Sciismo e Imperialismo
L’Islam Sciita come alternativa radicale all’imperialismo nichilista della modernità occidentale
R.Arcadi
Il compito d’affrontare l’argomento del rapporto, o meglio, della contrapposizione tra Shi’a ed imperialismo occidentale risulta estremamente malagevole per due opposti motivi. Si tratta invero da un lato delle difficoltà frapposte dalla lontananza dell’universo sciita da quello che comunemente è il nostro mondo, distanza da addebitarsi non tanto a fattori contingenti, d’ordine meramente storico o geografico (valga come esempio la presenza sulle sponde dello stesso Mediterraneo, di una delle più combattive comunità sciite del nostro tempo), o che abbiano a che vedere con i limiti di un’erudizione culturale le cui lacune si sono venute via via colmando per iniziativa diretta degli interessati (si pensi alle iniziative pubblicistiche ed alla stessa disponibilità personale delle autorità della Repubblica Islamica dell’Iran), o grazie all’opera di coraggiosi studiosi europei, a volte veri e propri pionieri in materia (il riferimento d’obbligo è all’opera di H. Corbin, non esente peraltro da lacune e da gravi distorsioni dottrinali).
Il problema è semmai quello di accedere alle fonti di informazione sforzandosi di prescindere dalle sovrastrutture ideologiche, fortemente limitative in tal senso, proprie all’occidentale moderno, la cui gamma amplissima spazia dal riduzionismo antimetafisico della mentalità neopositivista, sino alle ben poco edificanti esibizioni di certo pseudo-tradizionalismo nostrano (si pensi alla chiusura settaria ed alle incomprensioni di taluni ambienti “paganeggianti”, od alle inconsistenti e capziose prese di posizione antipolitiche di certo neospiritualismo interiorista e pseudo-esoterico).
Dall’altro canto, un’analoga difficoltà di comprensione è frapposta dalla stessa vicinanza del fenomeno opposto che si vuol prendere in esame; e si tratta invero non tanto dell’imperialismo in sé, quanto piuttosto di quella realtà omnipervasiva, estremamente complessa ed a suo modo profonda, a cui esso fa capo, ovverosia di quella modernità occidentale il cui esame richiederebbe un atto di riflessione, e quindi di separazione, estremamente difficile da parte di chi le appartenga ed in qualche misura con essa di identifichi.
Ora, data per scontata una difficoltà siffatta, sarà pur sempre preferibile procedere dal prossimo al remoto, se non altro per ragioni di convenienza pratica, a prescindere peraltro dalla relatività di queste connotazioni. E se la pretesa di dare una descrizione esaustiva della modernità occidentale ha più dell’impossibile che del malagevole, e non soltanto in questa sede, sarà d’altra parte pur sempre praticabile la via di una connotazione generale funzionale al nostro argomento. Non si tratterà pertanto del tentativo di pervenire ad una compiuta definizione specifica, quanto piuttosto di dar ragione di un elemento particolare in virtù di un carattere generale a cui esso si riconduca.
E’ d’altra parte quanto mai difficile riuscire a trovare un punto fermo di partenza nel garbuglio della modernità, dato che la sua “libera” critica, penetrante ed omnicomprensiva abbia avuto effetti a dir poco devastanti sulla possibilità di trovare un appiglio, sia pure il più elementare, in un marasma siffatto. Dall’altro canto questa medesima critica, ne va della sua stessa sopravvivenza, non sarà mai indotta a mettere in discussione sé medesima, finendo a questa stregua col trasformarsi essa stessa nel vero e proprio principio generale della modernità, se non altro sotto il riguardo soggettivo. Giacché obiettivamente, a parte la difficoltà da essa suscitata d’accettare un mondo esterno, oggettivo, essa farà riferimento a rappresentazioni e a concetti che, quale che ne sia il significato, saranno il bersaglio della sua reiterata azione demolitrice e sovvertitrice.
Ed uno dei risultati di questa azione, è appunto la separazione (conformemente al significato etimologico, al senso stretto e non traslato del termine “critica”) della rappresentazione dal rappresentato. E non è certo questa la sua sola impresa in tal senso. Nel dominio della pura rappresentazione sarà anche più agevole dare attuazione al partito preso di negare ogni principio, ogni conseguenza, ogni articolazione, ovvero, per dirla con una espressione alla moda oggi giorno, di negare ogni assoluto, e con questo anche, e necessariamente, ogni relativo! Separazione dunque, ed indifferenza, e pertanto indistinguibilità ontologica, ovvero confusione pura e semplice, giacché la confusione consegue, e non è certo opposta alla separazione.
D’altro canto, l’indistinguibilità ontologica è negazione, oltre che dell’ente, dello stesso essere puro, dal quale la distinzione deriva, ed in seno al quale essa si attua compiutamente, invece di negarsi. Sicché lo spirito critico d’Occidente, nella sua pretesa di prescindere sia dall’ente che dall’essere, si riduce in definitiva a puro e semplice nihilismo. Quest’ultimo è d’ordine sia soggettivo che oggettivo, e non staremo certo qui a discutere quale dei due produca l’altro. Il fatto è che la modernità occidentale finisce col foggiarsi a propria immagine e somiglianza una “realtà di sogno” contro natura, costituita non tanto dalle sue rappresentazioni aberranti, quanto dal loro concreto ambito d’applicazione, d’ordine scientifico, politico, economico, culturale, o che dir si voglia.
