Lo studio dell’Islam: l’opera di Henry Corbin
Hamid Algar
L’Orientalismo, ovvero lo studio presumibilmente scientifico della religione, della storia, della civiltà e della realtà dei popoli musulmani, è recentemente oggetto di attacchi crescenti e spesso giustificati. Una tradizione autoperpetuantesi prosperata in modo incestuoso, raramente aperta alla partecipazione di chiunque altro che non siano i musulmani più assimilati e “occidentalizzati”, ha fallito clamorosamente nel costruire una visione credibile e completa dell’Islam come religione o come civiltà, nonostante il vasto e meritorio lavoro compiuto nella scoperta e nell’accumulo di informazioni fattuali. In nessun campo la situazione è stata peggiore che nello studio orientalista della religione islamica. Non è esagerato affermare che la disparità tra l’Islam descritto dagli orientalisti e l’Islam noto ai musulmani per fede, esperienza e pratica è così radicale che sembrano due realtà diverse, opposte l’una all’altra o addirittura indipendenti. Le ragioni sono molteplici. Non si dovrebbe mai sottovalutare la persistenza dell’usuale animosità teologica giudaico-cristiana nei confronti dell’Islam. Ciò che probabilmente è più significativo è la riluttanza della quasi totalità degli studiosi ad accettare l’autonomia del “fatto” religioso e la loro insistenza sul riduzionismo storicista o sociologico.
Un’importante eccezione a questa regola è stato l’islamista francese Henry Corbin che, al momento della sua morte, avvenuta il 7 ottobre 1978, aveva elaborato un corpus di scritti ricco e variegato su vari aspetti della spiritualità islamica, senza pari rispetto a qualsiasi altro orientalista. Avendo sempre avuto l’Iran e lo Sciismo come punto di riferimento ultimo, Corbin scrisse prolificamente per più di tre decenni sul Sufismo, sulla filosofia islamica, sullo Sciismo Duodecimano e Ismailita, sul concetto di cavalleria spirituale nell’Islam e su una serie di altri argomenti correlati. In quasi ogni ambito in cui si cimentò, Corbin agì da pioniere e innovatore, mettendo in discussione alcune delle convinzioni più tenacemente sostenute dell’Orientalismo e svelando prospettive di pensiero e immaginazione che in precedenza erano sconosciute o sottovalutate. Oltre ai suoi lavori di analisi e sintesi (culminati nell’opera in quattro volumi En Islam iranien, 1971-72, una sintesi di tutti i suoi principali temi e interessi[1]), Corbin fondò e diresse la Bibliothèque Iranienne, una serie di testi persiani e arabi che vertono principalmente sulle correnti filosofiche e mistiche che gli stavano a cuore. Sono stati pubblicati ventitré volumi di questa serie[2], molti dei quali curati dallo stesso Corbin e altri da egli stesso preceduti da sinossi analitiche; nel complesso, rappresentano un’importante aggiunta alle risorse testuali disponibili per lo studio della filosofia e della mistica islamiche. Date le dimensioni quantitative e qualitative dell’opera di Corbin, una parte sempre maggiore della quale sta diventando disponibile in inglese[3], sembra utile tentare un’analisi della sua visione dell’Islam e indicare sia i punti di forza che quelli di debolezza del suo lavoro profondamente individuale e persino idiosincratico.
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Innanzitutto è necessario sottolineare che Corbin apportò al suo lavoro di studioso dell’Islam molto più della consueta formazione filologica e degli strumenti propri dell’orientalista. La sua era principalmente una mente filosofica, nutrita dalla formazione del grande medievalista Etienne Gilson, e da un precoce interesse per Heidegger (la sua traduzione francese di Was ist Metaphysik^ apparve a Parigi nel 1938). Ma, come non si stancava mai di sottolineare in tutte le sue opere sui saggi sciiti dell’Iran, il suo concetto di filosofia si estendeva oltre il mero raziocinio fino a un’insistenza sulla ricerca interiore e visionaria della verità; il suo interesse, infatti, era principalmente per la teosofia, parola che divenne un elemento chiave nella sua terminologia. Di conseguenza, agli elementi della sua formazione intellettuale generale che contribuirono a plasmare la sua comprensione dell’Islam, si dovrebbe aggiungere una conoscenza simpatetica degli elementi esoterici della filosofia occidentale, dei mistici renani e di argomenti vari come il Santo Graal, i Cavalieri Templari, la Farbenlehre di Goethe e gli scritti di Swedenborg. La predisposizione teosofica di Corbin lo portò a una radicale rivalutazione dell’intera natura e storia dell’attività filosofica nell’Islam. Prima di Corbin, la tesi generale della maggior parte delle opere sulla filosofia islamica[4], sosteneva che l’interesse primario del pensiero filosofico islamico risiedeva nella ricezione e nella trasmissione in Europa, in una forma leggermente arricchita, della filosofia greca. Questa funzione di mediazione, e con essa l’attività filosofica in quanto tale, si riteneva fosse giunta al termine nel XIII secolo, così che, a parte l’anomala figura di Ibn Khaldun, gli orizzonti intellettuali dell’Islam rimasero spogli fino all’inizio dei tempi moderni. Questa visione della filosofia islamica si basava in parte sul presupposto che solo quegli aspetti del pensiero islamico che incidevano sulla storia intellettuale dell’Europa fossero importanti, in parte sull’equazione tacita della civiltà islamica con l’elemento arabo (o di scrittura araba) che dominava il suo periodo formativo, e in parte sullo sterile schema triadico di “ascesa, maturità e declino” che si pensava l’Islam avesse completato entro il XIII secolo. Più di ogni altro individuo, Corbin screditò questa visione semplicistica delle cose. Dimostrò, prima di tutto, che persino il più noto dei filosofi musulmani, Avicenna, era stato parzialmente frainteso e si rese conto che oltre all’aspetto razionale del suo pensiero, enfatizzato per la sua influenza sulla Scolastica medievale, c’era un altro elemento nel suo pensiero, esoterico, interiore e illuminazionista.