Per i tipi Rusconi usciva nel 1975 per la prima volta in Italia, ristampato poi successivamente nel 1994 da Hoepli, il saggio “Il Sufismo” di S.H. Nasr. Per il pubblico italiano interessato alle tematiche legate alla spiritualità e all’esoterismo islamico quest’opera ha costituito e continua a costituire un importante e basilare punto di riferimento. Purtroppo, per ragioni a noi sconosciute, tanto nella prima quanto nella seconda edizione italiana, rispetto all’edizione originale l’opera compariva priva di un capitolo: quello che affrontava il rapporto, tanto sul piano dottrinale quanto storico, tra il Sufismo e la Shi’a. Quella che segue è la traduzione integrale, a quanto ci risulta la prima in lingua italiana, del capitolo in questione. Nonostante nel saggio siano presenti diversi errori tanto di carattere storico quanto dottrinale, per la sua validità e interesse generale abbiamo ritenuto utile tradurlo e pubblicarlo, aggiungendo alcune note soltanto laddove ritenuto strettamente necessario.
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SHI’A E SUFISMO:
la loro relazione nell’essenza e nella storia
Seyyed Hosseyn Nasr
Una delle questioni più difficili per quanto concerne la manifestazione del Sufismo nella storia islamica è la sua relazione con la Shi’a. Nel discutere questa intrigata e per certi versi complessa relazione, in principio e nell’essenza o alla luce della sua realtà metastorica, così come nel tempo e nella storia, non dobbiamo preoccuparci della critica troppo spesso ripetuta da certi orientalisti che mettono in dubbio il carattere islamico e coranico tanto della Shi’a quanto del Sufismo. Basandosi sulla supposizione a priori secondo cui l’Islam non è una rivelazione e, anche se annoverata tra le religioni, si tratterebbe soltanto di un’elementare “religione della spada” destinata ad un popolo semplice del deserto, questi pretesi critici rifiutano come non-islamico tutto quanto parla di gnosi (‘irfan) ed esoterismo, portando come prova della loro tesi la mancanza di testi storici nel periodo iniziale, come se il non-esistente in se stesso possa negare l’esistenza di qualcosa che può essere esistita senza lasciare indizi scritti che noi possiamo dissezionare e analizzare oggi.
La realtà della Shi’a e del Sufismo come aspetti integranti della rivelazione islamica è di una chiarezza troppo abbagliante per ignorarla o giustificarla sulla base di un tendenzioso argomento storico. Il frutto è lì a dimostrare che l’albero ha le sue radici in un suolo che lo nutre; e il frutto spirituale può darlo soltanto un albero le cui radici affondano in una verità rivelata.
Negare questo, che costituisce la più evidente di tutte le verità, equivarrebbe a dubitare della santità cristiana di san Francesco d’Assisi perché i registri storici dei primi anni della successione Apostolica non sono chiari. Ciò che prova la presenza di san Francesco è in realtà l’opposto, vale a dire che la successione Apostolica deve essere reale anche quando non esistano documenti storici a portata di mano. Lo stesso vale mutatis mutandis per la Shi’a e il Sufismo. In ogni caso, nel presente saggio daremo per scontato il carattere islamico della Shi’a e del Sufismo, e su questa base possiamo approfondire la loro relazione (1). Di fatto, Shi’a e Sufismo sono entrambi, in forma distinta e a livelli differenti, aspetti intrinseci dell’ortodossia islamica, intendendo questo termine non solo nel suo senso teologico, ma più in particolare nel suo senso universale, come tradizione e verità universale contenuta in una forma rivelata.
La relazione tra Shi’a e Sufismo è complicata dal fatto che studiando queste due realtà spirituali e religiose non parliamo in entrambi i casi dello stesso piano o dimensione dell’Islam. L’Islam possiede una dimensione exoterica (zahir) e un’altra esoterica (batin) che, insieme con tutte le sue divisioni interne, rappresentano la struttura ‘verticale’ della rivelazione. Ma l’Islam è diviso anche in Sunnismo e Shi’a che, si potrebbe dire, rappresentano la sua struttura ‘orizzontale’ (2). Se questo fosse l’unico aspetto di questa relazione, sarebbe relativamente semplice spiegarla. Ma, di fatto, la dimensione esoterica dell’Islam, che nel clima sunnita è quasi totalmente connessa in un modo o in un altro con il Sufismo, permea tutta la struttura della Shi’a tanto nel suo aspetto esoterico quanto anche in quello exoterico. Può dirsi che l’esoterismo, o gnosi, islamico si è cristallizzato nella forma del Sufismo nel mondo sunnita, mentre ha colmato l’intera struttura della Shi’a, specialmente durante il suo primo periodo (3). Dal punto di vista sunnita, il Sufismo presenta similitudini con la Shi’a e ne ha anche assimilato alcuni aspetti. Niente di meno che un’autorità come Ibn Khaldun scrive: “I sufi si impregnarono così delle teorie della Shi’a. Queste teorie (sciite) penetrarono tanto profondamente nelle loro idee religiose che essi basarono la propria pratica di usare il mantello (khirqah) sul fatto che ‘Ali rivestì ad al-Hasan al-Basri con questo indumento e fece sì che aderisse solennemente al sentiero mistico. (La tradizione così instaurata da ‘Ali) venne continuata, secondo i sufi, da al-Junayd, uno degli shaykh sufi” (4). Dal punto di vista sciita, la Shi’a è l’origine di quello che più tardi giunse ad essere conosciuto come Sufismo. Ma qui per Shi’a si intendono le istruzioni esoteriche del Profeta, gli asrar che molti autori sciiti hanno identificato con la “dissimulazione” sciita, taqiyah.
Ognuno di questi due punti di vista presenta un aspetto della stessa realtà, ma vista dall’interno di due mondi che sono contenuti nel seno dell’ortodossia totale dell’Islam. Questa realtà è l’esoterismo o gnosi islamici. Se consideriamo il Sufismo e la Shi’a nella loro manifestazione storica durante i periodi successivi allora né la Shi’a né il Sunnismo, né lo stesso Sufismo all’interno del mondo sunnita, derivano l’uno dall’altro. Tutti essi ricevono la loro autorità dal Profeta e dalla fonte della rivelazione islamica. Ma se per Shi’a si vuole intendere l’esoterismo islamico, allora è naturalmente inseparabile dal Sufismo. Per esempio, gli Imam sciiti giocano un ruolo fondamentale nel Sufismo, ma come rappresentanti dell’esoterismo islamico e non specificatamente come Imam sciiti, secondo l’organizzazione successiva della fede sciita. Di fatto, tra gli storici musulmani recenti e i ricercatori moderni c’è la tendenza a cercare nei due primi secoli le chiare distinzioni che si stabilirono solo più tardi (5). E’ vero che si possono discernere elementi ‘sciiti’ durante la vita del Profeta e che Shi’a e Sunnismo hanno le loro radici nella stessa origine della rivelazione islamica, stabilita in forma provvidenziale per essere compresa da differenti tipi psicologici ed etnici. Ma le rigide divisioni degli ultimi secoli non sono discernibili nel periodo più antico. C’erano elementi sunniti con definite tendenze sciite (6), e c’erano contatti sciiti con elementi sunniti tanto a livello intellettuale che sociale. Di fatto, in certi casi risulta difficile giudicare se un autore in particolare era sciita o sunnita, specialmente prima del quarto secolo (decimo gregoriano), sebbene anche in questo periodo la vita religiosa e spirituale sciita e sunnita possedeva ognuna il proprio profumo e colore.
