“Non fermatemi…vado verso il giorno”
il racconto di un musulmano italiano
a cura di Hamza Biondo
Il percorso spirituale di un uomo ha poco a che fare con la geometria, dove una proprietà della retta è di essere la linea più breve tra due punti. Il percorso di un uomo non risponde a regole o cliché, è originale, bizzarro, spesso tortuoso, apparentemente illogico, caratterizzato da incertezze e da tempi dilatati . E’ come il destino, ognuno ha il proprio. Simile ad una partita a Monopoli, ti capita di star fermo un giro, tornare al punto di partenza, perdere tutto con un tiro di dadi. L’avversario della partita è molto agguerrito, ci si confronta con sé stessi, con le debolezze del proprio animo, la superbia e le insicurezze, la parte di noi oscura e irrigidita. Facili entusiasmi possono lasciare il passo a periodi di apatia o avvilimento. Nel “cammino” gli incontri sono determinanti, mai casuali, ognuno ha un significato, spesso lo si comprende dopo. Nel fitto reticolo dell’esistenza, cogliere le opportunità di arricchimento interiore è fondamentale. Così la scelta dei “compagni di cordata” e anche saper riconoscere falsi guru e sentieri ciechi. Riassumere questo in poche pagine non è semplice, è un’esperienza intima, non facile da condividere. Salman Marrazza con coraggio ci ha provato e ha messo su carta il proprio viaggio alla ricerca del vero Islam. La sua testimonianza è ricca di esperienze umane generose, forse intellettualmente dispersive, a volte confusionarie, così come può essere la storia di un uomo che cerca il bene. Chi scrive non è qualificato ad esprimere un giudizio. D’altronde, le conversioni raramente sono istantanee, non capitano come a Paolo sulla via di Damasco, occorre del tempo perché le cose si sedimentino e per il nuovo fedele il percorso è spesso travagliato. La rivelazione contenuta nel Corano Benedetto, è il sigillo, il completamento dell’Ebraismo e del Cristianesimo. Si parla di “ritorno” all’Islam perché il credente torna alla religione primigenia, nella quale è nato, e dalla quale era stato allontanato da eventi contingenti. Il percorso non è abiura, ed anche il termine “conversione” non è adatto, potrebbe richiamare un significato latente di forzatura. La parola adeguata per questo dono di Iddio potrebbe essere ri-nascita, Salman lo comprende e con felice intuizione lo definisce “Il sentiero del giorno”. Il racconto di Salman non è un tema idoneo per uno storytelling stereotipato, ma è comunque una vicenda con una valenza non esclusivamente soggettiva, la sua narrazione si intreccia con l’inquietudine del Novecento, il secolo breve, in cui le dottrine sociali entrano in crisi e collassano. La sua generazione è nata dopo la seconda guerra, sono coloro che nel ’68 si divisero tra le università e le piazze. Ci fu chi scelse la lotta armata o il viaggio in India, il lavoro in fabbrica o le droghe, altri si fecero strada nelle mille pieghe del sistema che sognavano di abbattere e di cui invece divennero i più entusiasti sostenitori. Salman comprende che non saranno le ideologie a salvare il mondo, le rivoluzioni sempre rinviate, i velleitarismi matti, i conformismi rassicuranti. Lascia l’impegno politico, smette di interrogare il proprio tempo, e rivolge la propria attenzione verso l’ Eterno, inizia la sua “andatura del cuore”. In quel periodo la conoscenza della dottrina islamica in Italia era ancora frammentaria, la comunicazione web non esisteva ancora, e in questo Salman può ritenersi fortunato, gli sono stati risparmiati i blog, i social media, milioni di siti specializzati in tuttologia. Anche allora non era una scelta facile, occorreva fare i conti con le convezioni sociali e familiari, con l’identità stessa dell’occidente, orientarsi in una società desacralizzata, dove le sedi delle banche sono più frequentate delle chiese.
Un incontro, apparentemente “casuale”, in una libreria specializzata in testi islamici, con un esponente della comunità sciita italiana, gli offre una indicazione fondamentale, è un crocevia nel suo sentiero spirituale. Salman scopre così una vena preziosa negli scritti dei sapienti sciiti e nella dottrina dell’Imamato, si commuove leggendo il Nahjul Balagha. La recitazione del Corano gli dischiude il cuore.
La sua “cerca” lo conduce verso la comunità musulmana sciita, da decenni radicata nel nostro paese. Partecipa alle celebrazioni religiose, incontra i credenti e rinsalda rapporti umani, si sente finalmente a casa. Pronuncia la shahada di fede e “torna” all’Islam adottando il nome di Salman, un uomo di origine zoroastriana che, avendo sentito gli echi della Rivelazione, dopo molte peripezie, raggiunge in Hijaz il Profeta Muhammad (saaws) e si converte all’ Islam.
Ma adesso cediamo il passo alla testimonianza, ben più significativa, di Salman Marrazza, aggiungendo solo una doverosa postilla.
