Il santuario di Jam-Karan (H.Corbin)

Il santuario di Jam-Karân*

H.Corbin

I racconti di cui diamo qui la traduzione vanno a confermare che, se la parusia dell’Imâm nascosto domina tutta la coscienza sciita, il rapporto della comunità sciita col suo Imâm si mantiene necessariamente nella dimensio mystica. Certo, fra tutti i libri che riguardano l’Imâm, ne troveremmo difficilmente uno solo che non ammettesse affatto un capitolo riportante le testimonianze di qualcuno di coloro che l’hanno visto, in sogno o allo stato di veglia. Sono tutti questi racconti che costituiscono la «storia», più esattamente la «ierostoria», del XII Imâm durante il periodo del Grande Occultamento, il quale è un tempo «tra i tempi». Inoltre, abbiamo detto di questa storia che si compie essa stessa «tra i tempi»; la durata dell’evento vissuto ha la sua propria misura: non può inscriversi nella trama della cronologia, né essere misurata dalle unità di questa. Ciò che si può inscrivere, è il situs cronologico del visionario prima e dopo, ma allora non abbiamo più in mano che la crisalide in rapporto all’evento reale, giacché «durante» l’evento, il visionario non era là.

Che tale evento non dipenda dall’iniziativa dell’uomo né dalla sua decisione, è ciò che illustrano diversi aneddoti, di cui si reperirebbe forse difficilmente l’origine, ma che non sono per questo meno eloquenti, perché dicono esattamente quello che hanno da dire. Riporterò il seguente, particolarmente tipico, di cui è venuto a conoscenza un amico iraniano, e così come quell’amico me lo raccontò, qualche anno fa (1). Un mojtahed (cioè uno di quei dotti la cui intera vita è votata alla ricerca e all’interpretazione delle tradizioni sciite) desiderava appassionatamente vedere l’Imâm nascosto. Con questa intenzione moltiplicava le opere pie di ogni sorta. Ed ecco che una notte vede in sogno un personaggio che gli rivela che a tale porta d’Ispahan, tale mattino all’alba, presso tale artigiano, vedrà l’Imâm. Egli esita, ma per tre notti di seguito il sogno si riproduce. Si reca dunque al posto indicato. Nel momento in cui sta per penetrare nella dimora dell’artigiano, un giovane uomo esce proprio da lì. Lui entra, si presenta all’artigiano, e gli spiega prudentemente e lungamente la ragione della sua venuta mattutina. E l’artigiano gli dice: «Ma l’Imâm era lì un attimo fa, fino al momento in cui tu sei entrato». E il mio amico iraniano commentava così: l’Imâm può prendere non importa quale rivestimento. Non sta a te cercare di vederlo, sta a lui decidere se tu hai la capacità di vederlo, cioè se sei veramente uno dei suoi compagni, se appartieni al suo mondo. – Appartenere al mondo dei compagni dell’Imâm, è avere la capacità di percepire le Forme spirituali, la capacità di «vedere le cose in Hûrqalyâ». Avere questa capacità e metterla in opera, non dipende né dallo sforzo né dalla scienza dell’uomo. Può esserne favorito un uomo molto semplice, allo stesso modo di uno shaykh, un grande spirituale o un grande dotto. Spetta dunque all’Imâm prendere l’iniziativa.

È così che sente la coscienza sciita, e lo illustra in maniera sorprendente l’origine del santuario di Jam-Karân. Il santuario di Samarra in Iraq è il luogo in cui l’Imâm si è occultato agli uomini, ai loro occhi di carne; il santuario di Jam-Karân in Iran è uno dei luoghi delle sue apparizioni agli occhi di quell’organo sottile senza il quale un’antropologia resta incompleta, ridotta o alla materializzazione dello spirituale concreto, o alla riduzione di esso all’immaginario, all’allucinatorio, se non a un semplice punto di vista teorico (2). Ragion per cui abbiamo già messo la fenomenologia della coscienza visionaria in rapporto all’ontologia di Sohrawardî, perché è questa che, per eccellenza, marcò il luogo metafisico del «mondo delle visioni», e perché su questo punto la sua influenza si è mantenuta nel corso dei secoli. Del resto, il compimento reale o mentale del pellegrinaggio, che sia a Samarra o a Jam-Karân, presuppone in tutti i pellegrini il passaggio dalla percezione sensibile a un altro modo di percezione superiore (3).

