. Sebbene sia indubbio che la Nigeria abbia subito massacri orribili, violenze comunitarie e atrocità da parte degli insorti, questi non raggiungono la soglia legale o empirica del genocidio. Le cifre delle vittime vengono sistematicamente gonfiate, curate in modo selettivo o private del contesto cruciale, come il fatto che la violenza in Nigeria è multidirezionale, alimentata da un complesso mix di insurrezione, collasso dello Stato, banditismo criminale, controversie territoriali, stress climatico e tensioni etniche. I civili musulmani, in particolare nel nord-est, hanno subito perdite catastrofiche che vengono minimizzate o completamente cancellate in queste narrazioni.
Ciò che viene presentato come una preoccupazione umanitaria è quindi più accuratamente inteso come un’arma discorsiva: un modo per ripulire l’islamofobia attraverso il linguaggio della persecuzione cristiana, oscurando al contempo sia la complessità della violenza nigeriana sia la vulnerabilità condivisa della sua popolazione civile. L’improvvisa visibilità dei cristiani africani non è il segnale di un ritrovato universalismo. Piuttosto, è una dimostrazione di empatia selettiva, che si dissolve nel momento in cui le vittime non svolgono più una particolare funzione polemica, in questo caso gli interessi di Israele, che sta disperatamente cercando di limitare i danni dopo l’etnocidio a Gaza e sta anche tentando di innescare un nuovo scontro di civiltà, poiché i suoi stessi funzionari e decisori politici ammettono che è molto più facile rivoltare gli occidentali contro l’Islam che renderli filo-israeliani.
Israele e Nigeria
Per decenni, Israele ha perseguito un’impronta strategica nell’Africa nera con il pretesto della cooperazione allo sviluppo, alla sicurezza e all’assistenza tecnica. Tuttavia, questo impegno si è ripetutamente rivelato controverso perché ha allineato Israele al potere coercitivo piuttosto che al benessere dei civili. In Etiopia, la cooperazione militare e di intelligence è stata accompagnata da brutali campagne di controinsurrezione, che hanno implicato Israele nella violenza di Stato contro le popolazioni emarginate. In Sud Sudan, il sostegno politico iniziale e i trasferimenti di armi sono continuati anche mentre il Paese sprofondava in una guerra civile segnata da atrocità di massa. In Ruanda, la sorveglianza e l’assistenza alla sicurezza israeliane sono state criticate per aver rafforzato un sistema sempre più autoritario. In Uganda, i legami militari di lunga data e i più recenti accordi di espulsione dei rifugiati hanno messo in luce la disponibilità di Israele a esternalizzare il suo regime di confine verso gli Stati africani. In Eritrea, la discreta cooperazione in materia di sicurezza con uno dei governi più repressivi al mondo è stata giustificata dalla geopolitica del Mar Rosso, nonostante le diffuse violazioni dei diritti umani. In Sudan, la “normalizzazione” si è sviluppata parallelamente al regime militare, rafforzando le élite della sicurezza e mettendo da parte le cosiddette forze della “Fratellanza Musulmana”.
Presi insieme, questi casi suggeriscono un modello coerente in cui l’impegno di Israele in Africa è guidato non tanto da principi umanitari quanto da opportunismi strategici, dalla ricerca di alleati, dall’accesso all’intelligence e dai mercati delle armi, gettando così seri dubbi sulla sincerità della sua recente pubblicizzata preoccupazione per le vite degli africani.
In Nigeria, più specificamente, il coinvolgimento israeliano è stato particolarmente abile nello sfruttare le divisioni etnico-religiose del Paese, determinate dalla geografia, trasformando le differenze spaziali in leva politica. Le popolazioni Hausa e Fulani, a maggioranza musulmana, dominano il nord, storicamente legato alle rotte commerciali del Sahel e ai sistemi politici islamici. Gli Yoruba abitano il sud-ovest, ancorati a Lagos e Ibadan, con un “pluralismo religioso” di lunga data e relativamente stabile. Gli Igbo sono concentrati nel sud-est, una regione densamente popolata, adiacente al petrolio, prevalentemente cristiana ed economicamente strategica. È proprio questa posizione sud-orientale (geograficamente compatta, ricca di risorse e storicamente compromessa) che ha reso gli Igbo il bersaglio più suscettibile alle manipolazioni esterne.