In questo ambiente, meno cristallizzato e più fluido, gli elementi dell’esoterismo islamico che dal punto di vista sciita sono considerati specificatamente sciiti, sembrano rappresentare l’esoterismo islamico come tale nel mondo sunnita. Non si può trovare migliore esempio di questo della persona di ‘Ali ibn Abi Talib. La Shi’a è essenzialmente l’“Islam di ‘Ali”, che nella Shi’a è al tempo stesso l’autorità ‘spirituale’ e l’autorità ‘temporale’ dopo il Profeta. Anche nel Sunnismo quasi tutti gli ordini sufi risalgono ad ‘Ali, ed egli è l’autorità spirituale par excellence dopo il Profeta (7). Il famoso hadith “Io sono la città della conoscenza ed ‘Ali è la sua porta”, che è un riferimento diretto al ruolo di ‘Ali nell’esoterismo islamico, è accettato ugualmente da sciiti e sunniti, ma la “vicereggenza spirituale” (khilafah ruhaniyyah) di ‘Ali appare nel Sufismo all’interno del mondo sunnita non come qualcosa di specificatamente sciita, ma come qualcosa che è direttamente connesso con l’esoterismo islamico in sé.
Tuttavia il caso di ‘Ali, la venerazione che hanno per lui tanto gli sciiti quanto i sufi, mostra quanto siano intimamente relazionati tra loro la Shi’a e il Sufismo. Il Sufismo non possiede una Shari’ah particolare; è solo un sentiero spirituale (Tariqah) legato a un particolare rito sciariatico, come quello malikita o shafi’ita. La Shi’a possiede contemporaneamente una Shari’ah e una Tariqah. Nel suo aspetto puramente spirituale – o Tariqah – è in molti aspetti identico al Sufismo come esiste nel mondo sunnita, e certi ordini sufi come quello della Ni’matullahi sono esistiti sia nel mondo sciita che nel mondo sunnita. Ma la Shi’a possiede inoltre, anche nei suoi aspetti sciariatici e teologici, certi elementi esoterici che la assomigliano al Sufismo. Di fatto, potrebbe dirsi che la Shi’a, anche nel suo aspetto esteriore, è orientata verso le stazioni spirituali (maqamat irfani) del Profeta e degli Imam, che sono anche la meta della vita spirituale nel Sufismo.
Alcuni esempi tratti dalla vasta e intricata relazione tra Shi’a e Sufismo possono chiarire maggiormente alcune delle questioni che abbiamo esaminato fin’ora. Nell’Islam in generale, e nel Sufismo in particolare, un santo è denominato wali (abbreviazione di waliallah o Amico di Dio) e la santità è denominata wilayah. Nella Shi’a ogni funzione dell’Imam è associata al potere e alla funzione di ciò che in persiano si chiama walayat, termine che deriva dalla stessa radice di wilayah ed è intimamente associato ad essa (8). Alcuni hanno persino identificato i due aspetti. In ogni caso, secondo la Shi’a, oltre al potere della profezia nel senso di annunciare una legge divina (nubuwwah e risalah), il Profeta dell’Islam, al pari di altri grandi profeti che lo hanno preceduto, aveva il potere della guida spirituale e dell’iniziazione (walayah), che trasmise attraverso Fatima ad ‘Ali e, attraverso lui a tutti gli Imam. Dato che l’Imam è sempre vivo, anche questa funzione e potere sono sempre presenti e possono guidare gli uomini verso la vita spirituale. Il ‘ciclo dell’iniziazione’ (da’irat al–walayah) che segue il ‘ciclo della profezia’ (da’irat al–nubuwwah), continua per tanto fino ai nostri giorni e garantisce la presenza sempre viva di una via esoterica nell’Islam (9).
Lo stesso significato corrisponde alla wilayah, nel senso che anche essa attiene alla presenza spirituale sempre viva nell’Islam, che permette agli uomini di praticare la vita spirituale e raggiungere uno stato di santità. Questa è la ragione per la quale molti sufi, dall’epoca di Hakim al-Tirmidhi, hanno prestato particolare attenzione a questo aspetto cardinale del Sufismo (10). Senza dubbio vi è una differenza tra la Shi’a e il Sufismo sul come e attraverso chi questa funzione e questo potere operano, così come su chi sia considerato il suo ‘sigillo’ (11). Ma la similarità tra sciiti e sufi in ciò che attiene questa dottrina è sorprendente e risulta direttamente dal fatto che entrambi sono vincolati, nella forma precedentemente indicata, con l’esoterismo islamico come tale, che non è altro che la wilayah o walayah così come è utilizzata in senso tecnico tanto nelle fonti sciite quanto sufi.
Tra le pratiche dei sufi ve n’è una che nel suo significato simbolico è intimamente associata con la wilayah e, nella sua origine, con la walayah sciita. E’ la pratica di indossare un mantello e trasmetterlo da maestro a discepolo come simbolo della trasmissione di un insegnamento spirituale e della grazia particolare associata all’atto dell’iniziazione. Ogni stato dell’essere è come un mantello o un velo che ‘copre’ lo stato superiore, giacché simbolicamente il ‘superiore’ è associato all’’interiore’. Il mantello sufi simboleggia la trasmissione del potere spirituale che permette al discepolo o murid di penetrare al di là del suo stato di coscienza quotidiano. In virtù dell’aver ricevuto questo mantello o velo, nel suo senso simbolico, il discepolo può rimuovere il velo interiore che lo separa dal Divino.
La pratica di indossare e trasmettere il mantello e il significato di questo atto, sono strettamente relazionati con la Shi’a, come afferma Ibn Khaldun nel riferimento citato anteriormente. Secondo il famoso Hadith Kisa’ (la Tradizione del Mantello), il Profeta chiamò sua figlia Fatima insieme con ‘Ali, Hasan e Husayn e pose un mantello sopra di essi in modo da coprirli (12). Il mantello simboleggia la trasmissione della walayah universale del Profeta sotto la forma della walayah parziale (walayat fatimiyyah) a Fatima e, attraverso di essa, agli Imam. C’è un riferimento diretto al simbolismo esoterico del mantello in un ben noto hadith sciita che per il suo significato e bellezza qui di seguito riproduciamo integralmente:
“E’ stato riportato che il Profeta – la pace discenda su di lui e sulla sua famiglia – disse: ‘Quando fui condotto in cielo nell’Ascensione notturna ed entrai in Paradiso, vidi nel mezzo un palazzo fatto di rubini rossi. Gabriele mi aprì la porta ed entrai. Vi vidi una casa fatta di perle bianche. Entrai nella casa e vidi in mezzo ad essa una scatola fatta di luce e chiusa con una serratura di luce. Dissi: ‘O Gabriele, cos’è questa scatola e cosa vi è all’interno?’. Gabriele rispose: ‘O amato da Dio (Habiballah), in essa è il segreto di Dio (sirrallah) che Dio non rivela a nessuno eccetto a chi Egli ama’. Io dissi: ‘Apri questa porta per me’. Egli rispose: ‘Io sono un servo che segue il comando divino. Chiedilo al tuo Signore finché Egli conceda il permesso per aprirla’. Così chiesi il permesso a Dio. Dal Trono Divino giunse una voce dicendo: ‘O Gabriele, apri questa porta’, ed egli l’aprì. In essa vidi la povertà spirituale (faqr) e un mantello (muraqqa’) e dissi: ‘Cos’è questo faqr e questa muraqqa’?’ La voce del cielo disse: ‘O Muhammad, ci sono due cose che ho scelto per te e la tua comunità (ummah) dal momento in cui vi creai. Queste due cose non le concedo a nessuno eccetto a coloro che Io amo, e non ho creato nulla più caro di questo.’ Allora il Santo Profeta (S) disse: ‘Dio – elevato sia il Suo Nome – scelse il faqr e la muraqqa’ per me e queste due cose sono le più care per Lui’. Il Profeta rivolse la sua attenzione verso Dio e quando ritornò dall’Ascensione notturna (mi’raj) fece sì che ‘Ali indossasse il mantello con il permesso di Dio e su Suo ordine. ‘Ali lo indossò e vi cucì delle toppe finché disse: ‘Ho cucito così tante toppe su questo mantello da sentirmi imbarazzato davanti al sarto’. ‘Ali lo fece indossare dopo di lui a suo figlio Hasan, poi ad Husayn e poi ai discendenti di Husayn, uno dopo l’altro fino al Mahdi. Adesso il mantello è con lui’ (13).