Jam-Karân è un’oasi, situata a una lega e mezzo circa a sud-est della città di Qomm, nel deserto, in prossimità di montagne che, nel crepuscolo della sera, prendono forme fantastiche come quelle delle fragili costruzioni d’argilla che compongono la borgata. È là che nel IV / X secolo, in seguito ad una epifania del XII Imâm a uno shaykh che vi risiedeva, fu edificato il santuario divenuto un luogo di pellegrinaggio per tutti gli sciiti duodecimani. Sono soprattutto le circostanze di quell’epifania che ci interessano, ed è su di esse che insisteremo. Le nostre informazioni sulla fondazione della moschea costruita a Jam-Karân per ordine del XII Imâm, risalgono ad una delle numerose opere di Ibn Bâbûyeh; l’opera è oggi perduta, ma il racconto era stato per fortuna raccolto in una «Storia di Qomm» redatta da uno dei suoi contemporanei. L’abbiamo ritrovata in una delle dotte compilazioni che si devono a un eminente erudito sciita iraniano del secolo scorso, Mîrzâ Hosayn Nûri (4).

Il racconto, in prima persona, riporta proprio le parole dello shaykh a cui fu accordato, una notte del mese di Ramazan 373 / febbraio 984, di essere l’interlocutore del XII Imâm. La data (tutta esteriore, beninteso) non è separata che da una quarantina d’anni da quella che viene assegnata all’inizio del Grande Occultamento. L’inizio del racconto presenta certi dettagli tanto più interessanti da rilevare in quanto ricordano i riti simbolici ben conosciuti nei rituali d’iniziazione. C’è in primo luogo il rito del cambio d’abito. Lo stesso tratto si ritrova in altri racconti che hanno, anch’essi, l’andamento di racconti d’iniziazione. È così che nel «racconto della Nube bianca» (supra libro V, cap. III, 3), constatiamo che a un momento dato l’Imâm appariva rivestito di due vesti il cui colore simbolico annunciava che si era passati al mondo del Malakût. Proprio qui un episodio inserito nella sua ermeneutica da Qâzî Sa’id Qommî, ci mostrava il V Imâm, Mohammad Bâqir, che, al momento d’introdurre il suo discepolo nel Malakût, cominciava con l’entrare in un certo oratorio per cambiarvisi d’abito; al ritorno, riprendeva il vecchio abito. Nel rituale dei misteri di Mitra, il rivestimento successivo di abiti corrispondenti al grado dell’ascensione mistica, è un rito ben conosciuto in storia delle religioni. In effetti, deporre un vestito e rivestirne un altro, è il rito che accompagna necessariamente il passaggio da un mondo a un altro, rito che significa che non si penetra in un mondo superiore con la natura e gli organi di cui si dispone nel mondo di un grado inferiore.

Come si constata dall’inizio del racconto che segue, i gesti che compie lo shaykh di Jam-Karân, nello sbigottimento che gli fa provare lo straordinario invito, corrispondono tratto per tratto al rituale iniziatico ben conosciuto. Benché non siano compiuti con un cerimoniale liturgico, il loro significato è lo stesso. A due riprese lo shaykh vuole mettere i suoi vestiti ordinari, e a due riprese una voce imperiosa lo avverte ch’egli si sbaglia. Quei vestiti non sono i suoi; sono i vestiti della sua vita quotidiana esteriore, non sono gli abiti della sua anima, i soli che egli possa portare per entrare momentaneamente nel Malakût, perché solo quelli sono i suoi; la veste profana non è né la vera né la sua; la veste sacrale è la veste dell’anima, quella del mistico al momento della sua iniziazione. Qui perciò lo shaykh, avvertito del suo errore, trova il vestito suo, col quale soltanto egli può presentarsi là dove è stato invitato (e poiché è davvero il suo, lo trova allora spontaneamente, senza più doverlo cercare).