[5] Ancora più importante, portò alla luce in un’intera serie di scritti il proseguimento dell’attività filosofica islamica che ebbe luogo molto tempo dopo il XIII secolo sotto l’egida dello Sciismo e la designazione di hikmat. È giusto dire che prima di Corbin i nomi di Mîr Damad, Findiriski, Qazî Sa’íd Qummî e Mulla Sadra erano poco noti agli studiosi occidentali. Per qualificare l’indiscutibile contributo di Corbin alla rivalutazione della filosofia islamica, bisogna dire che egli applicava spesso il tradizionale adagio arabo secondo cui “la cura è operata dagli opposti”. Cercando di sottolineare l’indubbio elemento visionario e teosofico presente nel pensiero sia di Avicenna che di Mulla Sadra, correva il rischio di sottovalutare il nucleo razionale dei loro sistemi. Nell’introduzione al suo attento studio di Mulla Sadra, Fazlur Rahman affronta questo problema, con ovvio riferimento a Corbin. Rifiutando la tesi di Corbin di un sostanziale elemento illuminazionista o sufi nell’opera di Sadra, egli sottolinea che l’esperienza interiore aveva per Sadra e altri della sua scuola la funzione non di produrre nuovi contenuti di pensiero, ma piuttosto di conferire al contenuto di pensiero raggiunto intellettualmente la qualità di esperienza personale.[6] Abbiamo qui la prima di molte indicazioni che le inclinazioni personali di Corbin influenzarono quanto illuminarono gli argomenti da lui trattati.
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Il secondo tema importante affrontato da Corbin è stato l’Islam sciita nelle sue forme duodecimana e ismailita. Anche in questo caso apportò un cambiamento molto necessario nei concetti orientalisti. Prima di Corbin, la differenziazione sunnita-sciita all’interno dell’Islam era intesa quasi esclusivamente in termini politici e lo Sciismo era liquidato come “eterodossia”, senza che venisse offerta alcuna definizione precisa del termine o della sua controparte, “ortodossia”, come se la posizione della maggioranza fosse di per sé ortodossa e quella della minoranza eterodossa. Contro questa visione delle cose, Corbin si sollevò in una rivolta eloquente, protestando che “lo Sciismo non può essere ridotto alla maledizione dei primi tre califfi, né alla pratica di un quinto rito della legge, accanto ai quattro riti della legge ufficialmente riconosciuti dall’Islam sunnita”.[7] Per la prima volta in una lingua occidentale, Corbin espose la dottrina dell’Imamato in tutte le sue dimensioni esoteriche e metafisiche, chiarendo che la successione al Profeta che gli Imam rivendicavano era molto più del governo politico e giuridico della comunità, trattandosi del prolungamento ciclico del nucleo stesso della profezia. Ma anche qui troviamo Corbin che tenta la “cura con gli opposti”. Confutando correttamente la riduzione dello Sciismo a una questione contingente di successione politica, egli insiste su una visione altrettanto estrema, secondo cui lo Sciismo è essenzialmente un esoterismo, che in realtà è “il santuario dell’esoterismo dell’Islam”.[8] Questa visione, che permea tutti gli scritti di Corbin sullo Sciismo, comporta una grave distorsione sia dell’Islam sunnita che di quello sciita. Una volta che lo Sciismo diventa l’unico depositario dell’esoterismo islamico (vale a dire, spiritualità e profondità), l’Islam sunnita si riduce a ciò che Corbin definisce, ripetutamente e con evidente disprezzo, “Islam legalista”. Una forma di esoterismo, il Sufismo, è ovviamente fiorita nel mondo sunnita, ma come vedremo, Corbin vede il Sufismo come una forma troncata dello Sciismo che ha erroneamente tentato di fare a meno degli Imam. Altrettanto grave è la distorsione dello Sciismo implicita nella sua identificazione con l’esoterismo, e ora, all’indomani della Rivoluzione iraniana, con la sua forte enfasi sulle dimensioni sociopolitiche della religione, tale identificazione appare addirittura grottesca. Nessuno negherebbe che l’‘irfan rappresenti una forma di esoterismo islamico appropriata al contesto sciita e che attinga in gran parte alle tradizioni attribuite agli Imam. Ma affermare che l’‘irfän equivalga allo Sciismo, o addirittura che ne rappresenti l’espressione più importante, è tutt’altra cosa. Ciò richiede di trascurare il vasto corpus di tradizioni degli Imam relative a questioni essoteriche (“legaliste”) e le persistenti, seppur frustrate, pretese degli Imam di esercitare un’effettiva autorità politica. Ciò porta Corbin a essere estremamente selettivo nella sua visione dello Sciismo.