La guerra del Biafra (1967-1970) è spesso mitizzata come una lotta inevitabile o moralmente inequivocabile. In realtà, però, il separatismo biafrano non era né legalmente giustificato né politicamente inevitabile. Mentre i pogrom anti-Igbo nel nord erano reali e criminali, la secessione fu motivata tanto dai calcoli dell’élite regionale per il controllo e il potere del petrolio quanto dalla protezione dei civili. La dichiarazione del Biafra fratturò uno Stato postcoloniale già fragile e provocò una guerra catastrofica le cui principali vittime furono gli stessi civili Igbo. Il blocco e la campagna militare del governo federale nigeriano furono brutali, ma anche la leadership biafrana porta la responsabilità di aver prolungato una guerra che non poteva vincere, giocando d’azzardo sulla fame di massa contro la speranza di un intervento straniero.
È qui che il coinvolgimento israeliano diventa tanto significativo quanto profondamente cinico. Israele – alla ricerca di punti d’appoggio strategici nell’Africa nera e desideroso di indebolire i grandi Stati postcoloniali allineati con i blocchi arabi e non allineati – considerava il Biafra un utile strumento (proxy). Le reti israeliane fornirono simpatia diplomatica, assistenza militare e armi, spesso indirettamente, contribuendo a sostenere l’illusione che il Biafra potesse sopravvivere grazie al sostegno esterno. Questo sostegno non alterò l’esito della guerra, ma ne intensificò la durata e la letalità, incoraggiando di fatto i leader biafrani a persistere in una guerra persa a un costo umano immenso. Lungi dall’essere un intervento umanitario, si trattava di opportunismo geopolitico: la sofferenza dei nigeriani sudorientali fu sfruttata per perseguire l’influenza regionale e l’allineamento simbolico.
Nei decenni successivi, questa strumentalizzazione non è cessata. Ha semplicemente cambiato forma. I movimenti separatisti Igbo contemporanei, soprattutto all’interno della diaspora, hanno rilanciato il Biafra come un’identità sacralizzata piuttosto che come un progetto politico fallito. Le rivendicazioni di ascendenza israelita o ebraica, storicamente infondate, vengono promosse aggressivamente come giustificazione retrospettiva della secessione, riformulando la sconfitta del Biafra come una tragedia biblica piuttosto che come un errore di calcolo politico. Gli attori israeliani e filo-israeliani hanno nuovamente svolto un ruolo catalizzatore, amplificando queste narrazioni quando si allineano a un più ampio tentativo di descrivere le tensioni interne della Nigeria come una lotta di civiltà tra musulmani e cristiani.
Così, grazie alla manipolazione sionista, un progetto secessionista fondamentalmente ingiustificato viene retroattivamente santificato. Il trauma storico degli Igbo viene riarmato; e i veri problemi strutturali della Nigeria, di natura “secolare” (corruzione, controllo delle élite, sviluppo diseguale e governance militarizzata in tutte le regioni), vengono oscurati.
Israele emerge non come un osservatore neutrale o un alleato benevolo, ma come un acceleratore ricorrente: prima prolungando una guerra disastrosa, poi contribuendo a trasmutarne la memoria in un asset ideologico. In entrambi i casi, il costo è stato sostenuto in modo schiacciante dai civili nigeriani, mentre i dividendi strategici si sono accumulati altrove.