Giacché a questa stregua, separati che siano, i due ordini, soggettivo ed oggettivo, si confondono in torbida e promiscua coalescenza, sia che l’uno, scisso da una effettualità a cui è ormai incapace di riconnettersi, si crei per ciò stesso una sua realtà di sogno, sia che venga a darsela come un qualcosa di sussistente a suo modo, che finisca con l’imporre al soggetto senziente la sua guisa di concretezza. E’ questa a nostro avviso la sostanza ontologica della modernità, elemento che se non si riduce al nulla puro, è ad esso assai vicino, e la cui materia ha la consistenza di quella dell’errore, dell’illusione, del sogno. Ma questa medesima debilitazione, questa inconsistenza, che a dispetto del suo minimo contenuto ideologico, ha il devastante potere d’attrazione del vuoto, l’Occidente fa di tutto per imporla al mondo intero, né potrebbe fare altrimenti, se non a discapito della sua stessa natura, alla quale aggiunge tutta la pervicacia di una volontà oramai irrimediabilmente distorta. Ed è questa la radice ontologica e metapolitica dell’imperialismo.
Si tratta invero della natura ambigua della negazione pura, generalizzata e fine a sé stessa, del nihilismo, che se per un verso non può fare a meno di negare, dall’altro lato, in ragione della sua essenza, non può prescindere da un oggetto sul quale esercitarsi, senza il quale non può sussistere.
Si può parlare a questa stregua anche di debilitazione ontologica, che non può tollerare al proprio cospetto alcunché d’estraneo per la sua intrinseca debolezza, e di converso, a causa di questa medesima debolezza, priva com’è d’ogni consistenza propria, non può fare a meno di rivali su cui sorreggersi, scaricando su di essi le proprie contraddizioni interne. Ed è così che la modernità occidentale se ne va per il mondo alla ricerca di nemici, di quei medesimi nemici da distruggere di cui ha un bisogno impellente e vitale. Sennonché, non tutti questi avversari hanno il medesimo rango ontologico, la medesima dignità spirituale. Se per esempio, il cosiddetto “socialismo reale” apparteneva in definitiva al suo stesso ambito, il medesimo discorso non può certo valere per il “nuovo” nemico, ovverosia per l’Islam. Non ci si lasci ingannare dalla violenza delle parole a questo riguardo: tutte le accuse con cui l’Occidente si sforza di screditare l’Islam (intolleranza, aggressività, terrorismo, e via dicendo, in un crescendo d’errori e di menzogne), riflettono a rigore quelli che sono i caratteri propri alla modernità.
La Tradizione non ha bisogno d’avversari, dato che essa sussiste di per sé nella sua connessione diretta con il principio dell’essere. Ciò non significa peraltro ch’essa debba farsi apologeta d’una qualsiasi forma di pacifismo. Anche i mondi tradizionali potranno essere bellicosi, ma giammai bellicisti, così come potranno essere pacifici, ma mai pacifisti. A dispetto dell’indole guerriera, non si avrà in nessun caso un incondizionato bisogno d’espansione radicato in un’insufficienza ontologica, ma potranno aversi o comunità chiuse (come è stato ad esempio il caso del Giappone), o fenomeni migratori limitati nel tempo, e nel caso d’espansione di tipo imperiale, si tenderà a pervenire ad una situazione d’equilibrio inclusiva di un mondo, di un universo chiuso e sussistente (è il caso dell’Impero Romano).
Ora, dopo il crollo dei socialismi reali, l’Occidente moderno, o piuttosto, la sua parte egemone, vincente, ha finito col ritrovarsi al cospetto dell’Islam, una realtà tradizionale contemporanea affatto particolare, non soltanto inassimilabile, ma capace persino di reagire, di contrattaccare l’Occidente sul suo stesso terreno, che è quello dell’esteriore effettualità economica, politica, sociale, militare, e soprattutto culturale, pur intendendo quest’ultimo termine in un senso alquanto ristretto, a prescindere dalle sue dimensioni più profonde, o meglio, più elevate, d’ordine prettamente metafisico e spirituale. Non sarà a questo punto inopportuno fare alcune ulteriori considerazioni sul senso di questa contrapposizione.
A noi appare affatto evidente come non sia certo un caso che l’Islam si sia meritato sul campo la qualifica di nemico per antonomasia della modernità occidentale proprio in un frangente in cui quest’ultima appare oramai vincente su tutto il pianeta, e va accentuando di giorno in giorno le sue tendenze e pretese di globalizzazione, non soltanto sotto il profilo politico ed economico, configurandosi sempre più in conformità a quella che appare essere la sua forma estrema ed assoluta, il mondialismo.
Quella che l’Islam ha sempre proclamato essere la sua funzione escatologica di “Sigillo della Rivelazione”, e che messa in rapporto ad uno stato originario di pienezza profetica e tradizionale, lo configura come suggello del ciclo della Tradizione in tutta la sua universalità, conferendogli a questa stregua una particolare dignità ontologica in quanto sintesi e compiutezza finale che corrisponde alla pienezza primordiale; questa medesima funzione ha una corrispondenza a dir poco sconcertante con il ruolo che l’Islam si è assunto, e che gli stessi eventi gli confermano, nell’età contemporanea, contraddistinta appunto, come si è detto poc’anzi, dalla prevaricazione omnipervasiva della modernità. E non può certo trattarsi d’una corrispondenza meramente accidentale. Questo in ragione della stessa natura intima dell’Occidente moderno, del suo nihilismo, della sua negatività sostanziale, che può dar conto di sé medesima soltanto in virtù di un termine ultimo positivo da negare, su cui sostenere la sua stessa effettualità, a prescindere da ogni negazione fittizia. E che non si tratti nella fattispecie d’alcunché di fittizio, lo dimostra l’irriducibilità di questa opposizione alle altre, che o non sono in grado di darsi un contenuto concreto, o appartengono esse stesse al dominio della modernità.