Nel mondo dello Sciismo iraniano, Corbin limitò la sua attenzione, a parte le questioni di “imamologia”, a poco più che ai praticanti dell’hikmat e agli Shaykhiti, una scuola di speculazione esoterica che ebbe una certa importanza all’inizio del diciannovesimo secolo, ma che in seguito fu confinata a una piccola e stagnante comunità di Kerman. Quasi totalmente assenti da tutti i copiosi scritti di Corbin sullo Sciismo iraniano sono coloro che ne sono stati i principali custodi ed esponenti per più di tre secoli: gli ‘ulama az-zähir, le autorità “essoteriste”. La loro assenza non è ovviamente attribuibile a un’esclusione deliberata da parte di Corbin, e tanto meno all’ignoranza. Semplicemente, una volta avvenuta l’identificazione dello Sciismo con l’esoterismo, tutte le scuole e le correnti di pensiero che non sono esoteriche cadono naturalmente nel novero delle non autentiche, anche se sono state storicamente predominanti. In un passaggio altamente rivelatore, Corbin una volta suggerì che il raggiungimento dello status di maggioranza da parte degli sciiti in Iran durante il periodo Safavide e il concomitante coinvolgimento delle guide religiose in questioni socioeconomiche e persino politiche, portarono a un “tradimento” dell’essenza esoterica dello Sciismo.[9] Le astruse speculazioni della scuola Shaykhita erano, secondo Corbin, una risposta correttiva a questo tradimento, intesa a ripristinare lo “Sciismo integrale”, e ad esse dedicò diversi studi.[10] Il trionfo della scuola di fiqh Usúlí, più o meno nello stesso periodo dell’emergere della scuola Shaykhita, fu, al contrario, un argomento totalmente privo di interesse per Corbin, nonostante fosse senza dubbio il più importante singolo sviluppo nella storia religiosa dell’Iran post-Safavide. Permise la crescita di una potente classe di ‘ulama e può essere considerato il lontano antenato della Rivoluzione iraniana. A causa della sua identificazione dello Sciismo con l’esoterismo, Corbin era, a suo modo, tanto distante dalla realtà contemporanea dell’Islam sciita in Iran quanto il più ottuso degli scienziati politici.
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Il terzo obiettivo principale dell’interesse accademico di Corbin era il Sufismo, o, più precisamente, una gamma ben definita di argomenti e personalità all’interno del Sufismo: Ibn ‘Arabi e i suoi esegeti iraniani, Ruzbihan Baqlì di Shiraz e vari membri dell’ordine Kubravî, in particolare ‘Ala ad-Daula Simnani. Bisogna subito ammettere che anche in questo ambito Corbin ha dato prova della sua consueta abilità nella lettura vorace e creativa di testi poco noti. La sua comprensione di tutto ciò che toccava era, tuttavia, colorata, o addirittura determinata, dalla sua particolare visione dello Sciismo come unico esoterismo legittimo dell’Islam. Egli presentò il Sufismo di Ibn ‘Arabi come per molti aspetti affine allo Sciismo, sia nella sua forma Duodecimana che in quella Ismailita, e si spinse fino in fondo per stabilire parallelismi tra le due scuole, ignorando quasi completamente gli immediati e dimostrabili precedenti di Ibn ‘Arabi nel Sufismo dell’Andalusia e del Maghreb. Allo stesso modo, quando parla di Ruzbihan, Corbin si trova nuovamente costretto a fare qualche riferimento allo Sciismo, anche se in questa occasione non può fare altro che offrire ai suoi lettori delle scuse appena dissimulate per essersi interessato a uno scrittore e mistico sunnita.[11] Quanto alla Kubrawiyya, egli afferma che varie figure di spicco dell’ordine (come Sa’d ad-Din Hamúya e ‘Alá ad-Daula Simnání) erano cripto- o proto-sciiti. Qui seguì la pratica consolidata di alcuni scrittori sciiti, come Nûrullah Shushtari, autore del celebre Majalis al-Mu’minin, che insisteva nel rivendicare retrospettivamente lo Sciismo pressoché a chiunque menzionasse con riverenza ‘Ali e gli altri Imam. Corbin era, naturalmente, consapevole che tali riferimenti non identificavano necessariamente i loro autori come sciiti. Ma egli fu notevolmente categorico nelle sue attribuzioni di tendenze sciite alla Kubrawiyya, disdegnando magistralmente tutta una serie di prove che indicavano l’identità sunnita dell’ordine.[12] Rifiutandosi sistematicamente di impegnarsi in più discussioni storiche di quanto sembrasse necessario per convalidare le sue affermazioni, lasciò i suoi lettori all’oscuro, ad esempio, che la Kubrawiyya prosperò per secoli nell’ambiente strettamente sunnita della Transoxiana e che in Kashmir si impegnò persino in feroci polemiche contro gli sciiti.