Palestina: il mito di una “terra senza popolo per un popolo senza terra” (R. Garaudy)

Il mito di una “terra senza popolo per un popolo senza terra”*

R. Garaudy

Non c’è un popolo palestinese […], Non è come se noi fossimo venuti a metterli alla porta e a prendere il loro paese. Essi non esistono“.

Fonte: Golda Meir, dichiarazione al “Sunday Times”, 15 giugno 1969

.

L’ideologia sionista si fonda su un postulato molto semplice. Si legge nella Genesi (XV, 18-21): “Il Signore concluse un’alleanza con Abramo in questi termini: “Alla tua progenie io dò questo paese, dal torrente d’Egitto al grande fiume, il fiume Eufrate“”.

A partire da ciò, senza domandarsi in che cosa consista l’Alleanza, a chi sia stata fatta la promessa, o se l’Elezione fosse incondizionale, i dirigenti sionisti, anche se  agnostici o atei, affermano: la Palestina ci è stata data da Dio.

Le stesse statistiche del governo israeliano mostrano che il 15% degli israeliani sono religiosi. Questo non impedisce al 90% di essi di affermare che questa terra è stata data loro da Dio… al quale non credono.

L’immensa maggioranza degli attuali israeliani non condivide né la pratica, né la fede religiosa, e i diversi “partiti religiosi”, che pure svolgono un ruolo decisivo nello Stato d’Israele, non raccolgono che un’infima minoranza di cittadini.

L’apparente paradosso è spiegato da Nathan Weinstock: “Se l’oscurantismo rabbinico trionfa in Israele è perché la mistica sionista non ha coerenza che tramite il riferimento alla legge mosaica. Sopprimete i concetti di “popolo eletto” e di “terra promessa” e il fondamento del sionismo crolla. Infatti, paradossalmente, i partiti religiosi poggiano la loro forza sulla complicità dei sionisti agnostici. La coerenza interna della struttura sionista d’Israele ha imposto ai suoi dirigenti il rafforzamento dell’autorità del clero. Ed è stato il partito socialdemocratico Mapai, sotto l’impulso di Ben Gurion, e non i partiti confessionali, che ha inserito il corso obbligatorio di religione nel programma delle scuole“.

Fonte: Nathan Weinstock, Le sionisme cantre Israel, Parigi, Maspéro, 1969, p. 315

.

Questo paese esiste come realizzazione di una promessa fatta da Dio stesso. Sarebbe ridicolo domandargli conto della sua legittimità. Tale è l’assioma di base formulato da Golda Meir

Fonte: “Le Monde”, 15 ottobre 1971

.

Questa terra ci è stata promessa e noi abbiamo un diritto su di essa” ripete Begin.

Fonte: Menahem Begin, dichiarazione rilasciata a Oslo, “Davar”, 12 dicembre 1978

.

Se si possiede la Bibbia, se ci si considera come il popolo della Bibbia, bisogna possedere tutte le terre bibliche, quelle dei Giudici e quelle dei Patriarchi, di Gerusalemme, di Ebron, di Gerico e di altri posti ancora“.

Fonte: Moshe Dayan, “Jerusalem Post”, 10 agosto 1967

.

Molto significativamente Ben Gurion ricorda il “precedente” dell’America dove, in effetti, per un secolo la frontiera rimase mobile fino al Pacifico, in funzione dei successi della “caccia agli indiani” per impadronirsi delle loro terre.

Ben Gurion disse molto chiaramente: “Non si tratta di mantenere lo status quo. Noi dobbiamo creare uno Stato dinamico, orientato verso l’espansione”.

La pratica politica corrisponde a questa singolare teoria: prendere la terra, cacciandone gli abitanti, come fece Giosuè, successore di Mosè. Menahem Begin, più profondamente imbevuto della tradizione biblica, proclamò: “Eretz Israel sarà restituita al popolo d’Israele. Tutta intera e per sempre“.

Fonte: Menahem Begin, The revolt: story of the Irgun, New York, Schuman, 1951, p. 335

Prima della nascita del cosiddetto “Stato” di Israele, arabi ed ebrei vivevano pacificamente insieme

.

Così, improvvisamente, lo Stato d’Israele si pone al di sopra di ogni legge internazionale.

Imposto all’ONU l’I 1 maggio 1949 per volontà degli Stati Uniti, lo Stato di Israele non fu ammesso che a tre condizioni:

1 non toccare lo statuto di Gerusalemme;

2 permettere agli arabi palestinesi di tornare a casa loro;

3 rispettare le frontiere fissate dall’accordo di spartizione.

Parlando di questa risoluzione delle Nazioni Unite sulla “spartizione”, votata molto prima dell’ammissione di Israele, Ben Gurion dichiara: “Lo Stato d’Israele considera che la risoluzione delle Nazioni Unite del 29 novembre 1947 è nulla e non sussistente“.

Fonte: “New York Times”, 6 dicembre 1953

.