Ibn Abî Jumhûr e i successivi commentatori sciiti di questo hadith aggiungono che il mantello indossato e trasmesso dai sufi non è lo stesso mantello citato nell’hadith. Comunque, quello che i sufi cercano di fare è emulare le condizioni per indossare il mantello come lo indossò il Profeta, e mediante questo atto realizzare fino al massimo della loro capacità i misteri divini (asrâr) che il mantello simboleggia.
L’intera questione della walayah e il mantello che la simboleggia chiarisce l’elemento comune più importante tra il Sufismo e la Shi’a, che è la presenza di una forma occulta di conoscenza e istruzione. L’uso del metodo del ta’wil o ermeneutica spirituale nella comprensione del Sacro Corano, così come del ‘testo cosmico’, e la credenza in diversi livelli di significato all’interno della rivelazione – ambedue aspetti comuni alla Shi’a e al Sufismo –, risultano dalla presenza di questa forma esoterica di conoscenza. La presenza della wilayah o walayat garantisce sia alla Shi’a che al Sufismo un carattere gnostico ed esoterico, espressioni naturali della dottrina e del modo caratteristico di istruzione presenti in entrambi.
Intimamente associato con la walâyah è il concetto di Imâm nella Shi’a, giacché l’Imâm è colui che possiede il potere e la funzione della walâyat. Il ruolo dell’Imâm nella Shi’a è centrale, ma qui non possiamo esaminare tutte le sue ramificazioni (14). Ma dal punto di vista spirituale è importante evidenziare la sua funzione come guida spirituale, funzione che assomiglia molto a quella del maestro sufi. Lo sciita cerca di incontrare il suo Imâm, che non è altro che la sua guida spirituale interiore, al punto che alcuni sufi sciiti parlano dell’Imâm dell’essere di ogni persona (Imâm wujûdika). Se si mettono da parte le funzioni sciariatiche e cosmiche dell’Imâm, la sua funzione ed il suo ruolo iniziatici come guida spirituale sono simili a quelli del maestro sufi.
Di fatto, allo stesso modo di come nel Sufismo ogni maestro è in contatto con il polo (Qutb) della sua epoca, nella Shi’a tutte le funzioni spirituali sono in ogni epoca connesse interiormente con l’Imâm. L’idea dell’Imâm come polo dell’universo e quella del Qutb nel Sufismo sono quasi identici, come afferma così chiaramente Sayyîd Haydar Âmuli quando dice: “Il Qutb e l’Imâm sono due espressioni che possiedono lo stesso significato e si riferiscono alla stessa persona” (15). La dottrina dell’uomo universale (al‑insân al‑kâmil) (16) esposta da Ibn ‘Arabî è molto simile alla dottrina sciita del Qutb e dell’Imâm, come lo è la dottrina del Mahdi sviluppata dai successivi maestri sufi. Tutte queste dottrine si riferiscono essenzialmente alla stessa realtà esoterica, la haqîqat al‑muhammadiyyah, presente tanto nella Shi’a quanto nel Sufismo. E in questo caso, in quello che fa riferimento alla formulazione di questa dottrina, possono esser esistite influenze sciite dirette sulle successive formulazioni sufi. (17)
Un’altra dottrina che condividono con forme in parte differenti sciiti e sufi è quella della ‘luce di Muhammad’ (al–nûr al–muhammadî) e della catena iniziatica (silsilah). La Shi’a crede che esiste una ‘Luce Primordiale’ trasmessa da un profeta a un altro e, dopo il Profeta dell’Islam, agli Imâm. Questa luce protegge i profeti e gli Imâm dal peccato, rendendoli infallibili (ma’sûm), e gli elargisce la conoscenza dei misteri divini. Per ottenere questa conoscenza l’uomo deve unirsi a questa luce mediante l’Imâm il quale, seguendo il Profeta, agisce come intermediario tra l’uomo e Dio nella ricerca della conoscenza divina. Allo stesso modo, nel Sufismo, per accedere agli unici metodi che rendono possibile la realizzazione spirituale, l’uomo deve unirsi ad una catena iniziatica o silsilah, che risale fino al Profeta e attraverso della quale fluisce una barakah dalla fonte della rivelazione all’essere dell’iniziato. Così, la catena si basa su una continuità della presenza spirituale che assomiglia molto alla ‘Luce di Muhammad’ della Shi’a. Infatti anche gli stessi sufi successivi parlano della ‘Luce di Muhammad’. Nei primi tempi, specialmente negli insegnamenti dell’Imâm Ja’far al-Sâdiq, la dottrina sciita della ‘Luce di Muhammad’ e la dottrina sufi della catena spirituale si incontrano e, come in altri casi, hanno la loro fonte negli stessi insegnamenti esoterici dell’Islam (18).
Infine, in questa comparazione tra le dottrine sciite e sufi, vorrei menzionare le stazioni spirituali e gnostiche (maqâmât‑i ‘irfânî). Se compiamo uno studio della vita del Profeta e degli Imâm come, ad esempio, quella che si trova nella raccolta di Majlisî nel “Bihâr al‑anwâr”, scopriremo che questi racconti si basano più di ogni altra cosa negli stati spirituali interiori di questi personaggi. La meta della vita religiosa nella Shi’a consiste infatti nell’emulare la vita del Profeta e degli Imâm e nel raggiungere i loro stati interiori. Sebbene per la maggioranza degli sciiti questo rimanga solo come possibilità latente, l’élite (khawâss) ne ha sempre avuta piena coscienza. Le stazioni spirituali del Profeta e degli Imâm, conducenti all’unione con Dio, possono essere considerate come la meta finale verso la quale la pietas sciita si sforza e sulla quale si basa tutta la struttura spirituale della Shi’a.
Ora, anche nel Sufismo, la meta, che è giungere a Dio, non può conseguirsi se non attraverso gli stati e stazioni (hâl e maqâm) che occupano tale importante posizione nei trattati classici del Sufismo. Anche la vita sufi è basata nel raggiungimento di questi stati, sebbene il sufi non cerchi questi stati spirituali in sé stessi, ma cerca Dio nella Sua elevata Essenza. Ovviamente nel Sufismo ognuno è cosciente degli stati e delle stazioni, mentre nella Shi’a solo l’élite ne ha consapevolezza, ma questo è piuttosto naturale visto che il Sufismo come tale è il sentiero per l’élite spirituale, mentre la Shi’a abbraccia la comunità intera, possedendo la propria divisione exoterica ed esoterica e possedendo anche la propria élite, così come i suoi credenti comuni (‘awâmm). Ma nel significato speciale dato alle stazioni spirituali nella narrazione sciita della vita del Profeta e degli Imâm c’è una sorprendente similitudine con quello che si trova nel Sufismo. Una volta ancora entrambi si riferiscono alla stessa realtà, all’esoterismo islamico, con il cui aspetto pratico e realizzato si collegano le stazioni spirituali.