[13] La cosa più importante, tuttavia, per comprendere la visione di Corbin del Sufismo è la sua affermazione costantemente ripetuta che il concetto chiave di wilayat – “santità”, in mancanza di un equivalente inglese migliore[14] – è, nel Sufismo, un prestito sradicato dallo Sciismo e che le funzioni esoteriche, iniziatiche e cosmiche degli Imam dello Sciismo sono state usurpate dai sufi e da loro riassegnate ai propri maestri. In una discussione di Simnání, ad esempio, Corbin afferma che l’idea di wilayat ha avuto origine in vari hadith degli Imam registrati da al-Kulaynî e procede affermando che “parlare di wilayat in modo isolato, passando in silenzio il carisma dell’Imam, è più di un paradosso, distrugge un’unità”, ovvero l’unità di profezia e wilayat, la prima essendo essoterica nello scopo, la seconda esoterica.[15] Ora questa affermazione è dimostrabilmente falsa, giacché anche la comprensione sufi della wilayat la collega alla profezia, sebbene in un modo diverso da quello proposto dallo Sciismo.[16] Inoltre, come ha sottolineato Paul Nwyia, non c’è bisogno di supporre che una trasmissione di influenza abbia avuto luogo in entrambe le direzioni, poiché il concetto di wilayat è radicato nel Corano e sviluppato nel Sufismo senza che ne risulti alcun paradosso o problema.[17]
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Filosofia, Sciismo e Sufismo furono, quindi, i tre principali ambiti di interesse di Corbin, che si alternarono nel corso della sua carriera accademica come temi dominanti della sua opera. Oltre a loro, un posto particolare è occupato nella sua opera da un individuo, Shihab ad-Din Sohrawardi, il filosofo illuminista giustiziato per eresia ad Aleppo nel 1191. Corbin gli dedicò il suo primo saggio sull’Orientalismo[18], pubblicò le sue opere raccolte in arabo e persiano (in collaborazione con Seyyed Hossein Nasr) e menzionò spesso Sohrawardi in tutta la sua opera, oltre a dedicargli numerosi studi separati. In breve, possiamo dire che Sohrawardi era per Corbin ciò che Hallaj era per Massignon: non solo la figura cardine di una carriera accademica, ma anche un eroe spirituale personale. Sohrawardi era di impellente interesse per Corbin per una serie di ragioni facilmente identificabili. Più chiaramente di Avicenna o Mulla Sadra, lo shaykh al-ishraq esemplificava l’unione del ragionamento discorsivo e dell’intuizione mistica che era così cara a Corbin. Era inoltre un antenato della scuola di hikmat, che occupava un posto così importante nella visione di Corbin dello Sciismo, anche se sembra che possa aver distorto la natura e l’entità dell’influenza illuminazionista, ad esempio, su Mulla Sadra (vedi ancora l’opera di Rahman). Infine, Suhrawardi affermò di aver resuscitato la saggezza dell’Iran preislamico e fece uso della terminologia persiana nelle sue teorie angelologiche. Per Corbin, che ha sempre insistito su una continuità spirituale ininterrotta tra l’Iran preislamico e quello islamico, questo era un frammento di prova prezioso e raro. Non posso tentare di esprimere un giudizio qui sull’accuratezza delle analisi di Corbin su Suhrawardi. Ciò che può essere sottolineato, tuttavia, è che la posizione di Suhrawardi e della sua scuola nella storia intellettuale e spirituale dell’Islam è marginale, qualunque possa essere l’interesse intrinseco di Ishraq. A parte la sua influenza sull’hikmat nell’Iran Safavide e i commenti sparsi scritti sul suo lavoro in Turchia e India, ci sono pochi segni che abbia esercitato una sostanziale influenza postuma. Il fatto che Corbin lo abbia deliberatamente elevato a una posizione di eminenza nel suo schema di “Islam iraniano” è forse la più forte indicazione singola di come le predilezioni spirituali di Corbin siano arrivate a determinare le sue preoccupazioni accademiche. Proprio come Massignon aveva elevato Hallaj a una posizione di centralità nella tradizione sufi che non era legittimamente sua, così Corbin glorificò Suhrawardi come un un saggio di statura ineguagliabile. Non è certo una coincidenza che sia Hallaj che Suhrawardi, i rispettivi eroi dei due orientalisti francesi, siano stati giustiziati, una sorte indicativa, tra l’altro, della loro marginalità rispetto alla tradizione islamica.[19]