L’Islam dunque, nella sua capacità di darsi una dimensione effettuale, operativa, e persino combattiva, tende sempre più a configurarsi come l’alternativa principale al nihilismo occidentale. Si tratta peraltro di una realtà dalle molte dimensioni, dai molteplici livelli, nella sua capacità di plasmare lo stesso mondo attuale a procedere da un centro puramente ontologico, eminentemente metafisico ed intellettuale, che si manifesta nel ciclo degli Inviati e degli Intimi di Dio (as), e nel Libro quale controparte attuativa della pura visione intellettuale propria alla funzione profetica dell’Uomo Universale, donde la trama degli ordinamenti umani si determina in ogni suo aspetto. Non ha pertanto nessun senso parlare a questo riguardo, con un linguaggio mutuato da categorie tipicamente occidentali, di “fondamentalismo” od “integralismo”, quasi a voler proiettare sull’universo islamico, di cui è prerogativa essenziale la completezza, le limitazioni proprie ad una cristianità del tutto incapace di comporre le sue fratture strutturali. Ma non è dell’Islam in generale che intendiamo trattare in questa sede, quanto piuttosto di quella sua variante che nel mondo contemporaneo ha assunto un rilievo anche in relazione alla più concreta realtà politica della lotta all’imperialismo, che era il tema donde queste nostre considerazioni avevano preso le mosse.
Diamo qui per scontata la conoscenza delle vicende storiche che, sin dai primordi dell’Islam, portarono alla suddivisione ed alla contrapposizione tra Sciiti e Sunniti. Quel che ci preme di rilevare è che queste vicende, spesse altamente drammatiche, non si riducono affatto a quell’aspetto meramente politico al quale il più delle volte fanno riferimento unilateralmente le fonti occidentali. Si tratta invece di una questione ben più profonda, che finisce peraltro col dar ragione dello stesso dominio della politica. Ed in effetti, il dissidio che già alla morte del Profeta (S) oppose i seguaci di Alì (as) a quelli di Omar ed Abu Bakr, non riguarda tanto il dominio temporale, quanto piuttosto la questione del rango spirituale del successore di Muhammad (S), ovverosia dei suoi requisiti in rapporto all’essenza stessa della funzione profetica. Vale la pena ribadire, a dispetto delle volgarizzazioni tendenziose di certa pubblicistica nostrana, e d’accordo con la dimostrazione “a posteriori” data poc’anzi dall’eminenza ontologica e tradizionale dell’Islam, che la funzione profetica è anch’essa, a maggior ragione, in senso precipuo e principale, d’ordine eminentemente metafisico e spirituale.
Dicendo questo, ci riferiamo evidentemente ad una dimensione puramente intellettuale; nulla ch’abbia a che vedere con un mero razionalismo dottrinario, in ragione dei contenuti positivi di cui s’è detto poc’anzi, che trascendono, pur senza negarla, la mera accidentalità empirica. Il fatto è che la stessa contingenza ontologica presuppone tutta un’articolazione esistenziale, tutta una distinzione di contenuti d’essere traentisi dall’unità semplice di un Principio Supremo che ne dia ragione, includendola in una guisa eminente ed esemplare, conformemente al principio della trasposizione analogica dell’ente nell’Essere Puro. Stando così le cose, la Rivelazione, nella sua conformazione “verticale” (complementare a quella “orizzontale” del ciclo della Tradizione) si configura alla stregua di manifestazione diretta dei domini superiori dell’essere al nostro livello d’esistenza, e non per riflesso, oppure per mera negazione, come è invece il caso per il nihilismo della modernità occidentale. Sicché sia il Profeta (S) che il suo successore dovranno avere una qualificazione gnoseologica del medesimo ordine, presupponendo dunque la loro persona un elemento non meramente esterno (zahir), ma superiore alla mera effettualità, esoterico, intimo (batin).
Il linguaggio della Rivelazione è pertanto eminentemente simbolico, ed i suoi significati letterali immediati sono segni (Ayat, Santo Corano, 2:129) che accennano a tutta una serie di sensi, di livelli superiori, per culminare nell’archetipo della Divina Sapienza, nella “Madre del Libro” (Santo Corano, 13:39), nella quale essa sussiste. E di converso, a procedere dall’Unità Suprema dell’Identità Divina, la Rivelazione procede di livello in livello, dalla guisa delle pure essenze angeliche sovraformali, sino a fissarsi, attuandovisi come pura visione intellettuale, nel cuore stesso del Profeta (S) (Santo Corano, 2:97), centro del suo proprio essere e dell’essere del mondo, donde procede all’esterno sotto forma di parole (Qur’an significa in arabo “recitazione”).
Ora, una siffatta conformazione del Messaggio Divino richiede una mediazione, un’esegesi (Tawil) esoterica, che non si limiti alla persona storica del Profeta (S), ma ne manifesti l’essenza, la Luce Muhammadica, bel al di là della sua vita mortale, garantendo così la continuità ontologica della Rivelazione all’intera comunità dei credenti, e la sua esegesi esoterica alla cerchia più ristretta degli iniziati, degli gnostici. E’ questa la funzione dell’Imam (as) successore del Profeta (S), depositario e garante della Legge Rivelata, quantunque non ne sia il promulgatore. L’Imam (as) è pertanto anch’egli investito della Wilayat muhammadica, dove il termine araboWilayat, nella sua ampiezza e complessità etimologica, include tutta una varietà di significati che vanno dal magistero esoterico proprio ai misteri della pura visione intellettuale, sino al legittimo potere temporale. Afferma un celebre Hadith, che se il Profeta (S) è la città della conoscenza, Alì (as), il primo Imam, ne è la porta.