Dopo aver considerato questi brevi esempi della relazione dei principi tra Shi’a e Sufismo, dobbiamo adesso studiare in forma concisa come si è manifestata la loro reciproca relazione nella storia islamica (19). Nella vita degli Imâm, dal primo fino all’ottavo, il contatto tra i due era molto intimo. Gli scritti degli Imâm contengono un tesoro di gnosi islamica. Il “Nahj al‑balâghah” di ‘Alî (20), una delle opere più trascurate dell’Islam negli studi moderni degli islamogi occidentali, la bellissima Sahîfah sajjâdiyyah del quarto Imâm, Zayn al‑‘Abidin, chiamata i ‘Salmi della famiglia del Profeta’ (21), e l’Usûl al‑Kâfî di Kulaynî, che contiene i detti degli Imâm, comprendono un’esposizione completa della gnosi islamica e di fatto sono serviti come base per molti commentari gnostici e sufi posteriori. Sebbene il loro vocabolario tecnico non è lo stesso di quello delle opere dei primi sufi, come è stato dimostrato da Massignon (22), le dottrine e descrizioni spirituali contenute in essi sono essenzialmente le stesse che si trovano nei trattati sufi classici.
Durante questo periodo della vita degli Imâm vi era un contatto intimo tra gli Imâm e alcuni dei più grandi sufi dei primi tempi. Hasan al‑Basrî e Uways al‑Qaranî furono discepoli di ‘Alî; Ibrâhîm al‑Adham, Bishr al‑Hâfî e Bâyazîd al‑Bastâmî erano associati al circolo dell’Imâm Ja’far al‑Sâdiq; e Ma’rûf al‑Karkhî fu un intimo compagno dell’Imâm Ridâ. Inoltre, i primi sufi, prima di esser chiamati con questo nome, erano conosciuti come asceti (zuhhâd) e molti di loro avevano rapporti con gli Imâm e seguivano il loro esempio nella vita ascetica. A Kufa, uomini come Kumayl, Maytham al‑Tammâr, Rashîd al‑Hajarî, tutti annoverati tra i sufi e asceti della prima epoca, appartengono all’ambiente degli Imâm. I “Compagni della panca” (ashâb al‑suffah) ad essi anteriori, come Salmân, Abû Dharr e ‘Ammâr al‑Yâsir, sono inoltre poli del Sufismo della prima epoca e i primi membri della comunità sciita (23).
Gli Imâm sciiti cessarono di associarsi apertamente con i sufi solo dopo l’ottavo Imâm, ‘Alî al‑Ridâ. Non è che parlino contro il Sufismo, come hanno sostenuto alcuni sciiti exoteristi critici del Sufismo. Piuttosto, a causa delle speciali condizioni prevalenti a quel tempo, rimasero silenziosi su queste questioni. (24) L’Imâm Ridâ appare quindi come l’ultimo vincolo esplicito ed aperto tra il Sufismo e gli Imâm sciiti. Di fatto, fino ad oggi, egli è considerato come l’‘Imâm dell’iniziazione’ e molti persiani che cercano un maestro spirituale e l’iniziazione al Sufismo, si recano presso la sua tomba a Mashhad ad implorare il suo aiuto per trovare un maestro. Per questa ragione, anche il suo ruolo negli ordini sufi sciiti è stato molto importante fino al presente.
Dopo gli Imâm, tanto la Shi’a quanto il Sufismo assunsero caratteristiche proprie e in una certa misura si separarono l’uno dall’altro. Durante questo periodo, in contrasto con quello che accadeva nella vita degli Imâm (25), la Shi’a iniziò ad avere un ruolo politico più attivo, mentre la maggioranza dei sufi, almeno nei secoli terzo/nono e quarto/decimo, si tennero in disparte dalla partecipazione nella vita politica e da tutto quanto possedesse un aspetto mondano. Comunque, alcuni sufi come al‑Hallâj, erano chiaramente sciiti o di tendenza sciita, e vi furono certe relazioni tra Sufismo e Shi’a, particolarmente con l’Ismailismo, come vediamo nei chiari riferimenti al Sufismo delle “Epistole” dei Fratelli della Purità, che sebbene non siano sicuramente ismaelite di origine, provengono certamente da un ambiente sciita e più tardi si associano strettamente con l’Ismaelismo (26). Anche la Shi’a duodecimana mostrò alcuni legami con il Sufismo. Ibn Bâbûyah, il famoso teologo sciita, descrive il circolo sufi (halqah) nel quale si realizza l’invocazione (dhikr) e Sayyid Sharif Murtadâ definisce i sufi ‘veri sciiti’ (27). Anche le corporazioni e i diversi ordini di cavalleria (futuwwât) rivelano un legame tra Shi’a e Sufismo dato che da un lato si sviluppano in un clima sciita con una particolare devozione per ‘Alî e dall’altro molti di essi vengono ascritti a ordini sufi e divennero loro prolungamenti sotto forma di “iniziazioni artigianali”.
Dopo l’invasione mongola, la Shi’a e il Sufismo si associarono di nuovo in molti aspetti. Alcuni degli ismaeliti, il cui potere era stato distrutto dai Mongoli, passarono alla clandestinità e apparvero più tardi in seno agli ordini sufi o come nuovi rami degli ordini già esistenti. Per quanto attiene la Shi’a duodecimana, dal settimo secolo/tredicesimo fino al decimo/diciassettesimo, il Sufismo iniziò a svilupparsi anche all’interno dei circoli sciiti ufficiali.
Fu durante questo periodo che per la prima volta ad alcuni giurisperiti e ‘ulamâ’ sciiti vennero dati titoli come sufi, ‘ârif o muta’allih, e alcuni di loro dedicarono molte pagine dei loro scritti alle dottrine sufi. Nel settimo secolo (tredicesimo), Kamâl‑al Dîn Maytham al‑Bahrânî scrisse un commentario al Nahj al‑balâghah, nel quale rivelava il suo significato gnostico e mistico. Radî al‑Dîn ‘Alî ibn al-Tâ’ûs, membro di questa famosa famiglia di sapienti sciiti ed egli stesso un eminente ‘âlim sciita, scrisse orazioni con connotazioni sufi. ‘Allâmah al‑Hillî, lo studente di Nasîr al-Dîn al‑Tûsî e persona che giocò un ruolo molto importante nell’espansione della Shi’a in Persia, possiede molte opere di carattere gnostico. Poco dopo al‑Hillî, uno dei teologici più significativi di questo periodo, anche Sayyid Haydar Âmulî fu sufi e seguace della scuola di Ibn ‘Arabî. Il suo Jâmi ‘al‑asrâr è un’elevata opera della Shi’a gnostica, nella quale più che in qualsiasi altra opera, viene trattata la relazione metafisica tra Shi’a e Sufismo (28). Âmulî è colui che credeva che ogni vero sciita è un sufi e ogni vero sufi è uno sciita.
La tendenza all’avvicinamento tra il Sufismo ed i circoli ufficiali del sapere sciita si può vedere nel nono/quindicesimo secolo in figure come Hâfiz Rajab al-Bursî, autore del trattato gnostico Mashâriq al‑anwâr, Ibn Abî Jumhûr, il cui Kitâbal‑mukhlî è anche una pietra miliare di questa nuova struttura della letteratura gnostica sciita, e Kamâl al‑Dîn Husayn ibn ‘Alî, chiamato ‘Wâ‘iz‑i Kâshifî’. Quest’ultimo, sebbene sunnita, fu un sufi naqshbandi e autore di opere devozionali sciite che divennero estremamente popolari, specialmente “Rawdat al‑shuhadâ’”, che ha dato il suo nome alla pratica tipicamente sciita della “rawdah”, nella quale si celebra il martirio di Husayn e di altri membri della Famiglia del Profeta (ahl al‑bayt). Tutte queste figure contribuirono a preparare il retroterra intellettuale del rinascimento Safavide che si basò tanto nella Shi’a quanto nel Sufismo.