Un male accompagnava da anni il nostro fratello, ma stavolta non era un disagio spirituale, la lotta era su un piano fisico, contro la malattia. Per anni, il suo percorso di cura, non gli ha impedito di partecipare ai riti e frequentare la nostra comunità islamica. Durante i pasti lo vedevamo alle prese con pillole e preparati medicinali, ci confidava che alla medicina allopatica, affiancava anche terapie naturali e, a suo dire, ne traeva sollievo. Come era suo carattere, non smetteva di indagare e sperimentare, non si è mai arreso. Accompagnato dalla sofferenza, ha continuato ad occuparsi dei suoi cari, praticare l’Islam, esercitare la professione di docente e studiare fino all’ultimo. E’ deceduto nel 2006. La morte lo ha colto vivo.
Sulla Via di Dio
di Salman Marrazza
Tentare di dire come sono giunto all’Islam comporterebbe una sorta di autobiografia: partirò da uno dei più significativi momenti del mio lungo cammino lungo il Sentiero del Giorno (così mi piace chiamare la mia vita alla ricerca della Verità e della Luce). Una notte della tarda primavera del ’69, reduce da una manifestazione milanese per la liberazione di uno studente arrestato a Pisa dalla polizia, mentre mi sembrava di essere in preda a una violenta febbre che credevo procuratami dalla tanta pioggia presa per via, sentii una voce ripetermi per parecchie ore: “Che cosa vai cercando fuori? Io sono già qui, dentro di te!“. Era una sorta di locuzione interiore, che non suonava come proveniente dall’esterno, e che tuttavia aveva un suo tono proprio, come dato ad un altro (anche se ciò avveniva nel più intimo di me stesso). Senza che si presentasse nominalmente, avvertii con meridiana chiarezza – in contrasto con il buio della stanza – che era Gesù a parlarmi, e le sue parole aprivano in me la strada dell’incontro con Dio. Ritengo questo evento l’inizio della mia vera conversione religiosa: tutto quello che seguirà, pur con novità significative e anche esistenzialmente decisive, non eliminerà mai quella primordiale intuizione, ma costruirà sopra di essa l’edificio della mia vita spirituale.
Alle spalle avevo una ribellione individualistico-estetizzante sotto il segno di Nietzsche e Gide, soprattutto; la rivelazione da un brano del “Critone” platonico che “Non vivere importa, ma vivere bene“; il risvegliarsi della problematica religiosa tramite Kierkegaard, Bardiajev e Simone Weil, e in particolare l’incontro con il clima monastico attraverso la “Montagna delle sette balze” di Thomas Merton e “Per strada” di Huysman, il rifiuto dell’alienazione del soggetto umano nella società capitalistica e un conseguente progressivo consenso alle tesi del marxismo-leninismo rivoluzionario; il primato, che appresi in Gentile, del pensiero pensante sul pensiero pensato, cioè del pensiero nel suo porsi sorgivo originario, sempre oltrepassante le sue produzioni “pensate”; la lezione della fenomenologia di Husserl sulla esigenza di una radicale e rigorosa ricerca fondativa del “senso”, a partire dalla esperienza precategoriale (spontanea, precedente ogni sistemazione razionalmente “pensata”) del “mondo della vita” (lebenswelt) e dalla specifica intenzionalità fungente di ogni soggetto (il referente fu Enzo Paci sia come docente universitario che autore dell’opera “Funzione delle scienze e significato dell’uomo“, dove tenta di “fondare” il marxismo con la fenomenologia). In una pagina di diario del 1966 annotai l’intuizione, che ebbi una sera d’inverno, della mia vita come consapevolezza vissuta nel segno della filosofia; gli eventi del ’68 contribuirono a potenziare al massimo gli stimoli intellettuali e “pratici” per una trasformazione della società in direzione del comunismo, verso la piena liberazione dell’uomo.
Il dolce e rasserenante presentarsi notturno di Gesù segnò l’inizio di un progressivo cambiamento, favorito anche dalla nuova strada che presero i miei studi e più generalmente la mia vita. Mi ero sposato nel 1970, a 25 anni, e il matrimonio mi generò l’esigenza di costruire una comunità autentica, realizzando ciò che avevo appreso da Husserl (annotai alcuni “progetti” sul retro di “Esperienza e giudizio“, quasi a porli sotto la tutela dell’amato maestro). La costante presenza di Dio, soprattutto a livello del “cuore”, m’indusse ad approfondire il cristianesimo cattolico, in cui ero stato formato; l’abbandono meditato del marxismo mi pose poi l’esigenza di una complessiva e integrale concezione della vita a cui riferirmi e in cui verificarmi. Negli anni ’70 e ’80 procedetti lungo un sentiero di ricerca sapienziale di cui puntualizzerò le principali direzioni. Cominciai a familiarizzarmi con i Padri della Chiesa e i grandi pensatori del Medioevo, non trascurando tuttavia i successivi sviluppi del pensiero cattolico: particolare cura dedicai alla spiritualità in genere e alla mistica, intesa come via d’unione a Dio, che cercavo esemplificata nella vita dei Santi. Tentai poi di inquadrare le strutture portanti della filosofia occidentale, allargando lo sguardo anche all’Oriente, sempre privilegiando l’aspetto sapienziale e le vie di realizzazione spirituale. Cercai poi dei supporti in autori che hanno tematizzato l’esperienza religiosa, come Jung e Eliade tra gli altri; lo stesso feci coi pensatori cosiddetti “tradizionalisti”: alludo a Guenon, Schuon, Titus Burckhardt, Coomaraswami, Evola, De Giorgio…Affrontai anche vari aspetti del mondo della tradizione come il pensiero dei popoli senza scrittura e la loro musica, il canto gregoriano, il simbolismo cristiano nella liturgia e nell’arte, l’alchimia, la numerologia e ogni altro settore di ricerca che la mia insaziabile sete di sapere mi dischiudeva si può dire ogni giorno e i cui guadagni mi sforzerò di sintetizzare.