D’altra parte, il ciclo dell’imamato, a differenza di quello della profezia, non è un ciclo chiuso, ma è tuttora aperto. L’ultimo degli Imam (aj) non è affatto morto, né tantomeno è asceso al cielo, ma si è soltanto occultato (ghayba), a causa dell’indurimento spirituale dell’umanità, ma ciò non toglie che, a dispetto di questa sua invisibilità, peraltro temporanea, egli continui tuttavia a sussistere, anche corporalmente, presso la comunità dei credenti, nel pieno esercizio della funzione di polo propria alla Luce Muhammadica dell’Insanal Kamil, l’Uomo Universale. Questa dottrina dell’occultamento, invece di complicare la situazione, dà invece ragione di tutta una serie di dati di fatto. L’umanità, a dispetto della perfezione dell’ultima legge, promulgata da Dio tramite Muhammad (S), è sempre più lontana dalla pienezza ontologica dello stato primordiale. Ed è proprio questa sua lontananza a dar ragione della perfezione stessa dell’Islam, del suggello della Rivelazione, nella sua capacità di resistere, di imporsi e di dare forma ad un mondo sempre più ostile, sempre più lontano dalla retta via, dalla Via di Dio, capacità del tutto sconosciuta alle altre forme tradizionali, o adattatesi ai tempi “radiosi” delle “magnifiche sorti e progressive”, o ridotte ad una sopravvivenza pressoché larvale.
A questa stregua, è evidente come per l’Islam si tratti non tanto di opporsi, quanto piuttosto d’imporsi alla modernità, intesa quest’ultima come l’insieme delle condizioni effettuali del nostro tempo, rigettandone invece senza possibilità di compromesso il modernismo nihilista. Ciò significa, pur con tutte le riserve che un simile modo d’esprimersi può comportare, “islamizzare la modernità”, e non certo modernizzare l’Islam.
La modernità viene assunta a questa stregua nella sua mera esteriorità condizionale, al fine di combattere la modernità stessa, ovvero per combatterne l’essenza, il modernismo nihilista, nel suo senso prima ontologico che dottrinale. Si può ben dire a questo riguardo, che mentre le altre Tradizioni tendono a farsi ridurre a mere sovrastrutture del nihilismo occidentale, o a farsi ricacciare in una dimensione ineffettuale di completa impotenza operativa, l’Islam al contrario si mostra capace di assumere la modernità strumentalmente, rifiutandola nella sua essenza. Ora, ciò non toglie che una siffatta situazione di condizionalità esteriore sia pur sempre destinata a provocare di rimbalzo una reazione di ispessimento, di indurimento spirituale.
Nel gioco di azioni e reazioni del mondo dell’esteriorità, lo strumento stesso tende ad esercitare una sua azione su quanto agisce per suo tramite, e a ciò si aggiunga l’inevitabile influenza dell’ambiente esterno in generale, ovvero in quel che si vuole controbattere con questo medesimo strumento. Stando così le cose, in virtù della corrispondenza simbolica delle vicende esteriori della missione profetica ed imamica, ci pare che siano affatto evidenti le ragioni dell’occultamento sensibile dell’Imam (as), a dispetto della sua persistente presenza corporale, oltre che spirituale, con il che nulla viene tolto alla sua funzione in seno alla Comunità dei Credenti.
Tutto ciò non toglie che la Walayat dell’Imamato, che coincide in sostanza con quella profetica, sia presente alla comunità in due guise differenti, ed in ragione della persona stessa dell’Imam (as), della sua funzione polare, ed in ragione del magistero di coloro che sono i suoi legittimi rappresentanti visibili. Ma questa medesima rappresentanza, in virtù della fonte della sua legittimità, ha un carattere affatto particolare, presentando anch’essa due aspetti, un aspetto interno, esoterico, ed un aspetto esteriore, in conformità con l’articolazione eminentemente simbolica del Messaggio Profetico. Si può pertanto bene affermare a questo medesimo riguardo, che nella Shi’a, almeno in linea di principio, non si ha nessuna frattura tra il dominio esoterico e quello essoterico, ovverosia tra i relativi magisteri, quantunque non sempre una coincidenza siffatta abbia a verificarsi di fatto nelle singole persone. Ed è questa invero una prerogativa della Shi’a duodecimana, che la distingue della altre correnti sciite (principalmente Ismaeliti e Zaiditi).
Per quel che riguarda queste altre correnti, gli Ithna-Ashari (duodecimani) si distinguono in primo luogo dai Settimani (Ismaeliti) in ragione dell’equilibrio, meglio, di una compiuta articolazione consequenziale tra i due domini suddetti, la quale fa sì che dal dominio interiore della gnosi (irfan) discenda l’ambito esteriore, in tutte le sue varie specificazioni, per via di una subordinazione gerarchica e ontologica che ne definisce la necessità in relazione agli ambiti particolari. Nell’Ismailismo si assiste invece ad una vera e propria unilateralizzazione dell’esoterismo, che tende ad annettersi indebitamente dominii ad esso subordinati, che se ne distinguono pur derivandone. E’ evidente come ciò comporti una rottura della catena delle mediazioni tra principio e applicazione, tra fine e strumento, foriera, oltre che di perniciose confusioni dottrinali, di un esclusivismo esoterico che, incapace di incidere sulla realtà concreta del nostro mondo, finisce con l’accettarla in toto, come stanno a dimostrare di fatto gli esiti modernisti e filo-occidentali di certo Ismailismo contemporaneo.
Dalla parte opposta, gli Zaiditi (Shi’a dei 5 Imam) finiscono dal canto loro con l’unilateralizzare il lato temporale, politico dell’Imamato, aspetto al quale giungono a subordinarne la stessa legittimità, il che comporta un vero e proprio svuotamento delle sue prerogative trascendenti, ed una sclerotizzazione incapacitante nell’ordine dello stesso dominio storico (gli Zaiditi sono ancor oggi la corrente predominante nello Yemen). E’ evidente come l’una e l’altra deviazione, alle quali possono essere ricondotte quelle delle correnti minori (alawiti, batiniti, drusi), siano da addebitarsi al distacco dall’ortodossia sciita, ovverosia dal magistero vivente dell’Imamato, culminante nel dodicesimo Imam (aj), distacco che comporta, come si è detto or ora, unilateralizzazioni e vere e proprie distorsioni.