Di speciale interesse durante questo stesso periodo è la diffusione degli scritti di Ibn ‘Arabî in Persia e specialmente nei circoli sciiti (29). E’ ben noto che Ibn ‘Arabî, dal punto di vista della sua madhhab (scuola giuridica) era un sunnita della scuola zâhirí (30). Ma si sa anche che egli scrisse un trattato sui dodici Imâm sciiti che è sempre stato popolare tra gli sciiti (31). C’era una complementarietà interiore e un’attrazione tra gli scritti di Ibn ‘Arabi e la Shi’a che resero immediata e completa l’integrazione dei suoi insegnamenti nella gnosi sciita. Sufi sciiti come Sa’d al‑Dîn Hamûyah, ‘Abd al‑Razzâq Kâshânî, Ibn Turkah, Sayyid Haydar Âmulî, Ibn Abî Jumhûr così come molti altri gnostici sciiti di questo periodo, sono completamente imbevuti degli insegnamenti di Ibn ‘Arabî, per non parlare dei filosofi e teosofi sciiti, il culmine dei quali si trova nella scuola di Mullâ Sadrâ.
Dal settimo/tredicesimo secolo fino al decimo/diciassettesimo ci furono inoltre movimenti religiosi e sufi che erano legati sia al Sufismo che alla Shi’a. Le sette estremiste degli Hurûfî e degli Sha’sha‘ah sorsero da un retroterra sciita e sufi (32). Più importanti di questi movimenti furono gli ordini sufi che si estesero in Persia in questa epoca e aiutarono a preparare il terreno per il movimento sciita dei Safavidi. Due di questi ordini sono di particolare importanza nella questione della relazione tra Shi’a e Sufismo: l’ordine Ni’matullâhi e l’ordine Nûrbakhshî. Shâh Ni’matullâh era originario di Aleppo, discendente del Profeta, e probabilmente sunnita nel suo madhhab’ (33). Ma l’ordine, che è strettamente imparentato con quello Shâdhiliyyali nella sua silsilah anteriore a Shâh Ni’matullâh, diventò un ordine sufi specificatamente sciita, e fino ad oggi continua ad essere l’ordine sufi più esteso nel mondo sciita. Durante l’epoca Safavide ebbe un’eclisse, ma sperimentò un rinnovamento importante nella prima epoca Qajar. Lo studio delle dottrine e dei metodi di questo ordine, che possiede una regolarità di catena o silsilah e un metodo molto simile a quelli degli ordini sufi nel mondo sunnita, è un esempio particolarmente rivelatore di un ordine del Sufismo ancora vivo che è interamente sciita e opera in un clima sciita.
L’ordine Nûrbakhshî, fondato da Muhammad Ibn ‘Abdallâh, chiamato Nûrbakhsh, un persiano di Quhistan, è particolarmente interessante perché il fondatore cercò di creare una specie di ponte tra il Sunnismo e la Shi’a nella sua stessa persona e diede un colore mahdista al suo movimento (34). La diffusione del suo ordine e il potere della sua stessa personalità contribuirono a creare in molte persone una particolare riverenza per ‘Ali e per gli ‘Alidi. La sua dichiarazione pubblica fu che il suo movimento combinava Sufismo e Shi’a (35). E la diffusione delle sue idee fu uno dei fattori che produsse questa combinazione di Shi’a e movimenti sufi che risultò nel dominio Safavide dell’Iran (36).
Anche nell’impero Ottomano è possibile osservare la stretta associazione tra Shi’a e Sufismo nell’ordine Baktâshî, fondato da Hâjj Baktâsh, originario del Khurasán, che dopo esser fuggito dai Tartari trovò numerosi discepoli tra i persiani e i turchi di Anatolia e istituì l’ordine che esercitò così grande influenza durante il periodo Ottomano (37). Nonostante lo stabilirsi di una Persia sciita attraverso i Safavidi, gli sciiti furono severamente perseguitati nell’Impero Ottomano, e l’ordine Baktâshî continuò a mostrare forti tendenze sciite ed ebbe, e di fatto continua ad avere, un’atmosfera spirituale molto simile a quella che si trova in certi ordini sufi del mondo sciita.
Il sorgere dei Safavidi a partire dal nucleo dell’ordine sufi del Shaykh Safí al‑Dîn Ardibîlî è ben conosciuto perché ci si debba qui fare nuovamente riferimento (38). Basterà dire che questo movimento politico che fondò il nuovo Stato persiano era sufi nella sua origine e sciita nelle sue credenze. Come risultato di ciò, fece della Shi’a la religione ufficiale della Persia, aiutando contemporaneamente lo sviluppo e la propagazione delle idee sufi, almeno nel primo periodo del suo dominio. Per tanto non è sorprendente vedere in questo periodo un rinascimento della conoscenza sciita nella quale la gnosi sciita svolse un ruolo molto importante. I nomi di Mîr Dâmâd, Mîr Findiriskî, Sadr al‑Dîn Shîrâzî, Mullá Muhsin Fayd, ‘Abd al‑Razzâq Lâhîjî, Qâdî Sa’îd Qumî, Mullâ Na’îma Tâliqânî e tanti altri gnostici di questo periodo appartengono forse più al capitolo della teosofia e della filosofia safavide che al Sufismo (39) ma, dato che tutti questi uomini erano sciiti e al tempo stesso erano completamente impregnati delle idee gnostiche e sufi, rappresentano un’altra sfaccettatura della relazione tra Shi’a e Sufismo. Ci furono anche eminenti ‘ulamá’ sciiti di questo periodo che erano sufi praticanti, come Bahâ’ al‑Dîn ‘Âmilî e Muhammad Taqî Majlisî, così come maestri di ordini sufi regolari come i Dhahabî, Ni’matullâhi e Safavi (40).
Ma stranamente, durante il regno della stessa dinastia la cui origine era sufi, si produsse una severa reazione contro gli ordini sufi, in parte perché al Sufismo si erano uniti molti elementi estranei con fini mondani e anche perché alcuni ordini divennero lascivi nella loro pratica della Sharî’ah. Alcuni sapienti religiosi scrissero trattati contro i sufi, come al‑Fawâ’id al‑dîniyyah fi’l‑radd ‘al’l‑hukamâ’ wa’l‑sûfîyyah di Mullâ Muhammad Tâhir Qumî. Anche l’eminente teologo e sapiente Mullâ Muhammad Bâqir Majlisî, che non era completamente contrario al Sufismo come testimonia il suo Zâd al‑ma’âd, fu obbligato in queste circostanze a negare il Sufismo del suo stesso padre e ad opporsi apertamente ai sufi. In un clima così, il Sufismo incontrò molto difficoltà durante l’ultimo periodo dell’era Safavide, e in questo periodo anche i teosofi (hukamâ) della scuola di Mullâ Sadrâ affrontarono una severa opposizione da parte di alcuni ‘ulamâ’. Come risultato di questa situazione, a partire da allora, nei circoli religiosi il Sufismo cambiò il suo nome in ‘irfân e fino ad oggi, nei circoli religiosi e nelle madrasah sciite ufficiali si può studiare, insegnare e discutere apertamente l’‘irfân, ma mai il tasawwuf, il quale troppo spesso è associato con i dervisci lascivi che abbandonano i precetti della Sharî’ah, che in persiano sono usualmente chiamati “qalandar ma’âb”.