Facendo eco alle tesi dell’americano Albright, citate più sopra, sul parallelismo dell’espansione americana e sionista, il generale Moshe Dayan scrisse: “Prendete la dichiarazione d’indipendenza americana. Essa non contiene alcuna menzione di limiti territoriali. Noi non siamo obbligati a fissare i limiti dello Stato“.

Fonte: “Jerusalem Post”, 10 agosto 1967

.

La politica corrisponde esattamente a questa legge della giungla: la “spartizione” della Palestina, derivante dalla risoluzione delle Nazioni Unite, non fu mai rispettata. Tale decisione, adottata il 29 novembre 1947 dall’Assemblea Generale (composta allora da una schiacciante maggioranza di Stati occidentali), traccia i piani dell’Occidente per questo suo “avamposto”.

In questa data gli ebrei costituiscono il 32% della popolazione e possiedono il 5,6% del suolo: essi ricevono il 56% del territorio, con le terre più fertili. Ciò grazie all’intervento degli Stati Uniti.

Il presidente Truman esercitò una pressione senza precedenti sul Dipartimento di Stato. Il sottosegretario di Stato Summer Welles scrisse: “Per ordine diretto della Casa Bianca i funzionari americani devono usare pressioni dirette o indirette […] al fine di assicurare la maggioranza necessaria al voto finale“.

Fonte: Summer Welles, We need not fail, Boston, 1948, p. 63

.

James Forrestal, allora Ministro della Difesa, conferma: “I metodi utilizzati per fare pressione e per costringere le altre nazioni in seno alle Nazioni Unite rasentavano lo scandalo“.

Fonte: James Forrestal, Memories, New York, Viking Press, 1951, p. 363

.

Fu mobilitata tutta la forza dei monopoli privati: sul “Chicago-Daily” del 9 febbraio 1948 Dex Pearson fornisce delle precisazioni, tra le quali la seguente: “Harvey  Firestone, proprietario di piantagioni di caucciù in Liberia, agisce presso il governo liberiano“.

Siccome gli arabi protestavano contro l’ingiustizia della spartizione e la rifiutavano, i dirigenti israeliani ne approfittarono a partire dal 1948 per impadronirsi di nuovi territori, in particolare Jaffa e San Giovanni d’Acri, nonostante il fatto che nel 1949 già controllassero 80% del paese e 770.000 palestinesi fossero stati cacciati.

Il sistema impiegato era quello del terrore: l’esempio più eclatante fu quello di Deir Yassin.

Il 9 aprile 1948, con un metodo identico a quello dei nazisti a Oradour, i 254 abitanti di quel villaggio (uomini, donne, vecchi e bambini) furono massacrati dalle truppe dell’Irgun capeggiate da Menahem Begin.

Nel suo libro The revolt: story oft he Irgun Begin scrisse che “lo Stato di Israele non sarebbe esistito senza la vittoria di Deir Yassin” (p. 200 ) e aggiunse: “La Haganah effettuava attacchi vittoriosi sugli altri fronti […]. Presi dal panico, gli arabi fuggivano gridando: Deir Yassin” {ibidem).

Erano considerati come “assenti” tutti i palestinesi che avevano lasciato il proprio domicilio entro il 10 agosto 1948.

Così 2/3 delle terre possedute dagli arabi (70.000 ettari su 110.000) furono confiscati. Quando nel 1953 fu promulgata la legge sulla proprietà fondiaria, l’indennizzo fu fissato sul valore della terra al 1950, ma nel frattempo la lira israeliana aveva perso 5 volte il suo valore.

Inoltre, dopo l’inizio dell’immigrazione ebraica, per di più in perfetto stile colonialista, le terre erano vendute da feudatari proprietari non residenti (gli effendi). I contadini poveri, fellah, scacciati dal loro territorio a causa di accordi stipulati tra i vecchi padroni e i nuovi occupanti, privati delle terre, non potevano, nel migliore dei casi, fare altro che fuggire.

Le Nazioni Unite avevano nominato un mediatore, il conte Polke Bernadotte. Nel suo primo rapporto il conte Bernadotte scrisse: “Impedire alle vittime innocenti del conflitto di tornare alle loro case sarebbe offendere i principi elementari, mentre gli immigranti ebraici affluiscono in Palestina e per di più minacciano di sostituire in modo permanente i rifugiati arabi radicati in queste terre da diversi secoli“. Egli descrisse “il saccheggio in grande scala dei sionisti e la distruzione di villaggi senza apparente necessità militare“.

Questo rapporto (UN documento A 648, p. 14) è stato depositato il 16 settembre 1948. Il 17 settembre il conte Bernadotte e il suo assistente francese, il colonnello Serot, furono assassinati nella zona di Gerusalemme occupata dai sionisti.

Ponti: Rapporto del generale A. Lundstrom alle Nazioni Unite, 17 settembre 1948; A. Lundstrom, Un tributo alla memoria del conte Polke Bernadotte, Roma, Panelli, 1970; Ralph Hewins, Count Bernadotte, his life and work, Hutchinson, 1948; Confessioni di Baruch Nadel sul settimanale milanese “Puropa”, citate da “Le Monde”, 4 e 5 luglio 1971.