Altro dettaglio: lo shaykh cerca vanamente la chiave di casa sua per uscire. La stessa voce lo avverte: nessuna chiave per uscire e penetrare nel mondo dove è atteso (come l’esule dei racconti d’iniziazione di Sohrawardî non ha bisogno di chiavi per aprirsi la via, fuori della sua prigione, all’incontro con l’Angelo; altri gli hanno aperto la porta). Infine, quando lo shaykh è stato condotto dai suoi misteriosi interlocutori in presenza dell’Imâm, vede questi circondato da un gruppo di personaggi dall’aria grave, il cui abbigliamento annuncia che fanno parte dei compagni dell’Imâm. Molto vicino all’Imâm, un venerabile saggio fa la lettura, e il visionario riconosce Khezr (Khadîr), il misterioso profeta che si incontra sempre nei paraggi della Fonte della Vita, l’iniziatore di tutti coloro che non hanno avuto maestro umano o maestro diverso dall’Imâm. Egli è sovente intervenuto e interverrà ancora nel corso dei testi qui presentati. Compagno del XII Imâm, è anche identificato da alcuni con l’Imâm stesso. In breve, sembra che tutti i dettagli siano al loro posto, per informarci che la presenza dell’Imâm sradica dal mondo della percezione comune, e per suggerirci in quale luogo è introdotto il visionario, in quale luogo si produce l’incontro con l’Imâm. Dunque, seguiamo qui il nostro testo.

«Lo shaykh ‘Afîf Sâlih (più tardi denominato semplicemente Hasan) Jam-Karânî ha raccontato ciò: la notte del martedì 17 del mese di Ramazan dell’anno 373 dell’egira (22 febbraio 984) (5), dormivo nella mia casa, quando alcuni uomini bussarono alla porta della dimora. Era mezzanotte passata. Mi svegliarono così e mi gridarono: Alzati, e rispondi all’invito dell’Imâm Mohammad al-Mahdî, Sâhib al-Zamân, che ti chiama. Mi alzai, tutto pervaso da una certa inquietudine, e mi preparai. Saranno certamente partiti, prima che io sia pronto, mi dissi. Indossai la camicia. Ma una voce si fece sentire: riponi quella camicia, non è la tua. Persi la testa e volevo mettere i miei sarâwîl (calzoni corti). Di nuovo la stessa voce si fece sentire: non sono i tuoi. Prendi i sarâwîl che sono tuoi. Gettai dunque il vestito, presi il mio e lo vestii. Allora ecco che mi misi a cercare la chiave della porta di casa, per poter uscire. Di nuovo la voce si fece sentire: la porta è aperta! Quando arrivai alla porta e la trovai effettivamente aperta, vidi là un gruppo di nobili personaggi. Li salutai; essi mi condussero fino al sito dove adesso si eleva la moschea.

«Osservando il luogo, vidi là un trono (takht); magnifici cuscini vi erano disposti; un giovane uomo di una trentina d’anni era appoggiato a quattro di quei cuscini. Davanti a lui era seduto un pîr (uno shaykh, un saggio); teneva un libro in mano e faceva la lettura per il giovane uomo. Più di una sessantina di personaggi erano là, raggruppati intorno al trono e facevano la preghiera. Gli uni portavano una veste bianca, gli altri portavano una veste verde. Il pîr che vedevo fare la lettura, era Hazrat Khezr (Khadir). Allora ecco ch’egli mi fece segno.»

È arrivato il momento in cui andremo ad apprendere le ragioni che hanno motivato la chiamata dell’Imâm: uno spoliatore, un certo Hasan Moslem, ha usurpato e profanato quella terra che è santa. Lo shaykh Hasan Jam-Karânî sta per essere incaricato di un messaggio per quell’uomo. Bisogna che costui restituisca quella terra e che vi si costruisca un tempio.

«In quel momento, l’Imâm mi chiamò per nome e mi disse: Bisogna che tu ti rechi da Hasan Moslem e gli dica questo: “Sono cinque anni che tu coltivi questa terra; anche quest’anno hai avuto il raccolto. Ma ormai non ti è più permesso di coltivarla. Bisogna che tu restituisca tutto il profitto che ne hai tratto, affinché si costruisca qui una moschea.” Di’ ancora questo a Hasan Moslem: “Questa terra è una terra santa, e Dio l’ha scelta fra altre terre. Ma tu, te ne sei impadronito come se fosse tua. Dio ti ha già ripreso due giovani figli, ma la tua coscienza non si è svegliata. Se non ti conformi all’ordine che ti viene dato, altri flagelli ti colpiranno, finché non si sveglierà la tua coscienza”.»