Durante la successiva invasione afgana e il ristabilimento di un forte governo da parte di Nâdir Shâh non si parlò molto di Sufismo nei circoli sciiti di Persia, mentre il Sufismo prosperava tra gli sciiti dell’India. E da Deccan, nel dodicesimo/diciottesimo secolo, Ma’sûm ‘Alî Shâh e Shâh Tâhir dell’ordine Ni’matullâhî, furono inviati in Persia per rivivificare il Sufismo. Anche se alcuni dei loro discepoli come Núr ‘Alî Shâh e Muzaffar ‘Alî Shâh furono martirizzati (41), il Sufismo iniziò a fiorire nuovamente, specialmente durante il regno del re Qajar Fath ‘Alî Shâh, visto che Muhammad Shâh ed il suo primo ministro Hâjj Mîrzâ Âqâsi erano loro stessi attratti dal Sufismo. A partire da allora, i distinti ordini sufi, specialmente le diverse ramificazioni dell’ordine Ni’matullâhî, così come la Dhahabi e Khâksâr, fiorirono nella Persia sciita e continuano fino ad oggi. Anche durante il periodo Qajar, le dottrine gnostiche di Ibn ‘Arabî e Sadr al‑Din Shirâzi vennero ravvivate da persone come Hâjjî Mullâ Hâdi Sabziwârî e Âqâ Muhammad Ridâ Qumsha’î (42). Essi ravvivarono una scuola che continua a prosperare ancora oggi. (43)
Attualmente nella Persia sciita si possono distinguere tre gruppi di gnostici e mistici: quelli che appartengono a ordini sufi regolari come la Ni’matullâhî e la Dhahabi e che seguono un cammino molto simile a quello dei sufi nel mondo sunnita; quelli che hanno avuto un particolare maestro spirituale e hanno ricevuto un’iniziazione regolare, ma il cui maestro e quelli che lo precedettero non costituiscono un ordine sufi organizzato e ‘istituzionalizzato’, con una silsilah apertamente dichiarata e un centro stabilito o khâniqâh; e in ultimo quelli che hanno indubbiamente ricevuto un’ispirazione gnostica e mistica, hanno visioni autentiche (mushâhadah) e possiedono stati spirituali (ahwâl) ma non possiedono un maestro umano. Di questo ultimo gruppo, alcuni sono Uwaysî, altri appartengono alla linea di Khadir – o Khidr in persiano – (44), e la maggioranza raggiunge il contatto spirituale con l’ Imâm, che è anche la guida spirituale interiore. Il dilagare dell’esoterismo nella Shi’a anche negli aspetti più esteriori della religione ha reso questo terzo tipo di possibilità più comune qui che nell’Islam sunnita. Di fatto, alcuni dei grandi teosofi e gnostici che hanno raggiunto chiaramente lo stato di visione spirituale come attestato dalle loro opere, appartengono a quest’ultima categoria e forse anche alla seconda perché, in questo caso, è molto difficile discernere il lignaggio spirituale esteriormente.
Shi’a e Sufismo, quindi, possiedono un’origine comune nel senso che entrambi sono legati alla dimensione esoterica della rivelazione islamica e nei primi tempi della loro storia presero ispirazione dalle stesse fonti. Nei periodi successivi hanno avuto molte mutue interazioni e si sono influenzati reciprocamente in innumerevoli forme. Ma queste manifestazioni storiche non sono state altro che applicazioni, nei differenti frangenti di tempo, di una relazione essenziale e principiale che appartiene alla realtà eterna ed integrale dell’Islam stesso e che, con la forma della gnosi che caratterizza l’esoterismo islamico, si è manifestata nei due segmenti della comunità islamica, quello sunnita e quello sciita.
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Note
(1) Abbiamo trattato dell’origine islamica dello Shi’a e del Sufismo in S.H.Nasr ”Three Muslim Sages”, Cambridge (USA), 1964, p. 83‑90; e “Ideali e realtà dell’Islam”, capitolo V; cfr. anche H. Corbin (con la collaborazione di S.H. Nasr e O. Yahya) “Storia della filosofia islamica”, Adelphi, Milano, 1991. Sull’origine islamica del Sufismo, cfr. Abû Bakr Sirâj ed‑Din, “The Origins of Sufísm”, «Islamic Quarterly», aprile 1956, vol. 111, p. 53‑64; F. Schuon, “Comprendere l’Islam”, SE, Milano, 1998, cap. IV; e R. Guenon, «Esoterismo islamico”, in “L’Islam et l’Occident”, Parigi 1947, p. 153‑9. Oltre a Corbin, anche alcuni dei primi eruditi occidentali hanno sottolineato la stretta connessione tra Shi’a e Sufismo. Cfr. T. Andrae, “Die Person Muhammads im Leben und Glauben seiner Gemeinde”, Stoccolma 1918, dove comunque, e al contrario che in Corbin, tutto quanto possiede un carattere esoterico nell’Islam è riferito a fonti elleniche e cristiane.
(2) Su queste relazioni, cfr. S.H. Nasr, “Ideali e realtà dell’Islam”, capitolo VI.
(3) «Ort ne peut plus, en tout rigeur, faire de soufisme et de mystique musulmane, deux termes interchangeables depuis que l’on sait, en particulier gráce aux travaux de H. Corbin, qu’il existe une mystique musulmane —la gnose ismaélienne et Imâmite notamment— qui ne se reconnáit pas “soufisque”. Toutefois, ce qui est dit ici du tasawwuf a ses debuts vaut également pour cette mystique, ou gnose non soufique. La quelle a aussi sa source dans les enseignements du Prophéte et de certains compagnons, dont surtout ‘Ali» J.L. Michon, “Le soufí marocain Ahmed ibn Ajiba et son mi’râj” (Tesi di dottorato, Facoltà di Letues, Università di Parigi, 1960, p. 2, n. l.)
(4) Ibn Khaldûn, Muqaddimah, trad. di F. Rosenthal, vol. II, New York 1958, p. 187. Ibn Khaldûn prosegue: «Il fatto che (i sufi) limitino (la priorità nel misticismo) ad ‘Ali odora fortemente di un sentimento pro-sciita. Questa e altre idee sufi anteriormente citate mostrano che i sufi hanno adottato sentimenti pro-sciiti e sono rimasti intrappolati in essi.» Ibid. p. 187. Su questa questione cfr. anche l’estesa e ben documentata opera di Kâmil al‑Shibi, “al‑Silah bayn al‑tasawwuff al‑tashayyu’”, 2 vol., Baghdad, 1963‑64.
(5) Questa pratica anacronistica è criticata da John B. Taylor nel suo “Jafar al‑Sâdiq, Spiritual Forebear of the Sufís”, «Islamic Culture», vol. XL, nº 2, aprile 1966, p. 97 ss.
(6) «Questo sentimento sunnita possiede molteplici sfaccettature —negli hadîth, negli ordini sufi, negli ordini artigianali e nei racconti popolari— che non solo nel suo appoggio alle rivendicazioni originali di ‘Ali, ma in tutta la sua pietà, l’Islam sunnita può esser chiamato metà sciita.» M.G.S. Hodgson, “How did the early Shi’a become Sectarian?” «Journal of the American Oriental Society» vol. 75, 1955, p. 4. Cfr. anche J.B. Taylor, “An Approach to the Emergence of Heterodoxy in Medieval Islam”, «Religious Studies», vol. 2, aprile 1967, p. 202, dove vengono riportate anche le parole di Hodgson. In certe aree del mondo islamico, particolarmente nel subcontinente indo-pakistano, si trovano tra i sufi certi gruppi così devoti agli Imâm sciiti, specialmente ad ‘Alî e Husayn, come potrebbe esserlo qualsiasi sciita, pur essendo completamente sunniti nella loro pratica della legge (madhhab).
(7) Cr. F. Schuon, “De la tradition monothéiste”, «Études Traditionnelles», 1933, p. 257.
(8) Cfr. H. Corbin, “L’Imâm caché el la rénovation de l’homme en théologie shi’ite”, «Eranos‑Jahrbuch», 1960, p. 87 [in italiano « L’Imam nascosto », 2008, SE, Milano].
(9) Sui ‘cicli di iniziazione e profezia’, cfr. S.H. Nasr, “Ideali e realtà dell’Islam”, pag. 87 e 161; e H. Corbin, op. cit.
(10) Hâkim al‑Tirmidhi dedicó a questa questione un’importante opera intitolata “Khatm al‑awliyâ’” che è stata pubblicata recentemente da O. Yahya e che ebbe una grande influenza su Ibn ‘Arabî e i sufi successivi.