.

Questo non era il primo crimine del sionismo contro chiunque denunciasse le sue imposture.

Lord Moyne, segretario di Stato inglese al Cairo, dichiarò il 9 giugno 1942 alla Camera dei Lord che gli ebrei immigrati in Palestina non erano i discendenti di quelli antichi e che non potevano avanzare “rivendicazioni legittime” sulla Terra Santa. Sostenitore della regolamentazione dell’immigrazione in Palestina, egli fu allora accusato di essere “un nemico implacabile dell’indipendenza ebraica”.

Fonte: Isaac Zaar, Resene and liberation: America’ s part in the birth of Israel, New York, Bloc Publishing, 1954, p. 115

.

Il 6 novembre 1944 Lord Moyne fu ucciso al Cairo da due membri del gruppo Stern (di Itzac Shamir). Anni dopo, il 2 luglio 1975, “Pvening Star” di Auckland rivelò che i corpi dei due assassini giustiziati erano stati scambiati con 20 prigionieri arabi e sepolti a Gerusalemme presso il Monumento agli eroi. Il governo inglese deplorò che Israele onorasse degli assassini e ne facesse degli eroi.

Il 22 luglio 1946 l’ala dell’Hotel King David a Gerusalemme, dove si era installato lo Stato maggiore militare del governo inglese, esplose causando la morte di circa 100 persone, tra ebrei, inglesi e arabi. L’operazione fu rivendicata dall’Irgun di Menahem Begin.

Lo Stato di Israele si sostituì, allora, agli ex colonialisti e fece uso degli stessi metodi: per esempio i finanziamenti all’agricoltura che permettevano l’irrigazione, furono distribuiti in modo discriminatorio, favorendo sistematicamente gli occupanti ebrei. Tra il 1948 e il 1969 la superficie delle terre irrigate passò, per quanto riguardava il settore ebraico da 20.000 a 164.000 ettari e per il settore arabo da 800 a 4.100 ettari. Il sistema coloniale è stato così perpetuato e, anzi, peggiorato: il dottor Rosenfeld nel libro Les travailleurs arabes migrants, pubblicato dall’università ebraica di Gerusalemme nel 1970, riconosce che l’agricoltura araba era più prospera al tempo del mandato britannico.

La segregazione si esprime anche nella politica degli alloggi. Il presidente della Lega israeliana dei diritti dell’uomo, dottor Israel Shahak, professore all’università ebraica di Gerusalemme, nel suo libro Le racisme de l’État d’Israel (Parigi, Authier, 1975, p. 57) ci fa sapere che in Israele esistono città intere (Carmel, Nazareth, Illith, Hatzor, Arad, Mitzphen-Ramen e altre) nelle quali la legge vieta formalmente ai non ebrei di abitare.

A livello di cultura regna lo stesso spirito colonialista.

“Il ministro dell’educazione nazionale propose nel 1970 ai liceali due versioni differenti della preghiera allo “Yzkar”: una dice che i campi della morte erano stati costruiti dal “diabolico governo nazista e dall’omicida nazione tedesca”. La seconda evoca più globalmente “la nazione tedesca omicida” […]. Esse comportano entrambe un paragrafo […] che chiede a Dio di “vendicare sotto i nostri occhi il sangue delle vittime“”.

Fonte: Cerco i miei fratelli, Ministero dell’educazione e della cultura, Gerusalemme, 1990

.

Questa cultura dell’odio razziale ha dato i suoi frutti:

Al seguito di Kahane, dei soldati sempre più numerosi, compenetrati dalla storia del genocidio, immaginarono ogni sorta di scenario per sterminare gli arabi” racconta di ricordare l’ufficiale Ehud Praver, responsabile del corpo insegnanti dell’esercito. “È molto preoccupante che il genocidio possa legittimare così un razzismo ebraico. Noi dobbiamo ormai sapere che è indispensabile non solo trattare la questione del Genocidio, ma anche quella dell’ascesa del fascismo e spiegarne la natura e i pericoli per la democrazia”. Secondo Praver “troppi soldati si sono messi a credere che il Genocidio possa giustificare qualsiasi azione disonorevole“.

Fonte: Tom Segev, op. cit., p. 473

.

Il problema è stato posto molto chiaramente ancora prima dell’esistenza dello Stato d’Israele. Il direttore del Fondo nazionale ebraico, Yossef Weitz, scriveva già nel 1940: “Deve essere chiaro per noi, che non c’è posto per due popoli in questo paese. Se gli arabi lo lasciano, per noi sarà sufficiente […] non esiste altro modo che trasferirli tutti, non bisogna lasciare un solo villaggio, una sola tribù […]. Bisogna spiegare a Roosevelt, e a tutti i capi degli Stati amici che la terra di Israele non è troppo piccola se tutti gli arabi se ne vanno e se le frontiere sono un po’ spostate verso nord lungo il Litani e verso est sulle alture del Golan“.