Lo shaykh Hasan Jam-Karânî dice allora all’Imâm: «O mio signore e protettore! per questa missione mi serve un segno, perché le persone non ascolterebbero le mie parole senza che ci fosse un segno e una prova, e non darebbero il loro assenso a ciò che direi. – L’Imâm: là stesso ti daremo un segno, affinché si aggiunga fede alle tue parole. Vai adesso, e porta il nostro messaggio. Comincia con l’andare a trovare il Sayyed Abû’l-Hasan Rezâ. Digli di alzarsi e di andare a presentarsi da Hasan Moslem. Che gli chieda ragione del profitto che ha raccolto per tanti anni; che glielo riprenda e ne disponga per la costruzione della moschea. Che convochi i notabili della regione che si estende da Rahaq fino a Ardahâl e che è nostro dominio, – e che porti a termine la costruzione del tempio.»

Qui sopra, l’Imâm precisa le modalità del waqf (fondazione pia); formula le regole liturgiche che i pellegrini dovranno osservare effettuando la Preghiera nel suo santuario (sequenza delle invocazioni, dei testi, numero dei rak’at o inclinazioni che segnano i tempi o unità della Preghiera); queste regole sono quelle che vengono osservate da dieci secoli dai pellegrini venuti a Jam-Karân. «Per il pellegrino, dice l’Imâm, che effettuerà così questa liturgia dei due rak’at, sarà come se la sua Preghiera si compisse nel Tempio antico della Mecca (cioè nella Ka’ba stessa).» Lo shaykh Hasan Jam-Karânî, ad un segno dell’Imâm, prende congedo e si ritira. Ma ecco che a due riprese, appena fatto qualche passo, l’Imâm lo richiama. Una prima volta, per annunciargli che nel gregge di un pastore chiamato Ja’far Kâshânî, troverà un certo capro dal vello abbondante, nero e bianco, marchiato da sette segni; quel capro, lo comprerà per offrirlo in sacrificio e distribuire la sua carne ai malati e agli infermi, che allora guariranno. Questo sacrificio è messo in corrispondenza col sacrificio della vacca di cui parla la seconda sura del Corano (2: 63-69), come espiazione e purificazione (questi versetti coranici sono una netta reminiscenza del Libro dei Numeri XIX, 1-10). Una seconda volta, l’Imâm richiama lo shaykh per annunciargli la sua «presenza» in quel luogo per sette giorni, cioè fino a quella notte del mese di Ramazan denominata «Notte del destino» (6).

Vediamo che i simboli non mancano nel discorso dell’Imâm. Lo shaykh Hasan Jam-Karânî prosegue il suo racconto; esce dal luogo e dal tempo teofanici dov’era stato testimone unico e privilegiato, per rientrare nella durata continua e nello spazio della percezione comune. La trama dei fatti quotidiani, sospesa dall’intervento soprannaturale ch’essa non può contenere, riprende il suo corso, e le conseguenze che vanno a inscrivervisi stabiliranno il solo sincronismo che sia alla nostra portata fra l’evento visionario e l’evento visibile, storico; queste conseguenze, saranno il compimento dei fatti annunciati dall’Imâm e la costruzione della moschea. «Ritornai a casa, dice lo shaykh, e passai il resto della notte, immerso in una profonda meditazione, finché non si levò il mattino.» Va a cercare allora uno dei suoi amici; insieme si recano al luogo dell’apparizione dell’Imâm. Con loro stupore, vedono un insieme di catene e di chiodi giacente al suolo. Shaykh Hasan vi vede il segno promesso. I due amici si affrettano allora a far visita al Sayyed Abû’l-Hasan Rezâ, come l’Imâm aveva prescritto. Lì, Shaykh Hasan si rende conto di essere atteso: «Tu sei dunque di Jam Karân?» domanda il Sayyed. Lo shaykh gli racconta l’avvenimento della notte precedente. «O Hasan, risponde il Sayyed, stanotte stessa, durante il sonno, qualcuno mi ha detto in sogno: un uomo di nome Hasan verrà da Jam Karân presso di te al mattino. Tu devi credere alle sue parole, dar fiducia a ciò che ti dirà; il suo discorso sarà il nostro discorso. Non rifiutarlo. – Allora mi sono svegliato, ed ecco che ti ho aspettato fino a quest’ora.»

