Lo storico sionista israeliano Benny Morris sulla nascita di Israele
La rivista “Internazionale”, nel suo numero del 30/01/2004, con il titolo “Il peccato originale” ha pubblicato un’intervista shock con lo storico ebreo israeliano e ultrasionista Benny Morris, insegnante di Storia all’università israeliana “Ben Gurion” di Be’er Sheva, nella Palestina occupata.
Nella lunga intervista il noto storico israeliano ammette tranquillamente che gli invasori ebrei commisero massacri, stupri ed espulsioni forzate sulla popolazione autoctona araba onde permettere la nascita del cosiddetto “Stato d’Israele”, giustificando la pulizia etnica dei palestinesi perché “non si fa la frittata senza rompere le uova. Bisogna sporcarsi le mani”. Ne riproduciamo di seguito le parti a nostro giudizio più interessanti.
D: In Israele sta per uscire la nuova edizione del suo libro “The birth of the palestinian refugee problem, 1947-1949” (La nascita del problema dei rifugiati palestinesi, pubblicato nel 1988). Chi sarà più scontento: gli israeliani o i palestinesi?
R: Questa nuova edizione è un’arma a doppio taglio. Si fonda su molti documenti che non erano disponibili quando scrissi il libro e che provengono in maggioranza dagli archivi delle Idf (Forze Israeliane di Difesa, nome ufficiale delle forze armate israeliane). Che cosa è emerso da questi nuovi materiali? Che i massacri compiuti dagli israeliani furono molto più numerosi di quanto pensassi in precedenza. Con mia sorpresa, ci furono anche molti casi di stupro. Nell’aprile e maggio del 1948 unità della Haganah (movimento terroristico ebraico, N.d.R.) ricevettero ordini operativi in cui si affermava esplicitamente che dovevano cacciare gli abitanti dalle loro case e distruggere i villaggi. Al tempo stesso è emerso che l’Alto comitato arabo e i leader palestinesi diedero ordine di allontanare da alcuni villaggi bambini, donne e anziani. Quindi, da una parte il libro conferma le accuse rivolte contro i sionisti, ma dall’altra dimostra anche che molti palestinesi se ne andarono su sollecitazione della loro stessa leadership.
D: Nell’operazione Hiram (compiuta in Galilea nell’ottobre 1948) ci fu un ordine di espulsione esplicito e generalizzato?
R: Si. Una delle rivelazioni contenute nel mio libro è che, il 31 ottobre 1948, il comandante del fronte settentrionale, Moshe Carmel, emanò un ordine scritto in cui comandava alle sue unità di accelerare l’allontanamento della popolazione araba. Carmel intraprese quell’azione immediatamente dopo la visita di Ben-Gurion al comando settentrionale, di stanza a Nazareth. Per me non c’è alcun dubbio che quell’ordine provenisse proprio da Ben-Gurion. Analogamente, anche l’ordine di espulsione riguardante la cittadina di Lod, firmato a suo tempo da Yitzhak Rabin, era stato emanato immediatamente dopo la visita di Ben-Gurion al quartier generale dell’operazione Dani (luglio 1948).
D: Sta dicendo che Ben-Gurion fu personalmente responsabile di una politica deliberata e sistematica di espulsione di massa?
R: A partire dall’aprile del 1948 Ben-Gurion si orientò verso i trasferimenti forzati di popolazione. Non ci sono ordini espliciti di suo pugno, non esiste nessuna politica generalizzata e metodica, ma l’atmosfera era senz’altro quella. Insomma, l’idea dei trasferimenti era nell’aria, e tutta la leadership israeliana se n’era accorta. Gli ufficiali avevano capito che cosa gli stavano chiedendo. Sotto Ben-Gurion si creò un consenso attorno ai trasferimenti forzati.
D: Ben-Gurion era un fautore dei trasferimenti?
R: Si, Ben-Gurion sosteneva i trasferimenti forzati. Era convinto che non potesse esserci uno Stato ebraico che ospitasse al suo interno una minoranza araba numerosa e ostile. Uno Stato con queste caratteristiche non sarebbe potuto nascere ne esistere.
D: Lei non condanna Ben-Gurion?
R: Ben-Gurion aveva ragione. Se non avesse fatto quel che fece, Israele non sarebbe mai nato. Dev’essere chiaro: senza la cacciata dei palestinesi, in questa terra non sarebbe mai sorto uno Stato ebraico.