Per quel che riguarda invece i Sunniti, il discorso si fa più complesso, e i suoi sviluppi ci riporteranno al tema donde aveva preso le mosse, ovverosia alla peculiarità che contraddistinguono la Shi’a nel mondo contemporaneo come forza d’opposizione all’imperialismo occidentale. Si era già detto dinanzi che alla morte del Profeta (s) la controversia che oppose Sciiti e Sunniti riguardò sia la questione del potere temporale che quella dell’autorità spirituale, ambito quest’ultimo includente a sua volta i due aspetti della giurisprudenza (fiqh), e del magistero esoterico, della gnosi.
Ora, gli Sciiti erano dell’avviso che i tre ambiti suddetti andassero congiunti nella persona concreta dell’Imam e nella dignità d’origine trascendente che gli compete nella sua qualità di discendente e legittimo successore del Profeta (S), essendo pertanto la necessità della sua funzione in rapporto alla Comunità dei Credenti (Umma) e al mondo intero d’ordine eminentemente metafisico, il che comporta che la sua designazione sia d’origine divina, e sia pertanto prerogativa del Profeta (S) prima, e poi degli Imam (as) suoi successori, in quanto depositari di una Wilayat che ne fa degli interpreti infallibili della volontà di Dio; presso i Sunniti al contrario questi aspetti, quantunque vadano di pari passo, non sono necessariamente congiunti in una singola persona. La designazione di Ghadir Khum, fonte del legittimismo e delle rivendicazioni alidi, si riduce per i Sunniti ad un evento meramente incidentale, che non può fondare le pretese al Califfato da parte di Ali (as) e dei suoi discendenti, non costituendo un’investitura, una designazione.
Ma al di là di queste diatribe esteriori, la controversia è ben più profonda. Il fatto è che a questa stregua il potere temporale, a dispetto della sua pretesa legittimità, non viene ad essere necessariamente legato all’autorità spirituale. Non soltanto, ma la stessa autorità spirituale, una volta che non sia più prerogativa di un’unica persona designata per volontà divina, si scinde nei suoi due aspetti interiore ed esteriore, aspetti che finiscono col rendersi completamente autonomi e tra di loro, e nei confronti del potere temporale. Sicché nel mondo sunnita si assiste al concretizzarsi di questa duplice scissione, che si origina dal venir meno, con la persona storica del Profeta (S), dell’unità stessa della sua Walayat.
Da un lato dunque il califfato, che ha la tendenza a ridursi, sia pur nell’ambito di quello che rimane pur sempre un universo tradizionale completo, a mero dato di fatto temporale; dall’altro canto la dimensione gnostica ed esoterica, che tende a separarsi dal dominio essoterico, e per ciò stesso ad esteriorizzarsi e a strutturarsi in tutto un complesso sia organizzativo, che dottrinale ed operativo (le Turuq del Sufismo), che il più delle volte la rende addirittura sospetta all’ortodossia esteriore; ed in mezzo ai due, la giurisprudenza, il Fiqh, intesa nel senso onnicomprensivo che le compete nell’universo tradizionale musulmano, di complesso della normativa sacra, d’origine divina, che regola la vita sia del singolo che della comunità, non riducendosi al mero ambito politico e sociale, ma includendolo a procedere dalla sfera dei rapporti diretti tra Dio ed il mondo umano, ovverosia dalla sfera della religione, o piuttosto di ciò che in Occidente si è convenuto, in senso del tutto limitativo, di contraddistinguere con un tale nome.
Per quel che riguarda il primo aspetto, il Califfato non viene necessariamente a coincidere con la pienezza stessa dell’autorità spirituale, quantunque, sempre dal punto di vista sunnita, questa coincidenza venga a verificarsi provvidenzialmente per i primi 4 Califfi. A questa stregua, il Califfato, invece di essere intimamente connesso all’autorità spirituale ed alle relative qualificazioni e prerogative, finisce col ridursi ad una mera questione di legittimità esteriore, formale, e con ciò ad una e pura e semplice funzione. E quantunque i criteri di legittimazione non vengano definiti univocamente per i primi 4 Califfi, ciò non toglie che essa venga da ultimo a stabilirsi definitivamente sulla base di un fatto compiuto dal carattere provvidenziale: al Khalifah, successore e vicario del Profeta (S), almeno nell’ordine temporale, accade d’essere designato in virtù o della scelta del suo predecessore, o di una successione di tipo dinastico, come avverrà nei tempi più tardi, o di elezione da parte dei Compagni del Profeta, anche di un loro gruppo ristretto (è il caso di Abu Bakr ed Othman).
Stando così le cose, la successione finirà con l’essere caratterizzata da una debole connotazione di legittimità formale, sino alla catastrofe dell’impero ottomano, allorché, venuta meno la successione dinastica, e ritrovandosi la Comunità dei Credenti nell’impossibilità obiettiva di darsi una nuova guida, questa vetusta istituzione avrà definitivamente termine. Situazione per certi versi analoga a quella dell’Occidente cristiano, dove l’autorità spirituale, avendo cooptato un potere temporale fondato su criteri di legittimità derivati dalla tradizione romano-germanica, e ad essa del tutto estranei, finirà col ritrovarsene del tutto priva, senza nessuna possibilità di restaurazione, una volta che la Rivoluzione Francese avrà spazzato definitivamente la continuità della monarchia di diritto divino, condannando l’Occidente al triste destino della secolarizzazione. Nell’uno e nell’altro caso, mutatis mutandis, si ha una separazione che viene risolta solo dalla compresenza dei due dominii nel singolo universo tradizionale, senza che la loro unità venga ad esplicitarsi e ad ipostatizzarsi in un depositario vivente della loro legittimità.