Il problema della verità mi occupò sempre con particolare intensità teoretica e profonda risonanza interiore, anche solo a sentir pronunciare la parola “verità”, per cui passai parecchio tempo a cercare nei lessici e negli indici analitici dei grandi filosofi e teologi pensieri e espressioni che me ne mostrassero aspetti sempre più propri e fascinosi. Come viatico avevo un passo del “De Trinitare” di S. Agostino: “Non cercare di sapere cos’è la verità, perché immediatamente si interporranno la caligine delle immagini corporee e le nubi dei fantasmi e turberanno la limpida chiarezza, che al primo istante ha brillato al tuo sguardo, quando ti ho detto: VERITA’. Resta, se puoi, nella chiarezza iniziale di questo rapido fulgore che ti abbaglia, quando si dice: Verità“; e ancora: “Questo è buono, quello è buono. Sopprimi il questo e il quello e contempla il bene stesso, se puoi; allora vedrai Dio, che non riceva la sua bontà da un altro bene, ma è il Bene di ogni altro bene“. Fu comunque Husserl a ridestarmi il senso della verità come missione filosofica integralmente coinvolgente la mia vita, specialmente con le conferenze di Praga e di Vienna nella “Crisi delle scienze europee”. Di Husserl ritenni soprattutto: a) La centralità fondativa dell’esperienza precategoriale del “mondo della vita”, a cui si deve ricondurre ogni percorso teorico e “pratico”, pena il decadere nel funzionalismo oggettivizzante e cosalizzante b) La trascendentalità dell’esperienza del soggetto in base a una intenzionalità fungente che va accuratamente esplicitata c) L’esigenza di abituarsi a considerare le cose senza pregiudizi, nei modi così come si presentano, essendo il presentarsi un elemento costitutivo dell’essere d) L’appello a una comunità di uomini secondo un atteggiamento e una pratica di autenticità esistenziale, realizzando il “fare la verità” del Vangelo di Giovanni. Mi colpì la critica di Bachelard alla fenomenologia di Husserl, che nel suo voler ricondurre l’oggetto della pratica teorica all’esperienza originariamente vissuta del “mondo della vita” finirebbe per eliminare la differenza e lo scarto tra soggetto e oggetto in una sorta di immediatezza unificante che alla per fine “annulla” il sapere discorsivo e lo stesso oggetto pensante-contemplante, che si fa tutt’uno con l’oggetto contemplato. Mi ricordai dei molti brani di Plotino sull’intuizione intellettuale, dove il soggetto veggente diventa la visione stessa, e mi trovai all’interno del misticismo speculativo medioevale. Ciò che caratterizza l’esperienza mistica è un’unione con Dio che travalica i rapporti dell’immaginazione e del pensiero discorsivo, e addirittura della stessa intuizione intellettuale nella misura in cui dice “due” e non “uno”. Si trattava di mostrare come questa unione non comportasse una identità d’essenza annullante la differenza ontologica tra Dio e l’uomo: passai per questo in rassegna tutto il filone mistico medievale, con particolare attenzione a Scoto Eriugena, Eckhart, Taulero e Nicola Cusano. Ma fu Ruusbroec, con la sua “unione superessenziale” che mi permise di collegare polarmente la Trinità e la creazione all’unità inesprimibile di Dio (per approfondimenti rimando alle voci “Jean Ruusbroec” e “Introversion” del “Dict. de Spiritualité“, Beauchesne, Paris).
Indagate le strutture della vita mistica, restava da elaborare, almeno provvisoriamente, la soggiacente metafisica. Nell’intendere questo termine mi avvicinavo a René Guenon, ma a differenza di questi ritenevo che ci fosse una tradizione filosofica occidentale – quella della “Philosophia perennis” – atta a fornire quella rete categoriale la quale, se pur allude soltanto alla purezza metafisica (che in quanto tale si impone da sé, senza discorso), è tuttavia necessaria sul piano della manifestazione contingente, che pure ci compete e riguarda dappresso, quanto meno come scala per un più alto ascendere. Platone, il neoplatonismo antico e medioevale, i grandi pensatori del Rinascimento (Ficino, Pico e Campanella), Jacob Boehme e Silesio, i Platonici di Cambridge, Leibniz, Rosmini: ecco dei nomi atti più a indicare un cammino che a esaurirne le articolazioni. Dei contemporanei, oltre a Husserl, mi aprirono alla domanda metafisica Severino, Heidegger, Hartmann, in parte Carabellese, e anche Wittengstein (proprio con i suoi “divieti”). Arrivai a formulare una metafisica di chiara impronta neoplatonica, che rispondesse al problema del procedere dei molti all’uno, della loro differenza a livello di enti e della loro unità a livello dell’essere: se individuai in Proclo i vertici di questo percorso metafisico, fu in Damascio Diacono che provai la vertigine ontologica allo stato puro, mentre nella “Teosofia” di Rosmini ritrovai i nodi teoretici di fondo della speculazione occidentale. Allargai lo sguardo al pensiero orientale, scoprendo nelle “Upanisad” e nell'”Advaita-Vedanta” posizioni analoghe: tutto ciò mi diede una grande gioia, quasi che mi si formasse sotto gli occhi una sorta di unità trascendente dello spirito umano. La mia ricerca metafisica, più che sfociare in una sistematica elaborazione, si articolava in un movimento interiore dello spirito, costituendone la vita più intima.