A partire da quel momento, Sayyed Abû’l-Hasan Rezâ prende la direzione delle operazioni, conformandosi alle istruzioni dell’Imâm trasmesse dallo shaykh Hasan. Cavalcando insieme, i tre compagni cominciano col raggiungere ai margini della strada il pastore Ja’far Kâshânî. Il capro annunciato dall’Imâm è davvero là, e accorre da sé davanti allo shaykh Hasan. Viene concluso l’acquisto, ma, cosa curiosa, il pastore Ja’far dichiara, giurando a sostegno: «Non avevo mai visto questo capro fino ad ora; non aveva mai fatto parte del mio gregge. L’ho visto stamattina per la prima volta e ho tentato invano di acchiapparlo. E adesso, ecco che accorre davanti a voi.» Il sacrificio del capro viene consumato nel posto prescritto. Convocano Hasan Moslem lo spoliatore della terra santa, e lo obbligano a restituire il bene che non era suo. Convocano i notabili di Rahaq. In breve, fanno tutto ciò che è necessario per la moschea dell’Imâm. Le catene e i chiodi misteriosi vengono trasportati dal Sayyed Abû’l-Hasan Rezâ nella sua dimora a Qomm; piantati sul portone della sua casa, il contatto con essi produceva effetti straordinari. Ma sembra che dopo la morte del Sayyed, essi sparirono altrettanto misteriosamente com’erano apparsi sul suolo di Jam-Karân, quando il mattino era sorto al termine della notte visionaria.

Tali sono in breve gli avvenimenti che ci riporta la tradizione di Jam-Karân. È lì, in prossimità della borgata, che in un recinto verdeggiante si eleva adesso, conformemente alle prescrizioni dell’Imâm, il santuario che, da ben dieci secoli, è un luogo di pellegrinaggio di tutti gli sciiti, particolarmente degli sciiti iraniani. Luogo di pellegrinaggio intensamente frequentato ancora ai giorni nostri, ma circondato da una grande discrezione, come tutto ciò che riguarda la devozione verso l’Imâm nascosto.

In un tardivo e splendido autunno iraniano (1962), alla fine di una giornata passata al villaggio di Kahak, in un’alta vallata della vicina montagna, là dove Mollâ Sadrâ Shîrâzî aveva cercato rifugio per una decina d’anni nella solitudine, abbiamo avuto l’occasione di recarci a Jam-Karân con due cari compagni iraniani. Uno di loro era quello di cui riporteremo più in là, alla fine, il racconto di un sogno che testimonia, se ce ne fosse bisogno, l’intensa presenza dell’Imâm nel cuore degli sciiti. Di questo pellegrinaggio conserviamo un ricordo straordinario, senza dubbio perché in quel luogo dal contesto geologico strano, e dove la moschea dell’Imâm inscrive nel suolo una splendida sfida che la fede negli Invisibili porta alla nostra epoca, sembra che tutto sia possibile. In quel paesaggio silenzioso e immenso, racconti come quelli che proporremo nel corso di questo capitolo, prendono tutta un’altra evidenza che a leggerli nel nostro paese, nel tumulto delle nostre città, o in prossimità delle nostre strade principali. Nel deserto, tutte le piste si assomigliano (7). Avendo smarrito la strada, uno dei nostri compagni interpellò con voce forte un cavaliere che passava provvidenzialmente nelle vicinanze: «Dov’è la strada verso il santuario dell’Imâm al-zamân (l’Imâm di questo tempo)?» Quelle parole, Imâm al-zamân, vibrando nel silenzio della grande solitudine, puro della purezza del cielo immenso, dettero improvvisamente a Colui che così è designato con tanta speranza e fervore, da tanti secoli, la forza di un reale che s’impone per il tempo di un lampo, ma nondimeno reale… perché noi eravamo tutti e tre alla ricerca della strada verso di lui, e perché quella strada ce lo mostrava.