Fonte: Yossef Weitz, Journal, Tel Aviv, 1965

Nell’importante giornale israeliano “Yediot Aronoth” del 14 luglio 1972 Yoram Ben Porath ricordava con forza l’obiettivo da raggiungere: “È dovere dei dirigenti israeliani spiegare chiaramente e coraggiosamente all’opinione pubblica un certo numero di fatti, che il tempo fa dimenticare. Il primo di questi è che non ci sono sionismo, colonizzazione. Stato ebraico, senza esclusione degli arabi ed espropriazione delle loro terre“.

Qui siamo ancora nella logica più rigorosa del sistema sionista: come creare una maggioranza ebraica in un paese popolato da una comunità arabo-palestinese autoctona?

Il sionismo politico ha proposto un’unica soluzione, derivante dal suo programma colonialista: realizzare una colonia di popolamento cacciando i palestinesi e incrementando l’immigrazione ebraica. Cacciare i palestinesi e impossessarsi delle loro terre fu un’impresa deliberata e sistematica.

Ai tempi della Dichiarazione Balfour i sionisti non possedevano che il 2,5% della terra e, al momento della “spartizione” della Palestina, il 6,5%. Nel 1982 essi ne possedevano il 93%.

I procedimenti impiegati per togliere agli autoctoni le loro terre sono stati quelli del più implacabile colonialismo, con toni razzisti ancora più marcati nel caso del sionismo.

La prima tappa ebbe il carattere di un colonialismo classico. Si trattava di sfruttare la mano d’opera locale: era il metodo del barone Édouard de Rotschild. Come egli sfruttava nei suoi vigneti d’Algeria la manodopera a buon mercato dei fellah, estese semplicemente il suo campo d’azione alla Palestina, sfruttando nelle sue vigne altri arabi al posto degli algerini.

Si registrò un cambiamento verso il 1905, quando arrivò dalla Russia una nuova ondata d’immigranti all’indomani della sconfitta della rivoluzione del 1905. Invece di continuare il combattimento sul posto, a fianco degli altri rivoluzionari russi, i disertori della rivoluzione sconfitta importarono in Palestina uno strano “socialismo sionista”: essi crearono delle cooperative artigianali e dei kibbutz contadini, eliminando i fellah palestinesi, per creare un’economia basata su uno strato operaio e contadino ebraico. Dal colonialismo classico (di tipo inglese o francese) si passò così a una colonia di popolamento, secondo la logica del sionismo politico, che implicava un afflusso di immigranti “in favore” dei quali e “contro” nessuno (come disse il professor Klein) dovevano essere riservati le terre e gli impieghi. Si trattava ormai di sostituire il popolo palestinese con un altro popolo e naturalmente d’impadronirsi della terra.

II punto di partenza della gigantesca operazione fu la creazione, nel 1901, del Kéren Keyémet (Fondo nazionale ebraico), che presentava un carattere originale, anche in rapporto agli altri tipi di colonialismo: la terra acquisita non poteva essere rivenduta, né affittata a non ebrei.

Negli anni Cinquanta furono approvate due leggi concernenti il Fondo nazionale ebraico (23 novembre 1953) e il Kéren Hayesod (Fondo di ricostruzione, 10 gennaio 1956). “Queste due leggi, scrive il professor Klein, hanno permesso la trasformazione di queste imprese che hanno avuto così un certo numero di privilegi”. Senza enumerare tali privilegi, egli richiama in una semplice nota il fatto che le terre possedute dal Fondo nazionale ebraico sono state dichiarate “terre d’Israele” e una legge fondamentale ha proclamato la loro inalienabilità. Si tratta di una delle quattro leggi fondamentali adottate nel 1960 (elementi di una futura costituzione, che ancora non esiste, a 50 anni dalla creazione di Israele). È spiacevole che il dotto giurista, con la sua abituale cura per la precisione, non faccia alcun commento su questa “inalienabilità”. Non ne dà neppure la definizione: una terra “redenta” dal Fondo nazionale ebraico è una terra diventata “ebraica”; essa non potrà mai essere venduta a un non ebreo, né affittata a un non ebreo, né lavorata da un non ebreo.

Si può negare il carattere di discriminazione razzista di questa legge?

La politica agraria dei dirigenti israeliani è stata quella di una spoliazione metodica dei contadini arabi. L’ordinanza fondiaria del 1943, sull’esproprio d’interesse pubblico, è un’eredità del periodo di mandato inglese. Questa ordinanza perde il suo senso quando viene applicata in modo discriminatorio, per esempio quando nel 1962 sono stati espropriati 500 ettari a Deir El-arad, Nabel e Be’neh e il cosiddetto interesse pubblico consisteva nella creazione della città di Carmel, riservata ai soli ebrei.

Altra procedura: l’utilizzazione delle leggi eccezionali decretate nel 1945 dagli inglesi contro gli ebrei e gli arabi. La legge 124 dà al governo militare, con il pretesto, questa volta, della “sicurezza”, la possibilità di sospendere tutti i diritti dei cittadini e tutti i loro spostamenti: è sufficiente che l’esercito dichiari vietata una zona, “per ragioni di sicurezza dello Stato”, perché un arabo non possa tornare sulle sue terre senza autorizzazione governativa. Se l’autorizzazione viene rifiutata, la terra è dichiarata “incolta” e il Ministero dell’Agricoltura può “prendere possesso di terre non coltivate al fine di garantirne la lavorazione”.