Nella vita religiosa gli ostacoli non mancarono. Osservavo le pratiche stabilite dalla Chiesa, perché ho sempre ritenuto che ci debba essere una base esteriore a ogni approfondimento interiore: senza “lettera”, niente “spirito”! Ma il cosiddetto “Rinnovamento post-conciliare” metteva in crisi, giorno dopo giorno, molte credenze e quasi tutte le pratiche religiose in cui ero stato educato, e che costituivano per me il riferimento prima per una vita cattolica; particolare disagio mi arrecò il nuovo rito della Messa, che mi sembrò un vero e proprio assassinio liturgico. Ma era tutta l’atmosfera ecclesiale a ferirmi e spesso disgustarmi: in poche parole, l’uomo veniva a prendere il posto di Dio! Un uomo dimezzato, ovviamente, visto quasi esclusivamente con le lenti della psicologia e della sociologia: il primato di una metafisica dell’intelligenza, proclamato dal tomismo e almeno ufficialmente privilegiato dall’autorità ecclesiastica, veniva sempre più messo da parte per lasciare il posto alle nuove fondazioni metodologiche, psico-sociologiche, ermeneutiche e simili, sempre in cammino senza mai pervenire alla meta! Sono invece fermamente convinto che il viaggio originario è già compiuto, nel senso che a un certo livello tutto è già da sempre; ma questo “essere-già da sempre” comporta anche l’apparire dell’evento che ci tange e coinvolge. C’è un piano primordiale indipendente dal tempo e dalla storia, che anzi ne è il supporto e insieme la liberazione; il ritrovare, grazie a S.H. Nasr e soprattutto a Henry Corbin, queste idee sviluppate nell’Islam Shiita mi spinse a interessarmi sempre più a fondo di questa religione. Per entrare nel vivo delle mie pratiche spirituali, seguivo le indicazioni dei mistici fiammingo-renani: distacco (Eckhart), abbandono (Tauler), introversione (Ruusbroec). Miravo a far “nascere” Dio nella mia anima, seguendo soprattutto i suggerimenti del “Sermone per le tre Messe di Natale” di Tauler. Una “sesshin” in un monastero zen mi fece scorgere nel non-attaccamento l’analogo del distacco-abbandono: illuminanti furono due testi di Trevor Liggett, purtroppo mal tradotti. Passavo ogni anno circa due mesi presso monasteri ed eremi: non è che vi trovassi spesso persone capaci di guida spirituale, ma molto mi giovava l’atmosfera prodotta dalla vita regolare e dal canto gregoriano, nonché la bellezza del paesaggio.
L’incontro con l’Ortodossia fu originato dalla entusiasmante lettura dei “Racconti di un pellegrino russo“, cui seguì quella della “Filocalia“, di Simeone il Nuovo Teologo, di Palamas e d’altri autori, soprattutto russi: la spiritualità dell’esicasmo e la pratica della preghiera di Gesù mi fecero capire l’importanza per la vita spirituale del corpo, anche in una prospettiva cristiana. Non vidi mai l’esicasmo in opposizione alla mistica dell’Occidente medievale, ma piuttosto come due vie complementari: se nella sequela di Eckhart e Tauler il distacco comporta l’uscire da se stessi perché Dio possa entrare (“nascere”) nel nostro “vuoto” (cioè nell’essenza di ogni attaccamento esterno e interno), nell’esicasmo il nome di Gesù – continuamente ripetuto – discende dalla mente al cuore.
La preghiera di Gesù, la salmodia, la meditazione “cordiale” delle Scritture erano gli strumenti principali della mia ascesi; cecravo di dipendere il meno possibile da condizionamenti esterni, spesso applicando il rosminiano “principio di passività”. Nella vita mondana, al di là del mio lavoro di insegnante, cercai a lungo una sistemazione concreta che permettesse alla famiglia di vivere in modo alternativo rispetto alle diaboliche strutture della società in cui vivevamo, ma per vari motivi fallii in questo intento, anche per la mancanza di fiducia di mia moglie per ciò che fosse veramente possibile e, soprattutto, augurabile per i nostri due figli. Vissi comunque anni che ricordo con diletto, occupato in studi, avventure spirituali, escursioni, viaggi spiritualmente significativi: visto da oggi, questo periodo mi sembra evidenziare una tendenza all’evasione, ma forse fu solo un modo per non lasciarsi stritolare.