Dicevamo qui sopra che il racconto della fondazione della moschea di Jam-Karân appartiene a un tipo preciso di manifestazione dell’Imâm nel periodo del Grande Occultamento. Nei racconti di questo tipo, colui a cui viene fatto il favore di questa manifestazione, non solamente è condotto in presenza dell’Imâm, ma è cosciente di trovarsi in presenza dell’Imâm. La presenza dell’Imâm fa d’improvviso irruzione nel luogo del visionario e lo avvolge «come una sostanza spirituale avvolge una sostanza materiale». Ce ne sono altri in cui il pellegrino non viene condotto fino in presenza dell’Imâm; è nondimeno «presso l’Imâm». Inoltre, egli gli fa percorrere le tappe di una topografia misteriosa che non ritroveremo mai sulle nostre carte, perché essa appartiene all’«ottavo clima».

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NOTE

1) Racconto di M. Seyyed Hosseïn Nasr, Teheran, dicembre 1959.

2) Abbiamo insistito a più riprese, nel corso della presente opera, sulla necessità del mundus imaginalis, sul suo legame essenziale con la valorizzazione della conoscenza immaginativa e l’idea di «corpo sottile» (vedi l’indice). Su quest’ultimo tema, i nostri filosofi hanno sviluppato i temi delle loro tradizioni in un lessico che raggiunge quello di Proclo: vedi il nostro Terra celeste, indice s. v.

3) È ciò che analizza in maniera pertinentissima il commentario di Shaykh Ahmad Ahsâ’î sulla Ziyârat al-Jâmi’a (pellegrinaggio spirituale ai Dodici Imâm), che mostra come le invocazioni e i gradi progressivi della penetrazione nel santuario sono dei «riti di passaggio», che producono gradualmente il passaggio dal mondo della percezione sensibile comune, al mondo della percezione soprasensibile. Cfr. Annuaire de la Section des Sc. relig. de l’École des Hautes Études [Annuario della Sezione di Scienze religiose dell’École des Hautes Études], anno 1968-1969, pp. 151 ss.

4) La storia del santuario di Jam-Karân è raccontata da Mîrzâ Hosayn Nûrî, Kalima-ye tayyiba, ed. tipogr. Teheran, K.-F. Islâmîya, s. d., pp. 457 ss. dalla storia di Qomm di Hasan ibn Moh. Qommî, il quale vi trascrive qualche pagina d’un’opera oggi perduta di Ibn Bâbûyeh (Kitâb Mu’nis al-hazîn fî ma’rifat al-Haqq wa’l-Yaqîn). Come sottolinea l’eruditissimo Mîrzâ Hosayn Nûrî, la data del 393 / 1003 è falsa, giacché Ibn Bâbûyeh, autore dell’opera che è la fonte, è morto nel 381 / 992. Vista la confusione frequente della grafia araba dei due nomi di numeri sab’în e tis’în, è evidente che la visita dell’Imâm deve essere portata alla data del 17 Ramazan 373 / 22 febbraio 984. Mîrzâ Hosayn Nûrî procede inoltre (pp. 460 ss.) a una dotta critica bibliografica del Tâ’rîkh-e Qomm (Storia di Qomm): scritta in arabo da Hasan ibn Moh. Qommî, l’opera viene tradotta in persiano, nell’ 865 e., da Hasan ibn ‘Alî ibn Abdel-Malik Qommî. È questa versione persiana che è stata edita da Sayyed Jalâloddîn Tehrânî (Teheran 1313 e. s.). L’originale arabo è oggi perduto; sembra che lo fosse già nel XVII secolo, poiché Majlisî non aveva potuto ritrovarlo, benché uno dei suoi contemporanei, Mîr Moh. Ashraf (nei suoi Fazâ’il al-sâdât), citi ancora dall’originale arabo, non dalla versione persiana.

5) Sulla data così rettificata, cfr. la nota precedente.

6) Sulla «Notte del Destino», cfr. supra p. 318, n. 11.

7) Nel testo “rien ne ressemble plus à une piste qu’une autre piste” [niente assomiglia di più a una certa pista, che un’altra pista] (N.d.T.).

* Tratto dal IV volume dell’opera dello studioso francese intitolata “En Islam iranien”. La traduzione in italiano è stata gentilmente messa a disposizione dell’Associazione Islamica Imam Mahdi (AJ) dal Dott. Fabio Tiddia, che a tale argomento ha dedicato la propria tesi di laurea.

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Writer : shervin | 0 Comments | Category : Mahdaviyyah , Via Spirituale

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