Quando gli inglesi nel 1945 promulgarono questa legislazione ferocemente colonialista per lottare contro il terrorismo ebraico, il giurista Bernard (Dov) Joseph, protestò: “Saremo tutti sottomessi al terrore ufficiale? […] Nessun cittadino sarà al riparo dalla prigionia a vita senza processo […] i poteri dell’amministrazione di esiliare chiunque sono illimitati […] non c’è bisogno di commettere una qualche infrazione, è sufficiente una decisione presa in un qualsiasi ufficio”.

Lo stesso Bernard (Dov) Joseph, diventato Ministro della Giustizia d’Israele, applicò questa legislazione contro gli arabi. J. Shapira a proposito delle stesse leggi, in una manifestazione di protesta del 7 febbraio 1946 a Tel Aviv (“Hapraklit”, febbraio 1946, pp. 58-64) dichiarò ancor più fermamente: “L’ordine imposto da questa legislazione è senza precedenti in un paese civile: nemmeno nella Germania nazista esistevano simili leggi“.

Lo stesso J. Shapira, diventato prima Procuratore Generale dello Stato d’Israele e poi Ministro della Giustizia, applicò queste leggi contro gli arabi. Per giustificare il mantenimento del regime di terrore antiarabo, lo “stato d’emergenza” in Israele non è mai stato abrogato dal 1948.

Shimon Peres scriveva sul giornale “Davar” del 25 gennaio 1972:

L’applicazione della legge 125, sulla quale si fonda il governo militare, è una continuazione diretta della lotta per l’insediamento e l’immigrazione ebraiche”.

L’ordinanza sulla coltura delle terre incolte, emessa nel 1948 ed emendata nel 1949, va nello stesso senso, ma per una via più diretta: senza neanche cercare il pretesto della “sicurezza pubblica” o della “sicurezza militare”, il Ministro dell’Agricoltura può requisire ogni terra abbandonata.

Ora, l’esodo massiccio delle popolazioni arabe sotto il terrore, come nel caso di Deir Yassin nel 1948, di Kafr Kassem il 29 ottobre 1956 o dei pogrom dell’Unità 101, creata da Moshe Dayan e a lungo comandata da Ariel Sharon, ha “liberato” vasti territori, svuotati dei loro proprietari o lavoratori arabi e consegnati agli occupanti ebrei.

Il meccanismo di esproprio dei fellah è stato completato dall’ordine del 30 giugno 1948, dal decreto d’urgenza del 15 novembre 1948 sulle proprietà degli “assenti”, dalla legge relativa alle terre degli “assenti” del 14 marzo 1950, dalla legge sull’acquisizione delle terre del 13 marzo 1953 e da tutto un arsenale di misure tendenti a legalizzare il furto, che hanno costretto gli arabi a lasciare le loro terre dove sono state installate delle colonie ebraiche, come mostra Le sionisme contre Israel di Nathan Weinstock.

Per cancellare perfino il ricordo dell’esistenza della popolazione agricola palestinese e accreditare il mito del “paese deserto”, i villaggi arabi furono distrutti con le loro case, i loro recinti e anche i loro cimiteri.

Il professor Israel Shahak ha distribuito nel 1975 la lista dei 385 villaggi arabi, sui 475 esistenti nel 1948, distrutti e rasi al suolo con i bulldozer.

Per convincere che, prima di Israele, la Palestina era un “deserto”, centinaia di villaggi sono stati spianati dai bulldozer con le loro case, le loro recinzioni, i loro cimiteri e le loro tombe“.

Fonte: Israel Shahak, Le racisme de l’État d’Israel, cit., pp. 152 e s.

.

Le colonie israeliane hanno continuato ad impiantarsi con un particolare impatto in Cisgiordania nel 1979 e, sempre secondo la più classica tradizione colonialista, i loro membri sono stati armati.

Il risultato globale è il seguente: dopo aver cacciato un milione e mezzo di palestinesi, la “terra ebraica”, come la chiamano i responsabili del Fondo nazionale ebraico, che era il 6,5% nel 1947, rappresenta più del 93% della Palestina (per il 75% statale e per il 14% del Fondo nazionale).

Il bilancio di questa operazione era anticipatamente (e significativamente) sottolineato nel giornale degli afrìkaaners dell’Africa del Sud “Die Transvaler”, esperto in materia di discriminazione razziale {apartheid): “Qual’è la differenza tra il modo con cui il popolo israeliano si sforza di rimanere se stesso tra le popolazioni non ebraiche e quello degli afrikaners per cercare di restare ciò che sono?”.

Fonte: Henry Katzew, South Africa: a country without friends, citato in R. Stevens, Zionism, South Africa and Apartheid

.

Il sistema di apartheid si manifesta nella condizione personale come nell’appropriazione delle terre. Gli israeliani vogliono concedere ai palestinesi una “autonomia che è l’equivalente di ciò che sono stati i bantustans per i neri dell’Africa del Sud”.