(11) Ibn ‘Arabi e dopo di lui Dá’ûd al‑Qaysarî considerano Cristo come ‘il sigillo della santità’ universale, e Ibn ‘Arabî si riferisce indirettamente a sè stesso come ‘il sigillo particolare della santità’ mentre la maggioranza degli autori sciiti credono che questi titoli appartengano rispettivamente ad ‘Alî e al Mahdî. In questa delicata questione, la distinzione tra il ‘sigillo della santità universale’ e il ‘sigillo della santità particolare o muhammadiana’ deve essere tenuta particolarmente in conto. In ogni caso, questo è un punto di controversia tra Ibn ‘Arabî e anche alcuni dei suoi più ardenti seguaci sciiti come Sayyid Haydar Âmulî.
(12). Questo hadith appare sotto molte forme distinte nelle fonti sciite come il “Ghâyat al‑marâm”, Teheran 1272, p. 287.
(13) Ibn Abî Jumhûr, “Kitâb al‑mujli”, Teheran, 1329, p. 379. Questo hadith è stato menzionato con leggere variazioni da molti gnostici sciiti e sufi. Cfr. ad esempio Muhammad ‘Alî Sabziwârî, “Tuhfat al-‘abbâsiyyah”, Shiraz, 1326, p. 93‑4. Molti altri autori sciiti come Ibn Abî’l Hadîd, Maytham al‑Babrâni e Sayyid Haydar Âmulî hanno fatto riferimento a questo hadith. Cfr. al‑Shibi, “al‑Silah bayn al‑tasawwuf wa’ l‑tashayyu”, vol. II, p. 117.
(14) Sul ruolo dell’Imâm nella spiritualità sciita vedere le numerose opere di H. Corbin in “Eranos Jahrbuch”, specialmente: “L’Imâm caché el la rénovation de l’homme en théologie shi’ite” [“L’Imam nascosto”] e “Pour une morphologie de la spiritualité Shi’íte”, «Eranos Jahrbuch», vol. XX, IX 1961.
(15) Sayyid Haydar Amuli, “Jâmi ‘al asrâr”, p. 223, citato anche da Kámil al-Shibi, “al‑Fikr al‑shi’i wa’1‑naza’óí al‑sofiyyah”, Baghdad 1966, p. 123.
(16) Sulla dottrina sufi dell’uomo universale, cfr. la traduzione di al-Jili “al‑Insân al‑kâmil” da parte di T. Burckhardt, intitolata “L’uomo universale”, Ed. Mediterranee; anche R. Guénon, “Il simbolismo della croce”, Edizioni Studi Tradizionali.
(17) Al‑Shibi, nel suo “al‑Silah…” vol. II, p. 52‑3, scrive che Ibn ‘Arabî fece uso di fonti sciite per formulare le sue dottrina della “haqîqat al‑muhammadiyyah”, “wahdat al‑mujûd” e “al-Mahdi”.
(18) Riguardo l’insegnamento dell’Imâm Ja’far su questo tema, in quanto appartenente tanto alla Shi’a quanto al Sufismo, cfr. Taylor, «Ja’far al Sadiq, Spiritual Forebear of the Sufís», p. 101‑2.
(19) Questa è una questione molto complessa che qui necessariamente possiamo trattare solo in forma molto sintetica. Esiste uno studio abbastanza esteso in proposito nelle due opere di al‑Shibi, “al‑Silah…” e “al-Fikr al‑shi’i wa’l‑naza’at al‑sufiyyah”, ma anche queste due opere si occupano principalmente delle regioni centrali dell’Islam e lasciano da un lato il Maghrib, gran parte dell’Asia Centrale e specialmente l’India, dove la relazione tra Shi’a e Sufismo ha dato risultati che non si trovano in nessun’altra parte e che dovrebbero essere studiati con attenzione.
(20) Con il pretesto che il “Nahj al‑balâghah” non sia di ‘Alî ma provenga dalla penna del suo compilatore, Sayyid Sharîf Radî, molti orientalisti occidentali lo hanno semplicemente rifiutato come inautentico. In primo luogo, molti dei detti raccolti nel “Nahj al‑balâghah” esistono in testi anteriori a Radî; in secondo luogo, il suo stile è totalmente differente rispetto ai molti libri frutto della pena di Radî che sono sopravvissuti e, in ultimo, la sua qualità intrinseca è garanzia sufficiente della sua ispirazione celestiale. Oggi esistono troppe opere di carattere puramente spirituale che vengono messe di lato semplicemente affibbiandogli la parola ‘pseudo’ o dubitando della loro autorità con totale indifferenza verso il valore intrinseco del loro contenuto.
Alcuni anni fa, in una riunione nella quale erano presenti il famoso teologo e gnostico sciita ‘Allâmah Sayyid Muhammad Husayn Tabâtabâ’î e il professor Henry Corbin, quest’ultimo domandò all’autorità sciita se il “Nahj al‑balâghah” fosse opera di ‘Alî, il primo Imâm. ‘Allâmah Tabâtabâ’î rispose: «Chiunque abbia scritto il “Nahj al‑balâghah” è per noi l’ Imâm anche se fosse vissuto un secolo fa.»
In ogni caso, è curioso che sulla base di inadeguati argomenti storici che non dimostrano assolutamente la sua inautenticità, il “Nahj al‑balâghah”, un’opera che è la più venerata nella Shi’a dopo il Corano e i detti profetici e che ha insegnato a scrivere in arabo eloquente a famosi scrittori arabi come Kurd ‘Alî e Tâhâ Husayn, sia stata dimenticata fino a tal punto.
(21) “Zabûr‑i âl‑i Muhammad.”
(22) Cfr. specialmente il suo “Essai sur les origines du lexique technique de la mystique musulmane”, Paris 1954, e “Recueil de lextes inédits concernant l’histoire de la mystique en pays d’Islam”, Paris 1929.
(23) La relazione tra gli Imâm e le prime generazioni di zuhhâd che più tardi vennero conosciuti come sufi viene discussa da ‘Allâmah Tabâtabâ’î in “La Shi’a nell’Islam”,
(24) In realtà, a differenza di quanto afferma l’autore, negli hadith tramandati dalla Ahl-al-Bayt troviamo detti di condanna contro il sufismo enunciati da parte degli Imam, anche antecedenti all’ottavo; non sarebbe dunque corretto sostenere una presunta affiliazione degli Imam dell’Ahl al-Bayt al sufismo. Questi detti e queste indicazioni non vanno comunque interpretati come una condanna contro la sapienza islamica (‘irfan) o il sentiero spirituale (sayr wa suluk) dei quali gli Imam sono invece i depositari ed i trasmettitori. Si tratta piuttosto di una condanna delle degenerazioni e deviazioni, sia dottrinali che operative, che colpirono alcuni ambienti durante il periodo degli Imam, presenti tutt’oggi in molte confraternite ed organizzazioni che si richiamano al sufismo. Sugli hadith al riguardo, cfr. ad esempio Safinatul Bihar, al-Muhadith al-Qummi, vol. 2, p. 57-58) (N.d.T.)