Come documenta Max Blumenthal in The Management of Savagery (2019), il concetto di “scontro di civiltà” non è entrato nel pensiero strategico israeliano attraverso i teorici accademici. Piuttosto, è stato attraverso la dottrina politica articolata da Benjamin Netanyahu già negli anni ’80, in risposta diretta alla Rivoluzione iraniana e alla rinascita dell'”Islam politico”. Molto prima che Samuel Huntington formalizzasse il concetto in modo più cauto e differenziato internamente, Netanyahu aveva già diffuso una visione del mondo rigida e manichea (più esplicitamente in Terrorism: How the West Can Win) in cui Israele si pone come avamposto avanzato di un Occidente assediato e bloccato in un confronto esistenziale permanente con l’Islam. All’interno di questa dottrina, la politica globale non è strutturata da interessi contingenti, disuguaglianze materiali o instabilità postcoloniale, ma piuttosto da un’irriducibile guerra di civiltà tra musulmani e non musulmani (così i cristiani possono essere trasformati in “giudeo-cristiani”) – una guerra che deve essere continuamente militarizzata per giustificare la posizione di sicurezza di Israele e l’eccezionalismo diplomatico.
Di conseguenza, le politiche di sicurezza di Israele presuppongono un ordine mondiale fondamentalmente instabile: la pace è aberrante, la coesistenza è illusoria e la violenza è inevitabile e politicamente produttiva. Da questa prospettiva, il linguaggio umanitario non è un impegno etico. È una risorsa tattica, attivata selettivamente per rafforzare la narrazione di civiltà. L’improvvisa e palesemente performativa preoccupazione per i cristiani neri, in particolare in Nigeria, non deve quindi essere letta come un risveglio morale, ma piuttosto come un’estensione di questa consolidata architettura ideologica.
I cristiani africani acquistano valore solo nella misura in cui possono essere inseriti nello schema dell’era Netanyahu di “vittime giudeo-cristiane e aggressori musulmani”, la loro sofferenza astratta dalle storie locali e riproposta come prova di una guerra globale che si presume già esistente. Ciò che appare come compassione è in realtà un pregiudizio di conferma: una visione del mondo precostituita alla ricerca di nuovi teatri, nuovi interlocutori e nuove vittime (non ebree) attraverso cui rimettere in scena all’infinito lo stesso dramma di civiltà.
I nostri pensieri e le nostre preghiere sono rivolti ai musulmani della Nigeria, eredi di una delle tradizioni islamiche più durature e intellettualmente ricche dell’Africa subsahariana. Eppure, sono sempre più vittime di conflitti geopolitici ben oltre la loro stessa origine. L’Islam nigeriano non è un fenomeno recente o periferico. È radicato in secoli di studi, riforme e pensiero politico, dal Califfato di Sokoto fondato da Usman dan Fodio, un imponente studioso-riformatore i cui scritti sintetizzavano giurisprudenza, etica e governo, alle vivaci reti di educazione coranica e di ragionamento giuridico che fiorirono in Hausaland e oltre. Figure come Abdullahi dan Fodio e Muhammad Bello esemplificarono una tradizione in cui l’apprendimento islamico era inseparabile dalla responsabilità sociale, dalla riforma morale e dalla resistenza alla tirannia.
Questa eredità di militanza islamica (intellettuale piuttosto che nichilista) è in netto contrasto con le caricature oggi imposte ai musulmani nigeriani. Oggi, comunità plasmate da secoli di giurisprudenza, pedagogia e un approccio al pluralismo religioso basato sulla Shari’ah si trovano intrappolate tra la violenza degli insorti wahabiti- takfiri, la militarizzazione dello Stato e narrazioni esterne che ne sgretolano la storia e la rimodellano ingannevolmente a immagine dell’aggressore fanatico.
Mentre gli attori globali proiettano fantasie di civiltà sulla Nigeria, i civili musulmani vengono sempre più ridotti a figure sacrificabili in un copione scritto altrove, contemporaneamente vittime sul campo e cancellati dal discorso. Stare al fianco dei musulmani nigeriani, quindi, non è un mero atto di solidarietà religiosa. È un rifiuto di principio di permettere che una profonda civiltà islamica venga sacrificata al teatro geopolitico di un conflitto senza fine.
Fonte: https://muslimskeptic.com/2025/12/31/israel-nigeria-african-clash-civilizations/
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