Stando così le cose, appare ben chiaro per quale ragione il mondo sunnita manifesti talora la tendenza ad appoggiarsi a strutture di potere meramente secolari, ed a riconoscere l’autorità di capi politici assolutamente avulsi da ogni qualificazione tradizionale, a dispetto della completezza della legislazione islamica, che non prevede nessuna scissione tra il dominio temporale e quello spirituale, e tra l’ambito individuale e quello collettivo, a differenza di quante avviene nell’Occidente contemporaneo, che ha finito in un certo qual senso col ridare al Cristianesimo la sua collocazione interioristica originaria, a tutto favore del laicismo trionfante.
Tutto ciò però nulla ha a che vedere con l’universo sciita. Con questo non si vuole affatto negare che il mondo sunnita abbia costituito in passato, e sia tuttora in grado di costituire, sotto certe condizioni, una realtà tradizionale completa. Il fatto è che lo Shi’a ha dalla sua il principio concreto e vivente di questa medesima totalità. Ciò non toglie peraltro che anche nel mondo sciita si siano determinate situazioni di separazione tra i vari ambiti della totalità tradizionale, nella fattispecie per quel che riguarda il potere temporale, come dimostra la storia delle sue stesse origini. Ma quel che importa sotto questo riguardo, è che si sia trattato di una separazione di fatto, e mai di principio, dove il principio va di nuovo inteso in un senso concreto e vivente, in quanto attuantesi nella persona del singolo Imam (as).
Gli Imam (as) poterono esser sì privati del Califfato, ma giammai del loro superiore diritto a questa medesima funzione, in virtù di una legittimità scaturente dalla loro stessa qualificazione spirituale. Ed i loro successori, i Faqih (giurisperiti) sciiti, che sono in definitiva, per quanto si è detto in precedenza, i depositari della loro Walayat nel dominio visibile, a prescindere dalla presenza anche corporale dell’Imam Occulto (aj), siano stati sovente costretti ad assumere un atteggiamento di distacco nei confronti di strutture temporali divenute loro estranee, non hanno mai per ciò rinunziato in linea di principio alla compiutezza della loro funzione, che è anche d’ordine politico e sociale.
Sicché, allorquando l’Imam Khomeyni compose la sua opera sulla Wilayat al Faqih, altro non fece se non richiamare l’attenzione su un principio ed una dato di fatto, in rapporto a circostanze obiettive che ne rendevano necessaria un’ulteriore esplicitazione, non certo in vista di un adattamento passivo, ma al fine di estrinsecare appieno la capacità dell’Islam di imporsi alla realtà più estranea ed irriducibilmente ostile, ovverosia alla modernità occidentale. Ed è evidente come con ciò il cerchio si chiuda, e rientrino in gioco le nostre previe considerazioni sull’imperialismo.
Si è visto in precedenza come l’elemento posto a fondamento dell’imperialismo occidentale sia il nihilismo modernista, inteso non tanto in senso dottrinale, quanto piuttosto come concretezza ontologica ed operativa. Al cospetto di questa sostanziale negatività, sia fittizia che reale nel contempo, si pone l’Islam, nella sua qualificazione tradizionale di legge fisica e metafisica che conferisce agli enti una distinzione ed un ordine, ovverosia una gerarchia di dignità e di funzioni corrispettiva al loro contenuto ontologico, al di là d’ogni indifferentismo e d’ogni separazione. Legge costitutiva, nella sua generalità fondamentale, della natura stessa degli enti oltre che della loro articolazione, essa si definisce in una guisa eminente nell’ambito umano, in cui si configura come legislazione attuativa della natura intellettuale, e quindi della stessa libertà della persona, nella sua dimensione individuale così come in quella collettiva.
Da una parte dunque il dominio del disordine, dell’incoerenza, della confusione, della separazione, dall’altra il proposito e il tentativo di dar forma ed esistenza a tutto un mondo d’armonia e di giustizia, in piena conformità con una natura propria traentesi da una suprema pienezza ontologica trascendente ed esemplare, sia pur come prefigurazione minore di una compiutezza finale a cui sarà possibile pervenire soltanto grazie all’opera dell’Imam Mahdi (aj), allorquando Egli si manifesterà. E’ questo a nostro avviso il senso autentico dell’opposizione tradizionale all’imperialismo occidentale, dato che di questo s’abbia presente il significato profondo, oseremo dire abissale.
La lotta all’imperialismo è e deve essere innanzitutto d’ordine metafisico e spirituale, non potendosi ricondurre ad un semplice tentativo d’aggiustamento di particolarità empiriche, con una sorta di applicazione del principio riduzionistico della “falsificazione” proprio alla modernità. Si tratta invece di operare una rottura di livello, rimettendosi in connessione con ordini di realtà quasi del tutto obliati, che possono dar forma e ragion d’essere alla nostra esistenza empirica. E non si tratta a questa stregua di iniziative o di individui isolati, o di squallide conventicole neospiritualistiche dalla fantasia più o meno fervida, ma della realtà stessa dell’universo tradizionale in tutta la sua completezza, ivi incluso il suo livello effettualmente operativo, anche nella guisa della combattività esteriore.
Ma abbiamo già detto quale sia la funzione peculiare dell’Islam in un contesto siffatto, e come all’interno dello stesso universo musulmano, in un simile ordine d’idee, la Shi’a assuma a sua volta un rilievo del tutto particolare. Stando così le cose, non è certo un caso che l’iniziativa nelle lotte anti-imperialiste in molte parti del mondo sia stata presa proprio da ambienti sciiti. In una prospettiva siffatta l’evento della Rivoluzione Islamica iraniana manifesta tutta la sua straordinaria importanza. Essa costituisce l’inveramento delle virtualità operative della Shi’a, e la dimostrazione a posteriori della validità dei suoi principi, d’ordine eminentemente metafisico.