Dalla metà degli anni ’80, cominciò a prender corpo in me una crisi sempre più generale, a partire dalla mia partecipazione alla vita ecclesiale e familiare. Ciò che avveniva nella Chiesa, con mio grave turbamento, fu dapprima da me accettato come una prova e una occasione per praticare il distacco e la non-considerazione. Ma venne il tempo in cui mi si impose di ricercare il perché della realtà che mi feriva, stimolato anche dalla frequentazione dei cattolici tradizionalisti seguaci di mons. Lefebvre. Una cosa mi colpì in loro: individuavano nella chiesa post-conciliare – quasi sempre corrispondente al vero – deviazioni e mutamenti decisivi rispetto al passato anche prossimo, ma senza individuarne le cause, tutto attribuendo a un “colpo maestro di Satana” tramite la massoneria, ebrei, democrazia, comunismo e affini. Ma io restavo insoddisfatto e mi chiedevo: come può accadere tutto questo? Mi resi conto che non si poteva rimproverare alla Chiesa che si comportasse in modo contraddittorio rispetto al passato, perché spesso nella sua storia aveva messo in atto innovazioni e cambiamenti, anche in modo radicale e deciso: si pensi alla introduzione del “Filioque” nel “Credo“, riguardo alla processione dello Spirito Santo, all’abolizione del Rito Mozarabico in Spagna, al dover uniformarsi delle tradizioni delle Chiese locali al centralismo romano, sempre più esercitante un primato magisteriale e burocratico. Mi consolavo pensando che almeno l’Ortodossia manteneva le sue tradizioni, ma mi ricordai del dramma dell’arciprete Avakkum e dei Vecchi Credenti in Russia. Giunsi a questa conclusione: la Chiesa poteva decidere cambiamenti che quand’anche non tocchino la sostanza dei dogmi, producono tuttavia gravi differenze e/o alterazioni nella pratica religiosa e nella vita di fede. Capii che questo avveniva perché, a differenza del Giudaismo e dell’Islam, il Cristianesimo mancava di una “Legge” (si pensi alla polemica eliminatoria di s. Paolo e di tanti Padri della Chiesa contro il giudeo-cristianesimo).
Gesù aveva portato una nuova Legge o si era limitato a rettificare quella di Mosé, come afferma esplicitamente il Vangelo di Matteo? Propendo oggi per ques’ultima soluzioni, senza dargli però un senso restrittivo: la rettificazione di Gesù comportava un profondo cambiamento della pratica legale di Israele, e per questo fu perseguitato e condannato a morte. La “nuova Legge” di cui parla Paolo consiste di fatto in ciò che decide la Chiesa sotto l’assistenza dello Spirito Santo, in modo definitivo a livello di dogmi, sempre riformabile per il resto. Cosicché, di fronte a presunte nuove esigenze del contesto storico-sociale, è legittimo introdurre cambiamenti che finiscono per compromettere la fedeltà alla Tradizione, addirittura snaturandone il concetto stesso: è il primato della libertà dell’individuo sull’ordine metafisicamente “oggettivo” dell’essere e dell’intelligenza, cui la volontà deve adeguarsi, pena un generale sovvertimento.
Conseguenze ancor più gravi avvengono al livello della vita spirituale: mancando una Legge protettiva, si perde ogni dimensione esoterica, per cui tutto è messo alla luce secondo le istanze del momento e gli umori del singolo, mancando una scuola tradizionale che educhi secondo le capacità e il compito di ogni individuo. Le Scritture sono anatomizzate da storici e filologi, oppure fruite non a partire da una tradizione spirituale che forma una catena tra maestro e discepolo, ma dal gusto e dalla sensibilità spirituale del singolo interprete: questo spiega lo iato creatosi nel Cattolicesimo tra i gruppi spirituali e mistici e le strutture dell’istituzione. In Oriente, almeno in ambito monastico, si può parlare di continuità più o meno viva di una tradizione, ma mi chiedo: ha davvero un fondamento inattaccabile? In nome di che cosa ci si può opporre a uno o più Patriarchi se decidono, magari con l’appoggio del potere politico, in introdurre palesi innovazioni? Si può certo invocare la “tradizione”, ma non la “legge” del Fondatore; per esempio, è impossibile ricorrere a Gesù per difendere il mantenimento della Messa Tridentina, o le antiche norme sul digiuno. Di fronte a questi dati che mi suonavano incontrovertibili, mi diedi a uno studio ancora più attento dei fondamenti delle più importanti tradizioni religiose.
Nel frattempo anche in famiglia cominciò una grave crisi: da una parte i miei familiari tendevano sempre più a conformarsi a costumi, pratiche e attese della società consumistica e senza Dio; dall’altra io stesso mi sentivo sempre più compresso nel pur marginale ruolo sociale che ricoprivo. Cominciai a pensare di “ritirarmi” dal mondo, magari a custodire uno dei tanti santuari isolati che lo richiedevano, per portare avanti una proposta spirituale rivolta anche a pochi, e che contribuisse a quella rettificazione generale della vita religiosa che mi sembrava sempre più ineludibile: proposi a mia moglie di trasferirci in un luogo che fosse compatibile con le esigenze di studio dei nostri figli, ma mi disse chiaramente che non se la sentiva. La convivenza in casa creava intanto sempre nuovi motivi d’attrito per cui decidemmo che avrei tentato una esperienza di vita eremitica col consenso dei miei, una volta terminati gli studi universitari del mio primogenito. Fui confermato anche dai consigli di autorevoli guide spirituali a verificare se questa era davvero la volontà di Dio nei miei riguardi.
La situazione in cui mi trovavo mi obbligava comunque a interrogarmi sulla mia adesione personale a dogmi e credenze del cattolicesimo: un’occasione mi fu fornita da un parroco che mi ospitò qualche giorno, il quale mi attribuì tendenze nestoriane e miranti in ogni caso a minimizzare l’umanità di Gesù in quanto Dio. Mi misi a fare ricerche e studi specialistici, e toccai con mano che la divinità di Gesù non è affatto scontata nei primi secoli del cristianesimo, e comunque non viene intesa nel senso che poi gli diede la teologia dei Padri greci; lo stesso dicasi del dogma trinitario.