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Tutti gli argomenti sopra delineati dovrebbero essere visti sullo sfondo della fede di Corbin in un’entità che lui chiamava “Islam iraniano”. È ovvio che l’Islam, nella sua elaborazione storica, ha assunto molteplici forme di espressione, alcune delle quali possono essere identificate con una particolare regione o popolo. Dall’inizio del XVI secolo fino ad oggi, l’Iran ha certamente seguito un percorso di sviluppo religioso ampiamente distinto da quello dei suoi vicini. Ma è chiaro che quando Corbin parlava di “Islam iraniano”, aveva in mente qualcosa di molto più fondamentale e pervasivo. Esisteva per Corbin qualcosa chiamato “l’anima iraniana”, dotata di “una vocazione imprescrittibile” ed esercitante un quasi monopolio sugli aspetti filosofici e mistici della tradizione islamica[20]. La controparte di questo profondo “Islam iraniano” è presumibilmente “l’Islam arabo”, un legalismo arido e superficiale, con un’insistenza errata sull’applicabilità sociale della religione. Il contrasto razziale tra iraniano e arabo non è mai esplicitamente fatto, ma quando si leggono le opere di Corbin, non si può non ricordare le teorie di antichi orientalisti come il conte Arthur de Gobineau e Max Horten che tentarono di analizzare la storia intellettuale dell’Islam in termini di un presunto scontro tra ariani (= iraniani) e semiti (= arabi). Corbin trasferì la dicotomia dal piano biologico a quello spirituale. Secondo Corbin, “l’Islam iraniano” è caratterizzato non solo dalla spiritualità e dall’esoterismo, ma anche da una continuità pressoché ininterrotta con il passato preislamico. Nel credo che precede il suo En Islam iranien, egli afferma: “All’interno della comunità islamica, il mondo iraniano ha formato fin dalle origini un’entità i cui tratti caratteristici e la cui vocazione possono essere compresi solo se si considera l’universo spirituale iraniano come formante un tutto, prima e dopo l’Islam”.[21] È evidente che la coscienza religiosa dell’Iran non era una tabula rasa al tempo della conquista musulmana, ed elementi di provenienza mazdea persistettero nel periodo islamico, in particolare a livello di folklore e credenze popolari. Ma è una questione di enfasi e proporzione. Non esiste alcun sostanziale substrato preislamico nella storia religiosa principale dell’Iran islamico. È, al contrario, notevole vedere quanto le energie intellettuali e spirituali dell’Iran fossero dedicate all’assimilazione e all’elaborazione delle scienze religiose islamiche nell’epoca del loro sviluppo formativo. Per la sua tesi di continuità fondamentale tra l’Iran preislamico e quello islamico, Corbin non riesce a raccogliere altre prove oltre alla nomenclatura degli angeli nelle opere di Suhrawardi; alcuni parallelismi tra le dottrine cosmologiche degli Yashts e dei Bundahishn, da un lato, e quelle di Suhrawardi, Mulla Sadra e gli Shaykhiti, dall’altro; e una parziale somiglianza tra il Saoshyant della fede mazdea e il Dodicesimo Imam dell’Islam sciita.[22] Ma egli esibì instancabilmente questi frammenti di prove, e li considerò addirittura come giustificazioni del concetto di “filosofia irano-islamica”.[23]
Dopo aver definito “l’Islam iraniano” come un’entità distinta, strettamente interessata alla mistica e alla spiritualità e profondamente segnata dall’eredità del suo passato preislamico, Corbin è giunto inevitabilmente a presentare una visione altamente selettiva dell’Islam in Iran. È vero che egli rinunciò a tutti i tentativi di presentare una storia generale dell’Islam in Iran e che intitolò volontariamente la sintesi in quattro volumi delle sue ricerche En Islam Iranien, avvertendo il lettore di aspettarsi una serie di temi, non un catalogo esaustivo. Avendo sottolineato così tanto le peculiarità dell’Islam iraniano, ci si sarebbe potuto aspettare, tuttavia, che Corbin selezionasse temi più pienamente rappresentativi della tradizione ben definita che affermava di percepire. In effetti, nonostante la maestria e l’eloquenza con cui fu elaborata, la visione dell’Islam iraniano di Corbin abbracciava poco più che i deboli echi del Mazdeismo, il Sufismo di Rúzbihán e della Kubravîya, l’illuminismo di Suhrawardi e gli aspetti speculativi e mistici dello Sciismo. Leggendo le opere di Corbin, non si sospetterebbe mai che l’Islam sunnita abbia dominato gli orizzonti religiosi dell’Iran per nove secoli, né i suoi scritti sono di grande aiuto per comprendere il verificabile processo attraverso il quale lo Sciismo Duodecimano è effettivamente diventato una sorta di “Islam iraniano”.