A questo riguardo non è certo un caso che la sua Guida politica e spirituale sia stata in vita anche un eminente gnostico, che associava questa sua funzione, conformemente a quello che è il carattere proprio del mondo sciita, a quella esteriore di Marji’ al Taqlid (sorgente dell’imitazione) a cui vanno le prerogative religiose in senso essoterico, giurisprudenziale. Né va taciuto a questo medesimo riguardo il fatto che la giurisprudenza sciita è contraddistinta dalla continuazione dello ijtihad, ovverosia della deduzione delle applicazioni giuridiche dei principii della Rivelazione, ad ulteriore conferma del ruolo dell’Imam (as) nei confronti della Comunità dei Credenti, e della sua presenza reale nel nostro mondo che lo rende possibile.
Una continuità siffatta è invece del tutto ignota al mondo sunnita, dove lo ijtihad ha avuto definitivamente termine con la sistematizzazione delle quattro scuole giuridiche. E’ evidente come tutto questo ordine di realtà nulla abbia a che vedere con la campagna di disinformazione scatenata dalla propaganda occidentale, il cui uso è a nostro avviso anche, e forse soprattutto, interno allo stesso Occidente, avendo essa tra i suoi fini quello d’impedire che le virtualità anagogiche di un evento esemplare quale la Rivoluzione Iraniana abbiano da noi la sia pur minima possibilità d’attuazione. Ed è certo motivo di meraviglia per chi non abbia dimestichezza con un simile ordine d’idee, scoprire che l’Imam Khomeyni era, prima che un politico o un giurista, uno gnostico ed un metafisico, autore, a dispetto dell’ampiezza della sua attività pubblicistica, di un solo opuscolo d’argomento politico. E non è neppure un caso che sia stato proprio il mondo sciita, e nella fattispecie quello iraniano, a dare al nostro secolo, oltre all’Imam Khomeyni, l’altra grande luce del firmamento della gnosi islamica, Ayatullah Tabatabai. Noi riteniamo che questa circostanza sia forse più significativa delle più complesse argomentazioni.
Il fatto è che, così come la comunità muhammadica di Medina restaurò a suo modo lo stato edenico riattualizzando la Tradizione Primordiale, e così come il Califfato di Alì (as) ricostruì a sua volta la comunità del Profeta (S); del pari la Rivoluzione Iraniana altro non ha fatto se non ricostruire, in questa medesima prospettiva, un governo islamico capace d’adoperarsi per la ricostruzione d’una autentica società islamica, senza peraltro prescindere dal fatto fondamentale che una ricostruzione siffatta potrà aver luogo nella sua compiutezza e perfezione soltanto all’avvento del Mahdi (aj), ovverosia, nella prospettiva sciita, allorquando l’Imam Occulto (aj) si renderà di nuovo visibile.
Nulla pertanto che abbia a che vedere col progressismo occidentale, in ragione del duplice rapporto di pienezza ontologica del principio del ciclo attuale, e con quella della restaurazione tradizionale che ad esso porrà termine, contrapponendosi alla sua degenerazione, allorché l’inviato di Dio, Discendente di Muhammad (S), di Alì (as) e di Fatima (as), “colmerà il mondo di giustizia e d’armonia, dopo che esso sarà stato ricolmo d’empietà e di tirannide”, come recita un celebre Hadith profetico. E’ pertanto proprio questa tensione metafisica ed escatologica, che nulla ha a che vedere col progressismo modernista, orientata com’è in caso verticale, e non orizzontale, in una direzione trascendente che si ricollega alla rottura di livello con cui avrà termine il nostro ciclo, è appunto questa tensione a caratterizzare l’anti-imperialismo sciita.
Non si tratta a questa stregua di ridare attuazione a realtà desuete e premoderne, almeno in un senso meramente storicistico. La premodernità di una concezione siffatta e del suo principio fondante è invero anteriore al tempo stesso, di cui l’Imam Occulto (aj) è il Signore, e nulla ha a che vedere con le sue categorie. E la forma stessa che una realtà sacra d’ordine metafisico è in grado di imporre e d’imprimere all’effettualità contemporanea, ne fa alcunché d’equivoco nei confronti della modernità, d’assolutamente irriducibile ad essa, capace peraltro d’usarne gli elementi, data che abbia loro questa nuova qualificazione, in una prospettiva di restaurazione tradizionale.
A questa stregua, la stessa coincidenza tra le forme esteriori della legislazione sacra non ha un carattere meramente storico, ma va riferita al dominio superiore dei principi metafisici. Nulla pertanto che abbia a che vedere con il preteso “oscurantismo integralista” e con i relativi sproloqui isterici. Non è di questo che si tratta. La legge tradizionale non è antica o moderna, ma è Legge e basta. Quel che conta ed è essenziale a questo riguardo, è la presenza di un collegamento effettivo col dominio metafisico, che ne consenta una riattualizzazione di quel medesimo ordine. Questo ricollegamento, concreto e vivente nella Shi’a, finisce con l’andar perduto in forme d’esteriorismo letteralista antignostico ed antimetafisico quali il Wahabismo saudita. E non è certo un caso a nostro avviso, che laddove i Wahabiti si sono ridotti a fare da lacchè all’imperialismo e da cavallo di Troia della sua penetrazione politica, economica e militare nel mondo islamico, a dispetto di tutto il loro rigorismo, la Shi’a all’incontro, proprio in ragione della sua dimensione gnostica, sia divenuta anche nel mondo esteriore l’avanguardia più combattiva nella lotta dei popoli “nobili e oppressi” contro la prevaricazione occidentale.