Analizzando le conseguenze della legge del “Ritomo”, Klein, direttore dell’Istituto di diritto comparato all’università ebraica di Gerusalemme, pone la domanda: “Se il popolo ebraico supera di molto la popolazione dello Stato d’Israele, inversamente si può dire che non tutta la popolazione dello Stato di Israele è ebraica, perché il paese conta una importante minoranza non ebraica composta essenzialmente da arabi e drusi. La questione che si pone è sapere in quale misura l’esistenza di una legge del ritorno, che favorisca l’immigrazione di una parte della popolazione (definita dalla sua appartenenza religiosa ed etnica), non possa essere considerata come discriminatoria“.

Fonte: Claude Klein, Le caractère juif de l’État d’Israel, Parigi, Cujas, 1977, p. 33

.

L’autore si domanda in particolare se la convenzione internazionale sull’eliminazione di tutte le discriminazioni razziali (adottata il 21 dicembre 1965 dall’assemblea generale delle Nazioni Unite) non si applichi affatto alla legge del ritorno: attraverso una dialettica che lasciamo giudicare al lettore, l’eminente giurista conclude con questo sottile distinguo: in materia di non-discriminazione “una misura non deve essere diretta contro un gruppo particolare. La legge del ritorno è concepita in favore degli ebrei che vogliano stabilirsi in Israele, essa non è diretta contro alcun gruppo o nazionalità. Non vediamo in quale misura questa legge sarebbe discriminatoria”.

Fonte: Op. cit., p. 35

.

Al lettore, che rischiasse di essere dirottato da questa logica quanto meno audace che consiste nel dire, secondo una celebre battuta, che tutti i cittadini sono uguali, ma alcuni sono più uguali di altri, illustriamo concretamente la situazione creata dalla legge del ritorno. Per coloro che non ne beneficiano è prevista una legge sulla nazionalità (5712 del 1952): essa riguarda (articolo 3) “tutti gli individui che immediatamente prima della fondazione dello Stato erano soggetti palestinesi e che non diventano israeliani in virtù dell’articolo 2” (quello concernente gli ebrei). I soggetti designati da questa perifrasi (considerati come “non aventi mai avuto prima nazionalità”, vale a dire come apolidi per eredità), devono provare (e prove documentali molto spesso sono impossibili, perché i documenti sono spariti nella guerra e nel terrore che hanno accompagnato l’instaurazione dello Stato sionista) che abitavano questa terra dal tale al talaltro periodo: in mancanza di ciò, per diventare cittadino, resta la via della “naturalizzazione”, che esige, per esempio, “una certa conoscenza della lingua ebraica”. Dopo di che il Ministro degli Interni, “se lo giudica utile”, concede (o rifiuta) la nazionalità israeliana. In breve, in virtù della legge israeliana, un ebreo della Patagonia diviene cittadino israeliano nello stesso istante in cui mette piede all’aeroporto di Tel Aviv; un palestinese, nato in Palestina da genitori palestinesi, può essere considerato come apolide: non c’è nessuna discriminazione razziale contro i palestinesi, si tratta semplicemente di una misura a favore degli ebrei!

Sembra quindi difficile contestare la risoluzione dell’assemblea generale dell’ONU del 10 novembre 1975 (risoluzione 3379, XXX) che definisce il sionismo una “forma di razzismo e di discriminazione razziale”.

Infatti coloro che si stabiliscono in Israele sono per un’infima minoranza intenzionati a realizzare la “promessa”. La “legge del ritorno” c’entra molto poco. È una fortuna che sia così, perché in tutti i paesi del mondo gli ebrei hanno svolto un ruolo di primaria importanza in ogni settore della cultura, della scienza e delle arti e sarebbe desolante che il sionismo raggiungesse l’obiettivo che si sono prefissati gli antisemiti: strappare gli ebrei alle loro rispettive patrie, per rinchiuderli in un ghetto mondiale. L’esempio degli ebrei francesi è significativo: dopo gli accordi di Évian del 1962 e la liberazione dell’Algeria, su 130.000 ebrei che lasciarono l’Algeria stessa soltanto 20.000 andarono in Israele e 1 10.000 in Francia. Questo movimento non fu la conseguenza di una persecuzione antisemita, perché la proporzione dei coloni francesi non ebrei che se ne andavano era la stessa. La partenza cioè non era causata dall’antisemitismo ma dal precedente colonialismo francese e gli ebrei francesi d’Algeria conobbero la stessa sorte degli altri francesi del paese.

In sintesi, però, la quasi totalità degli immigranti ebrei andò in Israele per sfuggire alle persecuzioni antisemite, come è evidente da quanto segue.

Nel 1880 in Palestina c’erano 25.000 ebrei su una popolazione di 500.000 abitanti. A partire dal 1882 cominciarono le immigrazioni massicce in seguito ai grandi pogrom della Russia zarista.