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Una carriera orientalista può essere legittimamente considerata non solo nel contesto delle predilezioni intellettuali e spirituali dello studioso in questione, ma anche in quello del quadro istituzionale e perfino politico all’interno del quale è stata perseguita. Nel corso della sua carriera, Corbin si è alternato tra la Francia e l’Iran, avendo come base a Teheran il Dipartimento di Iranologia dell’Istituto Franco-Iraniano. Ha avuto numerosi contatti sia nei circoli ufficiali che accademici e ha spesso menzionato anonimi “amici iraniani” come fonte di riferimento autorevole nelle sue opere. Ha collaborato ad alcuni progetti con il defunto Muhammad Mu’în, con Jalâl ad-Dîn Ashtiyânî, così come altri studiosi. Una serie di discussioni da lui condotte con uno degli studiosi di Qom, ‘Allamah Muhammad Husayn Tabâtabâ’î[24], furono pubblicate in persiano e godettero di notevole fama.[25] Ma il più importante tra i suoi collaboratori iraniani fu, senza dubbio, Seyyed Hossein Nasr. Autore prolifico, anche se spesso derivativo, su temi affini a quelli trattati da Corbin, Nasr ricoprì un’ampia gamma di incarichi accademici e amministrativi prima di lasciare prudentemente l’Iran nel corso della Rivoluzione. Direttore dell’Accademia Imperiale di Filosofia, era noto per i suoi stretti legami personali con la corte. L’associazione di Corbin con Nasr ebbe, quindi, alcune inevitabili implicazioni politiche. Non voglio insinuare neanche per un minuto che Corbin, consapevolmente o inconsapevolmente, si sia schierato con l’ormai defunta monarchia iraniana, nel senso di mettere la propria borsa di studio al suo servizio. Le direzioni che scelse di seguire erano pienamente spiegabili in termini delle sue preferenze intellettuali e dei suoi gusti spirituali. Resta, tuttavia, un fatto di una certa importanza che la sua particolare visione dell'”Islam iraniano” corrispondesse esattamente alle politiche culturali del regime Pahlavi. L’identificazione da parte di Corbin dell’Islam Sciita come un esoterismo che disdegnava il piano sociopolitico aveva molto in comune con l’insistenza del regime affinché le guide religiose si astenessero da ogni preoccupazione politica. In particolare, l’insegnamento del leader Shaykhita, Zayn al -‘Âbidin, secondo cui “l’azione degli uomini non può porre rimedio alla loro situazione”, citato con approvazione da Corbin, può essere giustamente definito una prescrizione ideale per la sopportazione passiva della tirannia.[26] Certamente, una lettura delle opere di Corbin lascia il lettore con l’impressione che l’Imam Khomeyni non sia riuscito a cogliere la vera essenza dello Sciismo, o lo abbia deliberatamente trasgredito. Allo stesso modo, la posizione di Corbin di una dicotomia iraniano-araba nell’Islam aveva un’affinità diretta con l’insistenza dell’ex-Scià nel rimuovere l’Iran, per quanto possibile, dal contesto arabo della sua cultura e storia; era la versione erudita ed elegante dello slogan ufficiale “musulmani ma non arabi”.
Infine, la sua idea di una profonda continuità spirituale tra l’Iran preislamico e quello islamico veniva spesso assorbita dalla propaganda roboante che parlava di due millenni e mezzo di ininterrotto governo monarchico. Corbin morì a Parigi una settimana dopo l’arrivo dell’Imam Khomeyni, che stava per entrare nell’ultima e trionfale fase del suo lungo esilio dall’Iran. Scrivendo un necrologio su Le Monde (11 ottobre 1978), Henri Thomas ipotizzò cosa sarebbe successo se i due uomini, che apparentemente avevano così tanto in comune, si fossero incontrati. Dato il contesto politico e le implicazioni dell’opera di Corbin (che Khomeyni conosceva in termini generali), è altamente improbabile che l’incontro sarebbe stato congeniale.