(25) Rispetto a questa discutibile affermazione di S.H.Nasr ci pare pertinente citare quanto scrive C. Bonaud: “Sino ad ora l’integrazione del politico e dello spirituale nello Sciismo è stata affrontata in maniera molto parziale e insufficiente: certi hanno voluto ridurre lo Sciismo ai suoi aspetti giuridico-politici scartando le molteplici testimonianze dell’insegnamento gnostico degli Imam, altri, più recentemente, hanno deciso, all’opposto, di non prendere in considerazione che l’insegnamento esoterico, non volendo vedere che attendismo e disimpegno politico nell’atteggiamento degli Imam dopo Husayn. Quest’ultimo punto di vista ha certo l’immenso vantaggio di conservare ciò che è primario ed essenziale degli insegnamenti degli Imam, ma non resta meno ristrettivo in rapporto alla sua integralità. E’ del tutto comprensibile che qualcuno abbia una propensione ed un’attenzione particolare per quest’aspetto, ma non bisognerebbe mostrare le cose unicamente attraverso questa visione e in tal caso bisognerebbe riconoscerlo sin dall’inizio precisando che siamo noi che ci limitiamo a tale dominio e non l’insegnamento degli Imam. Certi elementi, in particolare le molteplici persecuzioni dei califfi nei confronti degli Imam, non avrebbero avuto alcun senso se il loro insegnamento fosse stato solo spirituale e religioso, e se essi si fossero isolati in un ritiro completo dalla sfera politica, non denunciando nemmeno l’usurpazione del califfato, in una parola, se essi non avessero per nulla dato fastidio al potere di quel tempo. Quest’ultimo, per quel che si sa, lasciò in pace i membri delle diverse scuole d’insegnamento esoterico – sufi o alchimisti per esempio – e quando così non accadde fu per una loro interferenza con il dominio politico o per una reale o presunta collusione con dei movimenti militanti, come per Hallaj, sospettato di contatti ismailiti. La questione è in realtà ben più delicata. Risulta chiaramente dal corpus imamita che gli Imam non rivendicarono per se stessi un potere con il quale essi non volevano avere nulla a che fare. Ma da questo stesso corpus risulta che la loro responsabilità in rapporto alla religione, della quale essi sono i Depositari e i Poli, e la loro funzione di Guide e Argomenti di Dio, implicano anche un impegno nel dominio politico, in particolare quando la religione è in pericolo e rischia di scomparire.” (“Uno gnostico sconosciuto del XX secolo”, pag. 23, Il Cerchio) (N.d.T)
(26) Cfr. S.H.Nasr, “An Introduction to Islamic Cosmological Doctrines”, Cambridge (USA), 1964, capitolo 1.
(27) Cfr. al‑Shibi. “al‑Fikr al-shi’i”… p. 73.
(28) Questa monumentale opera è stata edita per la prima volta da H. Corbin e O. Yahya sotto il titolo di “La philosophie shi’ite” per l’Institut Franco-Iranien di Teheran, 1969, con un’estesa introduzione che tratta della sua vita ed idee.
(29) Cfr. S.H.Nasr ‘Seventh Century Sufism and the School of Ibn ‘Arabi’, Journal of the Regional Cultural Institute (Teheran), 1967, vol. 1, n. 1, pp. 43-50.
(30) Sulla filiazione di Ibn ‘Arabî alla scuola giuridica zahirí, cfr. Claude Addas, “Ibn ‘Arabi ou la Quête du soufre rouge” (Paris, Editions Gallimard), dove l’autore sostiene che questa filiazione sia falsa: “Ibn ‘Arabî non adotterà nessun madhab. Egli è, in una certa maniera, il suo stesso madhab”. (N.d.T.)
(31) Questa opera, chiamata “Manâqîb”, è stata commentata anche in persiano. Cfr. Mûsâ Khalkhâlî, “Sharh manâqib Muhyi al‑Dîn ibn ‘Arabî”, Teheran, 1322.
(32) Cfr. al‑Shibi, “al‑Fikr al‑shi’i…” p. 179‑244, 302‑27.
(33) Sulla sua vita ed opere, cfr. I. Aubin, “Materiaux pour la biographie de Shâh Ni’matollâh Wali Kermânî”, Teheran‑Parigi 1956, e i vari studi dedicati a lui da J. Nourbakhsh, l’attuale Qutb dell’ordine, pubblicati da “Khânîqâh ni’rnatullâhî” a Teheran durante il decennio scorso.
(34) Su Shaykh Nûrbakhsh e anche sulla Kubrawiyyah e la sua importanza in relazione alla conversione della Persia alla Shi’a, cfr. gli articoli di M. Molé nella «Revue des études Islamiques» dal 1959 al 1963.
(35) Il testo della sua dichiarazione è citato da al‑Shibi, “al‑Fikr al‑shi’i…” p. 335.
(36) Sui diversi ordini sufi nell’ambiente sciita di Persia, cfr. M. Molé, “I mistici musulmani”, Adelphi, Milano, 1992, capitolo IV.
(37) Sui Baktâshi e la loro affiliazione alla Shi’a, cfr. J. Birge “The Bektâshi order of Dervishes”, Londra 1937, capitolo VI.
(38) Basandosi nelle fonti storiche originali, quali “Adam ârâ-yî abbâsi” e “Kawdal al‑safâ” diversi ricercatori come Minorsky, Togan, Hinz, Aubin, Savory e altri hanno dedicato molte opere storiche all’origine dei Safavidi. Cfr. ad esempio, Z.V. Togan, «Sur l’origine des safavides”, Mélanges Louis Massignon, Parigi, 1957, vol. 3, p. 345‑7. L’opera di W. Hirtz, “Irans Aultstieg zum Nationalstaadt im fünfzehnten Jahrhundert”, Berlino, 1936, è di particolare valore per la sua analisi storica.
(39) Su queste figure, cfr. S.H. Nasr. «The School of Ispahan» e «Sadr al‑Din Shirázi» in M.M. Sharif (dir.), “A History of Muslim Philosophy”, vol. II, Wiesbaden 1966 ; e H. Corbin, «Confessions extatiques de Mir Dâmâd». Mélanges Louis Massignon, p. 331‑78.
(40) Cfr. Sayyid ‘Abd al‑Hujjat Balâghi, “Maqalat al‑hunafâ’fi maqâmât Shams al‘Urafâ’”, Teheran, 1369.
(41) Su queste figure, cfr. R. Gramlich, “Die schiffischen Derwischorden Persiens”, Ersier Teil: Die Affiliationen, Wiesbaden, 1965, p. 33 ss.
(42) Cfr. S.H. Nasr, «Sabziwârî», in “A History of Muslim Philosophy”, vol. II e l’introduzione di T. Izutsu, «The Fundamental Structure of Sabziwarian Metaphysics», in “Sabziwârî Sharh‑i manzûmah”, ed. di M. Mohaghegh e T. Izutsu, Teheran, 1969.
(43) In un altro scritto di S.H. Nasr da noi segnalato altrove, il professore iraniano fa riferimento in proposito a tre sapienti, tutti studenti dell’Imam Khomeyni e di Allamah Tabataba’i, due dei quali ancora vivi. Egli scrive “notevoli figure sono apparse sulla scena come Seyyed Jalal al-Din Ashtiyani, Hassanzadeh Amoli e Jawad Amoli, gli ultimi due dei quali continuano a insegnare a Qom. Il commento di Ashtiyani all’introduzione di Qayssari al Fusus [di Ibn Arabi, ndt] menzionato in precedenza, al pari di suoi altri commentari come quello sul Tamhid alqawa’id e Naqd al-nusus, costituiscono grandi opere contemporanee di gnosi speculativa, mentre il recente commento di Hassanzadeh Amoli sul Fusus intitolato Mumidd al-himam dar sharh fusus al-hikam rivela la natura vivente di questa Scuola in Persia, come la recensione di Jawad Amoli del Tamhid al-qawa’id.” (N.d.T)
(44) Sul significato spirituale del Khidr, cfr. L. Massignon, «Elie et son róle transhistorique, Khadiriya en Islam», Études carmélitaines: Elie le prophéte, vol. II, Paris 1956, p. 269‑90. Massignon ha dedicato numerosi altri articoli a questo tema, la maggioranza dei quali sono apparsi nella «Revue des études Islamiques». Anche negli scritti di R. Guénon sull’iniziazione ci sono molti riferimenti di valore all’iniziazione nel Sufismo attraverso Khidr e gli afrâd che hanno ricevuto questa iniziazione.
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