Lo stesso mondo sunnita si trova a questo riguardo, per tutto quanto si è detto in precedenza, in una disposizione non molto felice, data la mancanza di una connessione esplicita della sua completezza tradizionale, anche se ciò in definitiva nulla toglie alla capacità d’opporsi all’imperialismo mondialista, che è prerogativa dell’intera Umma Islamica, e non di una sua singola componente. Ciò non toglie che sia rilevabile nelle lotte antiimperialiste di parte sunnita una certa incapacità di pervenire a risultati concreti, ed una certa diffusa passività, se non addirittura accondiscenza, nei confronti dei regimi interni, invariabilmente, tranne rarissime eccezioni, filo-occidentali. Stando così le cose, appare a nostro avviso indubitabile che alla Shi’a vada riconosciuta in questa fine di secolo (e forse di ciclo) una funzione primaria di guida, che peraltro non necessariamente si riduce al solo mondo musulmano, ma è suscettibile d’ulteriori estensioni.
Noi riteniamo, e non sembri temeraria questa nostra opinione, che la stessa Europa tutto abbia da imparare dall’esperienza sciita, e nella fattispecie iraniana, traendone ispirazione in ordine a tutti quegli elementi che possano fungere da motore di una sua autonoma rigenerazione sia politica che spirituale, quantunque essa abbia sinora quasi del tutto disatteso questa opportunità. Il fatto è che la Rivoluzione Islamica Iraniana è stata la prima reazione vittoriosa alla prevaricazione della modernità nihilista. E l’evento non è stato certo casuale, alla luce di quanto s’è detto in precedenza. Non soltanto, ma per di più questa medesima vittoria non è stata meramente episodica, ma è stata all’origine di un processo di continuo rafforzamento e consolidamento che fa oggigiorno dell’Iran Islamico un baluardo formidabile contro la sovversione modernista, la cui importanza è esaltata dalla sua posizione geopolitica, al centro delle principali vie di comunicazione del Continente Antico e delle rotte del petrolio.
Stando così le cose, in ragione dei principi metapolitici che stanno alla base di questo evento epocale, ed in considerazione dello stesso svolgersi degli avvenimenti, tutte le aspettative delle centrali della sovversione mondialista sono destinate a venire puntualmente disattese. Ne siamo fermamente convinti. Tutti gli assalti e tutte le macchinazioni dell’imperialismo si sono finora infranti contro quella che si è dimostrata una roccaforte veramente inespugnabile, e nulla autorizza a prevedere che in futuro la situazione possa cambiare. Tutti i mezzi sono stati adoperati per eliminare quello che per l’Occidente modernista americanocentrico ed il suo mentore Israele, più che una spina nel fianco, è diventato un vero e proprio incubo: i bombardamenti indiscriminati, i veleni chimici, le sanzioni economiche, il terrorismo interno ed internazionale, i complotti, le campagne propagandistiche di disinformazione, e via dicendo: a questa galleria degli orrori mancano per ora solo le armi nucleari. A dispetto di tutto questo, l’Iran Islamico è stato capace non soltanto di resistere, ma anche di contrattaccare; ed al rafforzamento interno, ha fatto da controparte la crescente combattività delle altre comunità sciite, prima fra tutte quella libanese, che costituisce oramai una minaccia non indifferente per il cuore stesso della sovversione antitradizionale, per Israele, avendo infranto una volta per tutte il mito dell’invincibilità delle sue forze armate.
Venute meno le speranze di una disfatta militare, di un collasso economico, o di un crollo interno di tipo sovietico, l’Occidente si limita attualmente ad accreditare propagandisticamente la tesi della inevitabilità d’una evoluzione interna dovuta a non si sa quali fallimenti. Non è una tattica nuova. Di quando in quando, in occasioni di consultazioni elettorali, così come avvenne alla morte dell’Imam, i mezzi d’informazione occidentali si profondono in squinternate elucubrazioni sulla presunta fine della Rivoluzione, che non hanno riscontro se non nella loro fervida fantasia, e vanno di pari passo con gli sproloqui deliranti sulle pretese attività terroristiche iraniane, anch’esse inventate di sana pianta.
E da un po’ di tempo a questa parte, a dispetto di tutte le evidenze, e di tutte le smentite che i fatti stessi si incaricano regolarmente di dare, si è potuto notare un accentuarsi degli sforzi propagandistici in questa direzione, associati al tentativo di accreditare un’opposizione non più di tipo terroristico, o compromessa col passato regime, ma ripitturata alla bell’e meglio con lo specioso belletto dell’occidentalismo universalista e progressista, trattandosi evidentemente il più delle volte di un’opera di puro e semplice riciclaggio di elementi oramai completamente squalificati, se mai non lo furono.
Questi elementi si astengono per lo più dalla violenza del vecchio linguaggio, e preferiscono parlare di evoluzione pacifica, di adattamenti, di accordi. E’ questo evidentemente un tentativo d’infiltrazione, che ha per corrispettivo uno sforzo di penetrazione ben più sottile, d’ordine financo subliminale, avente per suo principale veicolo e focolaio d’infezione, a parte il consumismo puro e semplice, i più disgustosi sottoprodotti subumani della dissoluzione occidentale. La sovversione, conscia dei suoi ripetuti fallimenti, getta oramai la maschera, e mostra il suo vero volto, il più ripugnante, e nel contempo il più allettante per i più deboli. Ma al suo cospetto, eccezion fatta per pochi sbandati, non si ritrova certo una collettività privata del lume dell’intelletto e data in pasto alle sue più basse pulsioni emotive, ma la più combattiva delle comunità islamiche, formata interiormente ed esteriormente dai principi della Rivelazione Profetica. E per un occidentalismo modernista e nihilista che in un ultimo, disperato tentativo di vincere una partita che potrebbe essergli fatale, ha rinunziato alla sia pur minima parvenza di principio, noi ci auguriamo di cuore, e lo crediamo fermamente, che questo possa essere l’inizio della fine.
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