Dal 1882 al 1917 arrivarono in Palestina 50.000 ebrei. Poi tra le due guerre vi giunsero gli immigrati polacchi e quelli del Maghreb per sfuggire alle persecuzioni. Ma la massa più considerevole si mosse dalla Germania a causa dell’ignobile antisemitismo di Hitler. Circa 400.000 ebrei arrivarono così in Palestina prima del 1945. Nel 1947, alla vigilia della creazione dello Stato d’Israele, c’erano 600.000 ebrei su una popolazione totale di 1 milione 250 mila abitanti. Fu allora che cominciò lo sradicamento metodico dei palestinesi. Prima della guerra del 1948 circa 650.000 arabi abitavano nei territori che stavano per diventare lo Stato d’Israele. Nel 1949 ne restavano 160.000. A causa di una forte natalità i loro discendenti erano 450.000 alla fine del 1970: la Lega dei diritti dell’uomo d’Israele rivela che dall’11 giugno 1967 al 15 novembre 1969 più di 20.000 case arabe furono fatte saltare con la dinamite in Israele e in Cisgiordania.

Secondo il censimento inglese del 31 dicembre 1922 c’erano in Palestina 757.000 abitanti di cui 663.000 arabi (590.000 arabi musulmani e 73.000 arabi cristiani) e 83.000 ebrei (cioè: l’88% di arabi e 1’11% di ebrei). Conviene ricordare che questo preteso “deserto” era esportatore di cereali e di agrumi.

Nel 1891 un sionista della prima ora, Asher Guinsberg, (che scriveva con lo pseudonimo Ahad Ha’am (Uno del popolo), visitando la Palestina riferì: “All’estero siamo abituati a credere che Eretz-Israel è oggi semi-desertica, un deserto senza culture, e che chiunque desideri acquisire delle terre possa venire qui e impossessarsi di tutte quelle che desidera. Ma in realtà non è vero niente. Su tutta l’estensione del paese è difficile trovare campi che non siano coltivati. I soli angoli incolti sono i campi di sabbia e le montagne di pietra, dove non possono crescere che alberi da frutto e solo dopo una dura fatica e un lungo lavoro di pulizia e di recupero“.

Fonte: Ahad Ha’am, Opere complete (in ebraico), Tel Aviv, Devir Pubi. House, ottava edizione, p. 23

.

In realtà, prima dei sionisti, i “beduini”, di fatto coltivatori di cereali, esportavano 30.000 tonnellate di grano all’anno. La superficie dei frutteti arabi triplicò dal 1921 al 1942, quella degli aranceti e degli altri agrumeti risultò moltiplicata per sette tra il 1922 e il 1947, la produzione complessiva decuplicò tra il 1922 e il 1938.

Per non considerare che l’esempio degli agrumi, il Rapporto Peel, presentato al parlamento inglese dal segretario di Stato per le colonie nel luglio 1937, basandosi sul rapido incremento degli aranceti in Palestina, stimava che riguardo ai 30 milioni di cassette di arance invernali con cui sarebbe aumentato il consumo mondiale nei dieci anni seguenti, i paesi produttori ed esportatori sarebbero stati i seguenti: Palestina: 15 milioni. Stati Uniti: 7 milioni. Spagna: 5 milioni, altri paesi (Cipro, Egitto, Algeria, ecc.): 3 milioni.

Fonte: Rapporto Peel, capitolo 8, § 19, p. 214

.

Secondo uno studio del dipartimento di Stato americano, consegnato il 20 marzo a una commissione del Congresso, “più di duecentomila israeliani sono attualmente insediati nei territori occupati (Golan e Gerusalemme-Est compresi). Essi costituiscono “approssimativamente” il 13% della popolazione totale di questi territori“.

Circa 90.000 tra essi risiedono nelle 150 colonie della Cisgiordania, “dove le autorità israeliane dispongono della quasi metà delle terre“.

A Gerusalemme-Est e nei sobborghi arabi che dipendono dal municipio continua il dipartimento di Stato quasi 120.000 israeliani sono insediati in circa dodici quartieri. Nella striscia di Gaza, dove lo Stato ebraico ha confiscato il trenta per cento di un territorio già sovrappopolato, 3.000 israeliani risiedono in una quindicina di insediamenti. Sull’altopiano del Golan ve ne sono 12.000, ripartiti in una trentina di località“.

Fonte: “Le Monde”, 18 aprile 1993

Il più diffuso quotidiano israeliano, “Yedioth Aharonoth”, scriveva: “Dopo gli anni Settanta non c’è più stato un simile sviluppo dell’edilizia nei territori. Ariel Sharon (il Ministro degli alloggiamenti) è febbrilmente occupato a stabilire nuovi insediamenti, ad ampliare quelli già esistenti, a costruire strade e a preparare nuovi terreni edificabili“.

Fonte: “Le Monde”, 18 aprile 1991

.

(Ricordiamo che Ariel Sharon fu il generale che comandò l’invasione del Libano e che armò le milizie falangiste che eseguirono i pogrom dei campi palestinesi di Sabra e Chatila: Sharon chiuse un occhio su quelle azioni e ne fu complice, come rivelò anche la commissione israeliana incaricata dell’inchiesta sui massacri).