Cominciarono allora a riemergere sempre più esplicitamente le rimosse perplessità sulla adorazione della umanità di Gesù; in ogni caso, avevo sempre ritenuto che essa fosse solo un tramite alla divinità, al mistero del Dio Uno-Trino. Ma Gesù uomo era veramente anche Dio? Certo io l’ho creduto, ma forse non con assenso totale: a voler esser precisi, ho sempre ritenuto che nell’uomo Gesù fosse presente in modo particolare e misterioso la divinità, ma non sono mai riuscito a vivere appieno il dogma di Calcedonia. Pregavo Gesù chiamandolo “Signore” e “Figlio di Dio”, ma non in senso proprio: pensavo alla sua nascita miracolosa per opera dello Spirito di Dio, ma mi era difficile accettare che il Verbo, in quanto parola di Dio, potesse farsi carne (Giovanni I); piuttosto era la Parola di Dio – o lo Spirito – non ad incarnarsi, ma a far nascere nella carne Gesù. In verità il dogma distingue la natura umana da quella divina, ma la proposta unità nella persona divina di Gesù mi suonava sempre più problematica. Aumentavano anche le difficoltà sempre incontrate nel dire che Maria è la “madre di Dio”; il ruolo svolto da Lei nella mia vita spirituale è bene espresso nella prima parte – quella evangelica – dalla “Salutazione angelica”, mentre la secondaria aggiunta medievale mi sembrò sempre un po’ forzata e inferiore di tono. Ma ancor più importante fu il prender coscienza che quando pregavo, pregavo soltanto UN Dio, spesso con la mediazione di Gesù; mai lo Spirito Santo come persona distinta, ma solo come “Spirito” dell’Unico Dio. La mia fede nel mistero trinitario cominciò a vacillare: mi accorsi che la Trinità era per me un obbligo mentale (così dice il dogma, dunque il lo proclamo!), e sempre più mi apparve come un modello teologico per render ragione di alcuni dati scritturistici e della tradizione, trasformatosi poi in dogma. La Trinità è strettamente connessa all’Incarnazione e al mistero della Croce: qui dovetti sempre ricorrere a interpretazioni “spirituali” per accettare che dovessi “bere” dalle piaghe del Crocifisso quel sangue che era la mia salvezza. Sentir parlare di un “Dio crocifisso” mi dava un forte fastidio, che diventava disgusto e nausea quando incontravo certe realistiche raffigurazioni della Passione, talvolta ai limiti dell’osceno. Sono proprio questi “segni” di una sempre più accentuata umanizzazione di Dio che hanno portato nell’ambito cristiano alla estinzione dell’aspetto esoterico, che solo garantisce l’autentica vita spirituale.
Le mie riflessioni critiche sui dogmi e la connessa vita spirituale si sono incontrate, negli ultimi anni, con le mie ricerche sull’Islam, cominciate negli anni attorno alla rivoluzione in Iran sotto la guida di Henry Corbin, un grande maestro verso cui provo una vera gratitudine: nonostante i limiti e la discutibilità di certe sue impostazioni, nessun studioso occidentale ha affrontato con tanta perizia e simpatia il mondo spirituale islamico, soprattutto shiita. Lessi poi le opere di S.H. Nasr, limpide per lo stile e la chiarezza espositiva, e quelle di altri autori occidentali: andai alla caccia, ovviamente, di versioni di classici del pensiero musulmano. Ma protagonista del mio approccio all’Islam fu la lettura in traduzione del Nobile e Sublime Corano: restai folgorato dalla bellezza e vivacità delle immagini, dalla misteriosamente allusiva profondità delle idee, dal tono generale di autentica e immediata rivelazione di Dio. Abbandonai presto il dubbio che tale Libro fosse frutto di una immagine esaltata e di un’abile finzione letteraria, trovando consensi anche presso certi islamologi cristiani come il gesuita Caspar. Entrai in contatto, per informazioni, con alcuni sunniti; li trovai di fede sincera, ma di un orizzonte intellettuale piuttosto limitato e con parecchi pregiudizi nel considerare l’immenso e multiforme patrimonio dell’Islam. Ebbi anche un fecondo colloquio con un sufi di ascendenza guenoniana, che mi raccomandò di restare cattolico e di non farmi musulmano, per non uscire dalla tradizione in cui ero cresciuto; il che non mi convinse molto, perché allora la realtà della conversione religiosa veniva in pratica cancellata. Aumentava sempre più dentro di me una prossimità spirituale con l’Islam, che credevo simile a quella che il monaco Henry Le Saux provò e concretamente visse per l’Induismo. Un amico sunnita mi diede istruzioni e testi per la preghiera rituale; una volta mi portò anche in moschea per la preghiera del pomeriggio, dicendomi poi che ero diventato musulmano, mentre la mia intenzione era solo quella di una partecipazione