P.Buttafuoco (Il Foglio)
Il tipo di casa che Egli ama vedere è quella dove il Suo Nome è menzionato. Punto. E’ questa la casa considerata santa. Sacra al punto che anche gli angeli guardano a quelle mura – al vociare che sorge accanto al focolare – come a una sosta nel cammino solenne di felicità, come Luce. “Come al miraggio”, si legge nel versetto dell’Oscurità, nel santo Corano, “nel deserto che l’uomo assetato riconosce come Acqua”.
E’ così bagnata di lacrime, la Valle, da essere comunque benedizione in reminiscenza della Sua ottima creazione. Ma la casa – dove il Nome Suo è memoria – è così onda vibrante di preghiera e vita, da non temere, nel mare dell’Essere, gli abissi del vizio. E così pure i flutti del tempo fugace dove tutto è superficie, vano disperdersi di parola e dottrina tra le sabbie
del nulla.
La casa dove è comandato il bene e proibito il male non smarrisce il ritmo della lode di Lui perché chi vi abita non conosce sosta, non ha sabato. E non ha domenica. Lui, infatti, l’Inviolato, non si stanca, non si assopisce. E non dorme. Vi abitano, nella casa dove il Suo Nome è novantanove volte recitato, uomini e donne che né il commercio né gli affari distraggono dal ricordo del Cielo.
Le donne vi lavorano per provvedere ai bisogni degli uomini. E dei figli. I figli e gli uomini vi tornano dopo aver provveduto alle necessità delle madri. “Non si diventa”, scrive Walter Kasper, “uomo o donna per scelta culturale”, certo, ma se i battezzati non più evangelizzati sono assecondati nel “tono tutto nuovo della Chiesa” Shaitan ha sia praesumptio sia fictio diogni iure per invertire sulla terra l’ordine di uomo e donna. Ed è un ordine che chiunque, perfino un boy scout, pur nella più difficile situazione pastorale, può leggere nel libro che l’angelo tiene aperto sull’uscio dei cieli. E’ il libro dove vi scorre l’eterno che fu, quello che verrà, quello che c’è e che c’è sempre stato. E non è detto che Shaitan, ossia il diavolo, abbia la verità. Piuttosto ha lo storto. Ha dalla sua la realtà tutta ritorta che non è “amore, non è tenerezza, e non è un segno per coloro che riflettono”, è piuttosto il pozzo dove precipitano i negatori del libro.
In altre case, dove non si fa menzione di Lui, vi abitano i peccatori. Sono nel peccato. Vivono nel peccato. Mortale. E sono tenuti – non lo dice Kasper, la Chiesa ormai teme di spaventare la clientela – a rispettare lo stesso i Comandamenti.
La casa è la realizzazione della preghiera, il luogo dove uomini e donne gettano le fondamenta di un merito di grazia per questo mondo e Quell’Altro.
La casa non è una chiesa, non è un posto dove separarsi dalla vita, non è neppure una fortezza che si rende estranea al mondo. Non è la famiglia in canonica, come nelle puntate del pur meritevole don Matteo e non è il quadrato di cucinino e cameretta dove ci si dice “permesso, grazie, scusi” – per come raccomanda il vescovo di Roma – piuttosto il recinto di Voscenzabenedica, l’invocare la benedizione dell’Altissimo per chi vi abita perché la casa, ovvero la famiglia, non è neppure quel legame “sociale” del quale scrive l’affabile ma fallibile Papa nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium.
Il tipo di casa il cui piano regolatore deriva dalla metafisica non concede nulla all’urbanistica delle religioni in cui il peccato è messo tra parentesi. Solo la superstizione laica, tipica dell’incresparsi vano e vacuo di una religione pop qual è il cattolicesimo post-conciliare può ancora attardarsi con la “sociologia”. Se c’è un abisso, per come drammaticamente denuncia Roberto De Mattei, a dividere “la dottrina e la cristianità contemporanea”, se perfino Topolino fa sabotaggio laicista a garanzia dell’ideologicamente corretto, altro termine l’età “sociale” non può avere che nel finale tutto di piombo e menzogna dell’Era volgare, nel segno impresso sulle pagine della Divina Commedia: “Vexilla Regis prodeunt Inferni” (i vessili del Re degli Inferi si protendono contro di noi).
La famiglia, infatti – e cioè la casa, dove il Nome è invocato – non è quella di cui parlano in parrocchia. “Il valore di questo mondo”, recita un hadith di Muhammad, “comparato con l’Aldilà è come ciò che le vostre dita raccolgono nel mare quando le immergete e le ritirate”. La famiglia, quella casa dove Egli degna di suscitare la parola del suo Nome, è la reiterazione cosmica del crearsi. E’ la renovatio alchemica di enti nostalgici di un più degno ente, la Santa Essenza, altrimenti i nostri antenati, liberi dalle nebbie sovversive e dai travisamenti biblici ancora là da venire, non avrebbero istituito il culto sacrissimo dei penati. E non avrebbero imposto, nella santa legge del matrimonio, nel sigillo d’Ellade e di Roma, che le donne unissero alla devozione per la propria radice, l’ancor più forte servigio al ceppo dei propri sposi assumendone coi riti, i nomi, il casato e la gens.
Fiore splendente di gloria è la casa. “Chiamiamo i nostri figli, le nostre donne e noi stessi”. I figli, le donne e noi stessi, sono e siamo le luci che Lui pose attorno al Suo Trono prima della creazione. Per dimorare nel mondo, quella Santa Essenza, chiama a sé un’intimità di cui Lui detiene misteri e splendori, ed è la Casa. Punto. Dal primigenio suo manifestarsi di Gloria scaturisce una pienezza che è sostanza stessa della Rivelazione.
Punto. Come quando il Profeta Muhammad affrontò il Giudizio di Dio sulla questione della natura umana o Divina del Profeta Gesù, spiegandone il segno profetico, e si presentò alle genti tenendo per mano Alì, il genero, con Hassan e Hosseyn – i nipoti – che lo precedevano. E con Fatima, sua figlia, che lo seguiva da vicino, prossima all’Inaccessibile, effusione esaustiva di una Elevatezza che riconduce a ciò che sta prima.
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