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Altrettanto notevole e idiosincratica era la metodologia da lui adottata. Disdegnando non solo lo storicismo ma anche la storia, egli sosteneva di essere un fenomenologo rigoroso, interessato solo al fenomeno religioso come realtà autonoma, quasi indipendente. Definiva la fenomenologia come “il recupero dei fenomeni, vale a dire, incontrandoli, dove hanno luogo e dove hanno il loro posto. Nelle scienze religiose, ciò significa incontrarli nelle anime dei credenti, piuttosto che nei monumenti dell’erudizione critica o delle indagini circostanziali, significa mostrare ciò che si è mostrato loro [alle anime], vale a dire il fatto religioso”.[27] Si tratta senza dubbio di un obiettivo lodevole e perfino necessario, che la stragrande maggioranza degli orientalisti non ha mai nemmeno concepito, né tantomeno cercato di raggiungere. La sua adeguatezza e fattibilità sono tuttavia discutibili. Il fatto religioso non esiste solo nell’anima del credente, ma anche sul piano storico, condizionandolo ed essendone condizionato. Ignorare l’interazione tra il fatto religioso e quello storico è sicuramente un impoverimento evitabile della nostra comprensione della religione. C’è anche il pericolo che lo studioso incontri il fatto religioso non tanto nelle “anime dei credenti” quanto nella sua stessa anima, dove sarà mescolato a qualsiasi credenza e reminiscenza associativa che possa capitarvi di esistere. Così nel caso di Corbin, il Sufismo e lo Sciismo dell’Iran sono obbligati a coesistere con numerosi elementi che sono decisamente assenti dall’anima del credente musulmano, il Santo Graal, i Cavalieri Templari, Swedenborg, Meister Eckhart, per citarne solo alcuni. Rifiutando deliberatamente, persino ostentatamente, di collocare il fenomeno religioso nel contesto storico che gli conferisce specificità, Corbin ha finito troppo spesso per incastonarlo nei contorni della propria anima. Inoltre, non fu del tutto coerente nella sua adesione alla fenomenologia. Come abbiamo visto, egli considerava il concetto sufi di wilayat come un prestito non riconosciuto dallo Sciismo; questo è ovviamente un argomento storico, poiché il presunto prestito deve aver avuto luogo in un dato momento. In realtà Corbin rimane fedele al suo disprezzo per la storia non riuscendo ad addurre alcuna prova convincente, ma il principio fenomenologico è violato dal rifiuto di incontrare il fatto religioso della wilayat sufi “dove ha luogo e ha il suo posto” – vale a dire, l’anima del sufi che non si interessa, o addirittura non è totalmente a conoscenza, degli insegnamenti sciiti sulla wilayat degli Imam. Corbin non era certamente l’unico tra gli orientalisti moderni a sperimentare una confluenza di interessi spirituali ed accademici. E.G. Browne, R.A. Nicholson e A.J. Arberry sembrano tutti essere stati riportati alla fede nel cristianesimo anglicano dallo studio dei testi sufi[28], e Louis Massignon ha parlato di essere un “ospite spirituale” nel mondo islamico molto prima che Corbin si identificasse in termini simili. Nella misura in cui l’atteggiamento dell’ospite orientalista è più rispettoso e sensibile di quello del giudice, del critico o del conquistatore orientalista, i quali portano tutti nello studio dell’Islam sentimenti latenti o palesi di ostilità e superiorità, egli può raggiungere una comprensione maggiore rispetto ai suoi colleghi. A volte, tuttavia, l’ospitato risulta essersi auto-invitato e non vi è alcuna garanzia che comprenderà appieno i suoi ospiti o trasmetterà accuratamente la percezione che hanno di sé stessi. Ciò che ne risulta è una visione personale, che può possedere profondità e bellezza, ma non è convincente né sul piano della ricerca accademica formale e discorsiva, né su quello del fatto religioso (o dei fatti) sperimentati dai musulmani.
Sarebbe un’impertinenza trascurare la grandezza e la portata dell’opera di Corbin o sminuire l’entità del suo risultato. Egli trasformò radicalmente lo studio sia della filosofia islamica che dello Sciismo, e nessuno studioso occidentale di questi argomenti, o dell’Islam in generale, può permettersi di sottrarsi a una lettura attenta delle sue opere. Il lettore non dovrebbe tuttavia lasciarsi intimidire dalla magistrale eloquenza del tono di Corbin, o dall’ampia e creativa erudizione dei suoi scritti. Come Massignon prima di lui, si può dire che Corbin abbia tentato un’appropriazione selettiva dell’Islam riorganizzandone gli elementi componenti in uno schema che riteneva congeniale, personalmente soddisfacente e, quindi, vero. La sua impresa fu una forma rarefatta e idiosincratica di colonialismo spirituale.
NOTE
[1] I quattro volumi dell’opera sono stati tradotti in italiano, a cura di Roberto Ravello, dalla casa editrice Mimesis (N.d.T.)