fraterna. A casa provai a recitare la Preghiera, spesso ricavandone dei benefici ma non riuscendo a trovare continuità di ritmo. Le letture di Corbin e Nasr mi orientavano verso gli Sciiti, quand’ecco mi capitò tra le mani il “Nahj al-Balagha” e andai in estasi: come era bello, eloquente, profondo, magistralmente efficace! (Ed era solo una traduzione parziale!). Vi ritrovai me stesso, la mia concezione del rapporto con Dio, l’idea di un “servitium” cavalleresco in una sete di combattimento e di sottomissione totale, per più salire e avvicinarmi a Dio. Recatomi in una libreria che pubblicava una rivista con articoli sullo shiismo per chiedere informazioni, la volontà di Dio fece sì che vi incontrassi uno dei più autorevoli e impegnati membri della comunità shiita in Italia, con cui feci presto amicizia. Grazie alla sua generosità, potei documentarmi con tante pubblicazioni di autori shiiti, trovandomi sempre più a casa mia. Partecipai poi alla festa dell’Imam ar-Rida e ultimamente a quella di Fatimah Zahra a Rimini. Cominciai a recitare regolarmente la Preghiera rituale e alcuni “du’à” in italiano e francese; iniziai a tradurre dal francese il “Du’à Kumayl“. Potevo a questo punto considerarmi musulmano? mi fu riferito che questo era il pensiero di qualche autorevole shiita che mi aveva conosciuto; comunque un illustre hojjatulislam mi consigliò di non aver fretta, e soprattutto di non sentirmi in colpa se incontravo ostacoli per via della mia formazione cristiana. Ma già nel ritorno in auto da Rimini mi sentivo musulmano, e i giorni seguenti consolidarono questa convinzione; desideroso di leggere nell’originale il Santo Corano e i classici dell’Islam, mi iscrissi a un corso di arabo che tuttora frequento con impegno di tutta la mia persona, per vincere con l’aiuto di Dio la mia insofferenza per le lingue.
A questo punto ritengo doverose alcune considerazioni personali sul mio approccio all’Islam. In esso vedo una religione integrale che abbraccia l’esistenza in tutti i suoi aspetti. A differenza del Cristianesimo, possiede una Legge; questa garantisce, come già dissi, la vitalità della dimensione esoterica, che è come la fonte, la polpa e il sigillo della vita spirituale. Essa inoltre permette di intervenire responsabilmente a livello sociale e individuale, rettificando il comportamento di singoli e gruppi, e soprattutto dirigendo la lotta per una società che abbia in Dio il suo Centro, il suo Garante e la sua Guida. Ho così deciso di conformarmi ai dettami islamici nella misura in cui li conosco e mi sono fatti conoscere da persone esperte: posso assicurare che ne ho ricevuto bene, gioia e pace dell’anima.
Particolarmente benefica mi riesce la pratica della Preghiera quotidiana: mai mi sono sentito così “essenziale” e vicino a Dio, teso in rettitudine e integrale sottomissione a realizzare la mia natura umana particolare, creata da Dio e a Lui chiamata. Grande è poi la luce che mi danno i versetti del Corano: nel loro insieme formano un immenso e luminoso oceano, su cui navigano le grandi figure dell’Islam. Sublimi sono i Detti del Profeta, ricchi di insegnamenti spirituali anche quando si riferiscono a umili fatti di vita quotidiana. Ma devo dire che la perla del mio cammino nell’Islam è la devozione ai Quattordici Puri (il Profeta, la figlia Fatimah, suo marito Alì e gli undici Imam suoi successori), in particolare l’Imam nascosto, l’Imam del Tempo. Qui sento battere il cuore dell’Islam, qui è la porta della vita spirituale fino alle più vertiginose profondità esoteriche; qui il legame mediatore con Dio, che con la “walayat” continua la guida della Sua comunità. In questa prospettiva il sigillo della Profezia non è un arresto, ma piuttosto il punto di partenza di un cammino di approfondimento e di integrale realizzazione. Purtroppo, oltre alle notizie contenute nelle pubblicazioni dei centri culturali sciiti, non è che esista molto sull’argomento nelle lingue occidentali. Fondamentali rimangono le opere di Corbin, sintetizzate nella “Storia della filosofia islamica“; assai utile è anche il lavoro di Amir-Moezzi, discutibile per molti aspetti, ma veramente prezioso perché alla traduzione francese allega in nota il testo arabo di numerose tradizioni attribuite agli Imam. Ma è nella magistrale Testi di dottorato di Christian Bonaud sulle opere filosofiche e spirituali dell’Imam Khomeyni che si trova a mio avviso il contributo unico alla conoscenza complessiva del patrimonio spirituale sciita: è un libro che andrebbe tradotto in italiano, o quanto meno fatto conoscere nei suoi punti fondamentali.