Il mantenimento di quelle colonie ebraiche nei territori occupati, la loro protezione da parte dell’esercito israeliano e l’armamento dei coloni (come d’altra parte quello degli avventurieri del Far West in America) rende illusoria ogni vera “autonomia” dei palestinesi e rende impossibile la pace fin tanto che sussista un’occupazione di fatto.

Il principale sforzo di colonizzazione avviene a Gerusalemme, con lo scopo dichiarato di rendere irreversibile la decisione di annettere la totalità della città, tuttavia unanimemente condannata dalle Nazioni Unite (e anche dagli Stati Uniti!).

Gli insediamenti coloniali nei territori occupati rappresentano una violazione flagrante delle leggi internazionali e in particolar modo della Convenzione di Ginevra del 12 agosto 1949, che stabilisce: “La potenza occupante non potrà procedere al trasferimento di una parte della propria popolazione civile nel territorio da essa occupato”. Nemmeno Hitler aveva infranto questa legge internazionale: egli non ha mai installato colonie civili tedesche su terre da cui fossero stati scacciati i contadini francesi.

Il pretesto della “sicurezza”, come quello del “terrorismo” dell’Intifada, è ridicolo. A questo riguardo le cifre sono eloquenti: “1.116 palestinesi sono stati uccisi dal 9 dicembre 1987, data d’inizio dell’Intifada (la rivolta dei sassi), dai colpi di fucile dei militari, della polizia e dei coloni. 626 nel 1988-89, 134 nel 1990, 93 nel 1991, 108 nel 1992 e 155 dal primo gennaio all’11 settembre 1993. Tra le vittime figurano 233 ragazzi di età inferiore ai diciassette anni, secondo uno studio condotto dalla Betselem, l’associazione israeliana dei diritti dell’uomo. Secondo fonti militari sono circa ventimila i palestinesi feriti, ma l’Ufficio delle Nazioni Unite per l’aiuto ai rifugiati palestinesi (UNRWA) ritiene che siano novantamila.

“Trentatré soldati israeliani sono stati uccisi dal 9 dicembre 1987, ovvero 4 nel 1988, 4 nel 1989, 1 nel 1990, 2 nel 1991, 11 nel 1992 e 11 nel 1993. Quaranta civili, per la maggior parte coloni, sono stati uccisi nei territori occupati, secondo una stima dell’esercito.

“Le organizzazioni umanitarie sostengono che nel 1993 quindicimila palestinesi si trovano nelle prigioni dell’amministrazione penitenziaria e nei centri di detenzione dell’esercito.

“Dodici palestinesi sono morti nelle prigioni israeliane dall’inizio dell’Intifada, alcuni in circostanze non ancora chiarite, assicura la Betselem. Questa organizzazione umanitaria rivela inoltre che almeno ventimila detenuti sono torturati ogni anno nei centri di detenzione militare, nel corso degli interrogatori”.

Fonte: “Le Monde”, 12 settembre 1993

.

Tante violazioni della legge internazionale, considerata come carta straccia, dipendono, come scrive il professor Israel Shahak, dal fatto che: “queste colonie, per la loro stessa natura, s’inseriscono in un sistema di spoliazione, di discriminazione e di apartheid” .

Fonte: Israel Shahak, Le racisme de l’État d’Israel, p. 263

.

Ecco la testimonianza di questo autore sull’idolatria che consiste nel sostituire al Dio di Israele lo Stato di Israele.

Io sono un ebreo che vive in Israele. Mi considero un cittadino rispettoso della legge. Presto servizio nell’esercito ogni anno, benché abbia più di quaranta anni. Ma non sono “devoto” allo Stato di Israele o a qualche altro Stato od organizzazione! Sono legato ai miei ideali. Credo che bisogna dire la verità e fare ciò che è necessario per salvare la giustizia e l’eguaglianza per tutti. Sono legato alla lingua e alla poesia ebraiche e mi piace pensare che rispetto umilmente alcuni dei valori dei nostri antichi profeti.

“Ma dedicarsi al culto dello Stato! Mi immagino Amos o Isaia se si fosse chiesto loro di “votarsi” al culto del reame di Israele o di Giudea!

“Gli ebrei credono, e dicono tre volte al giorno, che un ebreo deve essere votato a Dio e a Dio soltanto: “Tu amerai Jahvè, tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta la tua anima, e con tutte le tue forze” (Deuteronomio, VI, 5). Una piccola minoranza ci crede ancora. Ma a me sembra che la maggioranza della popolazione abbia perso il suo Dio e l’abbia sostituito con un idolo, esattamente come quando gli ebrei adoravano l’agnello d’oro tanto da dare tutto il loro oro per innalzargli una statua. Il nome del loro idolo moderno è: Stato d’Israele“.

Fonte: Op. cìt., p. 93

.

*Tratto da: R. Garaudy. “I miti fondatori della politica israeliana”.

Writer : shervin | 0 Comments | Category : Attualità, politica e società

Comments are closed.