D: Da decenni lei studia il lato oscuro del sionismo. E’ un esperto delle atrocità del 1948. Ma in fin dei conti giustifica tutto questo? Difende i trasferimenti forzati?
R: Per gli stupri non c’è giustificazione e nemmeno per i massacri. Sono crimini di guerra. Ma le espulsioni, in determinate condizioni, non sono un crimine di guerra. Io non credo che le espulsioni del 1948 siano stati crimini di guerra. Non si fa la frittata senza rompere le uova. Bisogna sporcarsi le mani.
D: Ma stiamo parlando dell’uccisione di migliaia di persone, della distruzione di un’intera società.
R: Una società che vuole ucciderti ti costringe a distruggerla. Quando la scelta è fra distruggere ed essere distrutti, meglio distruggere.
D: I comandanti dell’operazione Dani (l’espulsione da Lod di circa 50 mila palestinesi cacciati verso est) commisero un’operazione di pulizia etnica.
R: Nella storia ci sono circostanze che giustificano la pulizia etnica. Nel linguaggio del ventunesimo secolo questo è un termine assolutamente negativo, ma quando la scelta è fra pulizia etnica e genocidio, cioè l’annientamento del popolo, preferisco la pulizia etnica.
D: E nel 1948 la situazione era quella?
R: Si il sionismo si trovò di fronte proprio a quella situazione. Lo Stato ebraico non sarebbe nato senza la cacciata di 700 mila palestinesi dalle terre che abitavano. Quindi non c’era altra scelta che espellerli. Era necessario ripulire l’entroterra, le zone di confine, le strade principali e i villaggi da dove si sparava contro i nostri convogli e i nostri insediamenti.
D: Il termine “ripulire” è tremendo.
R: Lo so, ma è il termine che usarono a quel tempo. Io l’ho preso dai documenti del 1948 che ho studiato.
D: Quel che lei sta dicendo è duro da digerire. A giudicare dalle sue parole, lei sembra non avere alcuna pietà.
R: Io provo simpatia per il popolo palestinese, che ha davvero vissuto una grande tragedia. Provo simpatia per gli stessi rifugiati. Ma se il desiderio di fondare uno Stato ebraico in questa terra è legittimo, non c’era altra scelta. Era impossibile permettere che nel Paese restasse una numerosa quinta colonna.
D: Quelle azioni non le pongono alcun problema morale?
R: No. Neanche la grande democrazia americana sarebbe potuta nascere senza l’annientamento degli indiani. Ci sono casi in cui il bene finale e generale giustifichi atti duri e crudeli commessi nel corso della storia.
D: Nel caso di Israele giustifica un trasferimento di popolazione.
R: Lo dice la storia.
D: E lei non ha obbiezioni? Accetta i crimini di guerra, i massacri, i campi dati alle fiamme e i villaggi ridotti in macerie durante la nakba (parola araba che significa “catastrofe”, usata dai palestinesi per designare la creazione del cosiddetto “Stato di Israele”)?
R: Bisogna tener conto delle proporzioni. Questi sono piccoli crimini di guerra: se sommiamo tutti i massacri e le esecuzioni del 1948, in totale furono uccise circa 800 persone. Nulla in confronto ai massacri compiuti in Bosnia, o a quelli commessi dai russi contro i tedeschi a Stalingrado. Se si pensa che qui c’è stata una sanguinosa guerra civile, e che noi abbiamo perso ben l’1 per cento della nostra popolazione, si può concludere che ci siamo comportati benissimo.
D: Lei ha fatto un percorso molto interessante: ha cominciato le sue ricerche criticando Ben-Gurion e l’establishment sionista, e alla fine si è identificato con loro.
R: Forse ha ragione. Ho studiato a fondo il conflitto e ho dovuto fare i conti con le questioni profonde che loro affrontarono. Ho capito i problemi della loro situazione e forse in parte ho adottato il loro universo concettuale. Però non m’identifico con Ben-Gurion. Penso che nel 1948 abbia compiuto un grave errore storico. Ben-Gurion aveva capito l’importanza della questione demografica e l’esigenza di fondare uno Stato ebraico senza una numerosa minoranza araba. Ma durante la guerra ha avuto paura. E alla fine ha vacillato.
D: Non sono certo di aver capito bene. Sta dicendo che Ben-Gurion ha sbagliato perché ha espulso troppi pochi arabi?