Una delle caratteristiche dell’Islam rispetto al Cristianesimo è l’ampio dominio riservato alla gnosi esoterica (l'”irfan“); nel mondo sunnita ciò invero trova spazio soltanto nel Sufismo, che supplisce – in modo per un certo verso simile a quello dei mistici della Chiesa – al blocco che l’ufficialità religiosa esercita verso ciò che compete alla gnosi. Nello sciismo duodecimano c’è invece il perfetto equilibrio tra l’aspetto exoterico della Legge e quello esoterico dell'”irfan“: se indispensabile è il supporto della Legge per una vera vita interiore, altrettanto si deve dire che grazie al tesoro dell'”irfan” la vita sociale di ogni musulmano è sempre vissuta in uno spirito d’intimo guidato ad avvicinarsi a Dio nella “Walayat“. Nell’Ismailismo invece, la squilibrata accentuazione dell’esoterismo e soprattutto la rottura della catena di successione dei Dodici Imam produce una disarmonia nella pratica globale dell’Islam. Personalmente trovo negli Imam delle Guide luminose ed efficaci, e ogni mattina leggo una preghiera d’impegno verso l’Imam nascosto: essi sono l’eredità lasciata dal Profeta alla sua comunità, e ci dirigono sia nei più semplici atti d’ogni giorno che nei viaggi nelle profondità gnostiche del cuore. Resto davvero sconcertato di fronte al rifiuto anche violento esercitato da molti sunniti verso la fede shiita nell’Imamato, e in genere verso le Tradizioni della Famiglia del Profeta: è come se amputassero una parte viva del corpo dell’Islam, e ciò senza motivo accettabile, anzi opponendosi alla volontà esplicita del Profeta! Personalmente ritengo che nel cammino che i Quattordici Puri indicano alla “Gente della Casa”, ci siano i presupposti, i contenuti e gli strumenti concreti di una perfetta realizzazione dell’uomo.
Prima di concludere è opportuno qualche chiarimento sulla mia posizione attuale verso il Cristianesimo. E’ nella mia schietta convinzione, sulla base di un’esperienza che certo deve ancora crescere, che niente di ciò è essenziale nella pratica cristiana di realizzazione spirituale vada perduto nell’Islam; in particolare, che la mistica dell’Unità della scuola fiammingo-renana trovi nei discepoli shiiti di Ibn al-Arabi e di Sohrawardi approfondimenti decisivi e ulteriori ampliamenti d’orizzonte. Non si può certo negare a Meister Eckhart d’aver espresso con mirabile concisione il “pathos” dell’Unità divina e dell’unificante processo di “ritorno” dell’uomo a Dio, al di là di ogni annullamento o dualità; ma è a quei pensatori musulmani che H. Corbin raggruppa sotto la denominazione di “teomonismo” – soprattutto ad Haydar Amoli – che va il merito d’aver dato il fondamento teorico pressoché definitivo e un organico sviluppo a quella corrente di pensiero che ha un riferimento imprescindibile nel neoplatonismo di Proclo e nei suoi successivi sviluppi e influssi. Le pagine di Corbin al riguardo sono a mio parere il più rigoroso e coraggioso tentativo di soluzione del problema dell’Uno e dei Molti, da sempre banco di prova per eccellenza dell’autentico pensiero metafisico. Se poi si rumina con la dovuta attenzione il già citato lavoro di C. Bonaud sul pensiero dell’Imam Khomeyni si vedrà come questa tradizione sia ben viva e operante ai nostri giorni, anche come fondamento dell’attività politica della guida della Rivoluzione in Iran (a conferma di quell’equilibrio tra exoterismo ed esoterismo che è una caratteristica costitutiva dello Sciismo duodecimano). Su questa base si potrebbe mostrare come le tesi principali dei mistici cristiani trovino un’adeguata sede e un ulteriore potenziamento, nei quadri della spiritualità islamica, soprattutto sciita. Lo stesso dicasi dell’Induismo: l’Advaita-Vedanta di Sankara si ritrova nella citata corrente teo-monista, più rispettosa della complessità dell’esistente, ma non meno rigorosa nell’affermare, al supremo livello, l’Unità dell’Essere. Tornando al Cristianesimo, credo sia opportuno presentare l’Islam non disperdendo le forze nella proposta nei meandri delle speculazioni teologiche, nelle sterili competizioni, ma evidenziandone quegli aspetti che soddisfano le esigenze spirituali delle pratiche cristiane; su ciò, comunque, dovrò per forza ritornare.
Mi ripeto infatti ogni giorno l’invito di Dio al Profeta a non lasciarsi turbare dal fatto che non esista un’unica comunità religiosa, ma di gareggiare nelle opere buone attendendo il Giorno rivelatore del Giudizio (Sura Al-Ma°ida, 48); così pure l’esortazione del Profeta ai Musulmani, irritati dal suono cristiano delle campane, a procedere a piccoli passi sino a trasformare quel suono nel dolce canto del muezzin.
Certo, se mi guardo indietro, individuo errori, rinvii, costanti disattese a mettere a frutto i doni ricevuti da Dio; anche mirando al domani, si accavallano problemi e concrete situazioni che vanno risolte, compiti che mi sembrano immani, e il pensiero dell’Ora sempre imminente a pungolarmi. Ma la grande e rasserenante forza che produce la testimonianza di fede disperde ogni nube, scioglie ogni incertezza, fuga ogni vile abulia: un recente colloquio romano con una grande autorità spirituale dell’Iran mi ha dischiuso delle prospettive per meglio conoscere l’Islam nella sua globalità, onde poter contribuire a una più efficace testimonianza nella mia amata Italia; ma tutto questo è veramente nelle mani di Dio, e mai come in questi giorni avverto chiaramente la mia umiltà e la pochezza delle forze rispetto a quanto mi è chiesto. Tuttavia se Iddio Clemente e Misericordioso mi ha chiamato, già maturo d’anni, sulla strada luminosa dell’Islam, a me non resta che sottomettermi integralmente alla Sua Volontà, operando secondo le mie forze ciò che mi sarà affidato come compito dalle Sue Guide illuminate.
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