[2] Non sarà fuori luogo ricordare qui Seyyed Jalaluddin Ashtiyani, che Corbin definì “Molla Sadra redivivus” [Storia della filosofia islamica, Adelphi, Milano, 1991, p. 367], collaboratore dell’orientalista francese alla stesura dell’imponente opera Anthologie des philosophes iraniens depuis le XVII siècle jusqu’a nos journs. Studente dell’Imam Khomeyni, che considerava “il sigillo dei filosofi e degli gnostici della nostra epoca”, Seyyed Ashtiyani aveva in programma di dedicare gran parte del sesto volume di questa opera unica proprio all’Imam Khomeyni, ma il progetto fu interrotto dalla morte di Corbin. Cfr. Y.C. Bonaud “Uno gnostico sconosciuto del XX secolo. Formazione e opere dell’Imam Khomeyni”, Il Cerchio, 2010, pag. 20. (N.d.T.)
[3] Per una bibliografia di H. Corbin in lingua italiana, cfr. https://www.amiscorbin.com/livres-de-henry-corbin/libri-in-italiano/ (N.d.T.)
[4] Ad esempio, The History of Philosophy in Islam di E.J. De Boer, pubblicata per la prima volta nel 1903 ma ampiamente utilizzata per molti decenni successivi.
[5] Cfr. H. Corbin Avicenna and the Visionary Recital, Pantheon Books, 1960.
[6] F. Rahman, The Philosophy of Mulla Sadra, pag. 3-4, State University of New York Press (Albany), 1975.
[7] Cfr. H. Corbin, En Islam iranien, Vol. 1, xiv, Parigi, Gallimard, 1971-72.
[8] Cfr., En Islam iranien, Vol. 1, pag. 16.
[9] Cfr. “Pour une morphologie de la spiritualité shi’ite”, pag. 69, Éranos Jahrbuch, 1960.
[10] Cfr. in particolare “L’école shaykhie en théologie shi’ite”, pag. 1-60, Annuaire de l’Ecole Pratique des Hautes Etudes, Section des Sciences Religieuses, 1960-1961.
[11] En Islam iranien, Vol. 3, pag. 11.
[12] Cfr. En Islam iranien, vol. 3, pag. 294-95.
[13] Cfr. A.Q. Rafiqi, Sufism in Kashmir, pag. 96, Varanasi and Delhi Bharatiya Publishing House, s.d..
[14] È definita in modo conciso da Sharif Jurjani come “la sussistenza del servo di Dio attraverso Dio dopo il suo annientamento rispetto a se stesso” (cfr. Kitab at Ta’rîfat, pag. 269, Beirut Librairie du Liban, 1969).
[15] Cfr. En Islam iranien, vol. 3, pag. 296.
[16] cfr. al-Hakîm at-Tirmidhi, Kitab Khatm al-Awliyâ, pag. 336, Beirut, Imprimerie Catholique, 1965
[17] Nwyia, Exegese Coranique et Langage mystique, pag. 240-42, Beirut, Dar al Machreq Editeurs, 1970.
[18] Cfr. Suhrawardi d’Alep, Paris, Maisonneuve, 1939.
[19] L’analisi percettiva dell’opera di Massignon da parte di Edward Said (Orientalism, pag. 264-75, Pantheon Books, 1978), suggerisce molti punti di confronto con Corbin. [In italiano, Orientalismo, Feltrinelli, 2001, N.d.T.].
[20] Cfr. En Islam iranien, Vol 1, pag. x.
[21] Cfr. vol. 1, pag. xxvii.
[22] Cfr. in particolare Spiritual Body and Celestial Earth From Mazdean Iran to Shi’ite Iran, Bolhngen Series, 41/2 Princeton University Press. [In italiano, Corpo spirituale e Terra celeste. Dall’Iran Mazdeo all’Iran Sciita, Adelphy, 1986].
[23] Cfr. Corbin, 1972, un articolo presentato, in modo significativo, al Congresso internazionale di Iranologia tenutosi a Shiraz nel 1971 in occasione del “2500° anniversario della fondazione dell’Impero persiano”.
[24] Su questo grande sapiente contemporaneo, proprio di H. Algar, cfr. “‘Allamah Muhammad Husayn Tabataba’i, filosofo, esegeta e gnostico”: https://islamshia.org/allamah-tabatabai-filosofo-esegeta-e-gnostico-h-algar/ (N.d.T.)
[25] Cfr. Maktab Tashayyu’, Qum, Iran 1960.
[26] Cfr. En Islam iranien, vol. 4, pag. 247.
[27] Cfr. En Islam iranien, vol. 1, pag. xix.
[28] Vedi lo schizzo autobiografico di A. J. Arberry premesso al secondo volume pubblicato postumo della sua traduzione di Mystical Poems of Rumi (1979), ix-xiv.
L’articolo è apparso originariamente in “Religious Studies Review”, vol. 6, n. 2, aprile 1980.
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