R: Se aveva già intrapreso le espulsioni, forse sarebbe dovuto andare fino in fondo. Lo so bene che questo scandalizzerà gli arabi, i liberal e i sostenitori del politically correct. Ma credo che il nostro Paese sarebbe più tranquillo e soffrirebbe di meno se la questione fosse stata risolta una volta per tutte, se Ben Gurion avesse effettuato espulsioni su vasta scala e avesse ripulito l’intero Paese, cioè tutta la terra d’Israele fino al Giordano. Questo forse è stato il suo errore fatale. Se avesse effettuato un’espulsione totale anziché parziale, lo Stato di Israele si sarebbe stabilizzato.
D: Oggi è favorevole al trasferimento dei palestinesi ?
R: Se si riferisce al trasferimento degli arabi dalla Cisgiordania, dalla Striscia di Gaza e forse anche dalla Galilea e dal triangolo (zona nel centro della Palestina occupata, abitata prevalentemente da palestinesi), rispondo di no, non in questo momento. Oggi non è un’opzione moralmente accettabile né realistica. Il mondo non lo permetterebbe, e neanche gli arabi. Questa scelta distruggerebbe la società israeliana dal suo interno. Ma in circostanze apocalittiche, che potrebbero verificarsi tra cinque o dieci anni, l’espulsione della popolazione palestinese sarebbe concepibile. Se ci trovassimo con delle armi atomiche puntate addosso, se ci fosse un attacco generalizzato dei paesi arabi o una guerra in cui gli arabi sparano dalle retrovie contro i nostri convogli diretti al fronte, allora l’espulsione sarebbe una scelta del tutto ragionevole. Potrebbe essere addirittura fondamentale.
D: L’espulsione riguarderebbe anche gli arabi israeliani?
R: Gli arabi israeliani sono una bomba a orologeria. Si sono “palestinizzati” e sono diventati un emissario del nemico fra noi, una potenziale quinta colonna. In termini sia demografici sia di sicurezza, minano lo stato dall’interno. Quindi, se Israele fosse minacciato nella sua stessa esistenza, come 1948, potrebbe essere costretto ad agire come fece allora. Se fossimo aggrediti dall’Egitto e dalla Siria, se sulle nostre città piovessero missili con testate chimiche e biologiche, e se al tempo stesso i palestinesi israeliani ci attaccassero alle spalle, si creerebbe una situazione che giustificherebbe l’espulsione. Se la minaccia rivolta a Israele riguardasse la sua esistenza, l’espulsione sarebbe giustificata.
D: Lei non solo è duro, ma sembra anche molto pessimista. Ma non è sempre stato cosi, vero?
R: La mia svolta è cominciata dopo il 2000. Per la verità, neanche prima ero tanto ottimista. E’ vero, ho sempre votato per il partito laburista o per il Meretz o lo Sheli (un partito dello schieramento meno estremista attivo alla fine degli anni settanta). Nel 1988 mi sono rifiutato di prestare servizio militare nei territori e per questo sono finito in prigione. Però sono sempre stato scettico sulle vere intenzioni dei palestinesi, e Camp David e gli eventi successivi hanno trasformato i miei dubbi in certezze. Quando i palestinesi hanno rifiutato la proposta del premier israeliano Ehud Barak nel luglio del 2000 (1), ho capito che non sono disposti ad accettare la soluzione “due popoli –due Stati”. Vogliono tutto: Lod, Akko e Giaffa.
D: Si definirebbe una persona apocalittica?
R: Tutto il progetto sionista è apocalittico: vive in un ambiente ostile e in un certo senso la sua esistenza è irragionevole. Non era ragionevole che andasse in porto nel 1881, o che avesse successo nel 1948 o perfino adesso. Eppure è arrivato fin qui. In un certo senso, è un miracolo. Si, penso ad Armageddon (la battaglia finale tra il Bene e il Male, N.d.R.). E’ possibile. Entro i prossimi vent’anni potrebbe esserci una guerra atomica in questa parte del mondo .
NOTE
1) Sulla reale portata della tanto decantata “generosa offerta di Ehud Barak” ai palestinesi si consiglia la lettura dei seguenti articoli: J. Cook “L’occupante meschino: smascherata la Camp David di Israele”: https://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=16605; A. Levy “Le generose proposte di pace di Barak. Miti e realtà”: https://frammentivocalimo.blogspot.com/2014/01/le-generose-proposte-di-pace-di-barak.html
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