Leggere Azar Nafisi a Teheran

Leggere Azar Nafisi a Teheran

Seyed Mohammed Marandi*

Negli ultimi anni, in parte come risultato del successo di “Leggere Lolita a Teheran” di Azar Nafisi, alcuni membri della diaspora si sono spesi nella stesura di una manciata di memorie, quasi tutte profondamente inserite nell’agenda di raccontare l’Iran da una prospettiva transnazionale. In queste memorie la rappresentazione è quindi regolarmente intrecciata con altri scopi e proiezioni, opposti ai principi di accuratezza. In questo articolo si tenterà di dimostrare che “Leggere Lolita a Teheran” è l’opera di chi ha “occidentalizzato” la propria prospettiva, giacché Nafisi stessa conferma costantemente ciò che le rappresentazioni orientaliste hanno regolarmente affermato: l’arretratezza e l’inferiorità dei musulmani e dell’Islam. Si tenterà di mostrare come Nafisi abbia prodotto travisamenti grossolani della società iraniana e dell’Islam, e faccia utilizzo di citazioni e riferimenti imprecisi, fuorvianti o addirittura completamente inventati.

 

Parole chiave: Azar Nafisi, Leggere Lolita a Teheran, Iran, Memorie, Diaspora, Orientalismo, Marjane Satrapi, Persepolis.

 

Un aspetto importante dell'[opera] Orientalismo di Said è il suo esplorare i metodi attraverso i quali “l’Altro” è stato costruito dall’Occidente come suo opposto o alter ego barbaro, dispotico e inferiore. Questo “Oriente”, dunque, non è altro che una versione surrogata e sotterranea dell’Occidente o del “sé” occidentale (Macfie, 2002: 8), il quale, forte della sua posizione dominante, è persino in grado di dire la “verità” ai membri di culture non occidentali sulla loro condizione passata e presente, essendo gli occidentali capaci di rappresentare l’Oriente più “autenticamente”, “scientificamente” e “oggettivamente” dell’Oriente stesso. Una rappresentazione così “veritiera” non solo aiuta il colonizzatore o l’imperialista a giustificare le proprie azioni, ma serve anche a indebolire la resistenza dell’Altro, poiché muta il modo in cui questi vede sé stesso. Sebbene questo discorso sia stato generato in “Occidente”, sostiene Said, la sua influenza è così potente che spesso ha un impatto significativo anche sulle pratiche discorsive in “Oriente”. L’Altro potrebbe arrivare a reputare sé stesso e l’ambiente circostante come inferiori se non addirittura barbari, provocando una grave crisi nella sua coscienza, scontrandosi con potenti pratiche e “conoscenze” discorsive rispetto al mondo. L’eurocentrismo, di conseguenza, influenza, altera e persino aiuta a produrre le culture dell’Altro.

Negli ultimi decenni, all’interno del discorso orientalista, una tendenza significativa è stata l’emergere di un orientalismo indigeno che possiamo rintracciare nelle opere di alcuni studiosi e pensatori, indicati a volte come “menti prigioniere”, “brown sahib” o “orientali orientalizzati”, un concetto in qualche modo simile a ciò che Malcolm X chiamerebbe “negro da cortile” (1963; citato in Rudnick, Smith e Rubin, 2006: 123).

Questi orientalisti locali vengono definiti dalla loro schiavitù intellettuale e dalla loro dipendenza dall’Occidente. Una mente prigioniera non è acritica; è però, per la maggior parte, critica per conto dell’Occidente. L’“orientale orientalizzato” è colui che può risiedere in “Oriente” o in “Occidente”, ma che spiritualmente trova il suo sostentamento in Occidente. Una persona del genere è il non-occidentale che si fa principalmente a immagine dell’Occidente. La storia, le esperienze, i movimenti e le aspettative occidentali, per una persona del genere, sono più comprensibili e soddisfacenti di tutto ciò che esiste in Oriente.

Un esempio ideale di un simile surrogato coloniale è Azar Nafisi, che conferma ciò che le rappresentazioni orientaliste hanno regolarmente affermato: l’arretratezza e l’inferiorità dei musulmani e dell’Islam. La scrittrice in questione potrebbe essere assunta quale ottimo esempio dell’intellettuale comprador iraniano, un membro dell’intellighenzia Gharb-zadeh (un termine reso attuale da Jalal Ali-Ahmad, il famoso critico e intellettuale iraniano, che potrebbe essere tradotto come “occidentalizzato”), piuttosto che di un intellettuale vero e proprio. Nel suo presunto libro di ricordi di vita in Iran, Leggere Lolita a Teheran, ella mostra una straordinaria mole di disprezzo verso tutto ciò che ha a che fare con l’Islam, dovuto almeno in parte al fatto che la sua famiglia faceva parte della ristretta cerchia al potere nel Paese durante la brutale dinastia Pahlavi. In Iran entrambi i suoi genitori erano insediati come funzionari di alto rango in un momento in cui lo Scià, sostenuto dagli americani, sovrintendeva l’applicazione di brutali misure contro qualsiasi forma di dissenso. Proviene dunque da una famiglia estremamente ricca, che ha tratto immensi benefici dai suoi legami con il monarca. Nel libro descrive l’ultimo primo ministro dello Scià come un individuo molto “democratico e lungimirante” (p. 113), sebbene, durante il suo breve mandato prima del rovesciamento del regime, migliaia di persone che avevano preso parte a manifestazioni in tutto il Paese a sostegno dell’Ayatollah Khomeini vennero uccise nelle strade.

Cresciuta e formatisi in Europa e negli Stati Uniti, in tutto il libro Nafisi mostra un chiaro pregiudizio a favore di chiunque abbia un’istruzione occidentale. Parla della sua “sofisticata amica di istruzione francese Leyly” (p. 278), mentre il suo mago nel ragionare utilizza “la propria formazione britannica” (p. 281). Nafisi vede la salvezza per gli iraniani possibile attraverso la letteratura inglese, il pensiero e i valori occidentali e un’istruzione occidentale, ritenendo la green card addirittura come “uno status symbol” (p. 299). Ricorda uno dei personaggi centrali di “I Mimi” di V. S. Naipaul: “Fingevamo di essere veri, fingevamo di imparare e prepararci alla vita, noi mimi del Nuovo Mondo, di un piccolo angolo sconosciuto con tutte le sue tracce di corruzione che subito faceva marcire il nuovo” (Naipaul, 1967: 146); si tratta di una vera donna mimica. Pensa molto “alla vita, alla libertà e alla ricerca della felicità” (p. 294), che è, significativamente, una delle frasi più famose della Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti.

Il suo vero amore era Ted, che “mi regalò una copia di Ada, con una dedica sul risvolto: ‘Per Azar, la mia Ada, Ted’” (p. 84). Il suo eroe è Henry James che, come lei sottolinea, scrisse Propaganda di guerra nel 1914-1915 e fece appello all’America “di intervenire nel conflitto” (p. 229). Secondo Nafisi, James “esprimeva tutta la sua ammirazione per il coraggio che ritrovava sia nei ragazzi che andavano al fronte sia in chi restava a casa ad attenderli” (p. 230). Ironia della sorte, in tutto il libro descrive gli iraniani che hanno fatto la stessa cosa, durante la guerra che Saddam Hussain e i suoi alleati occidentali hanno imposto all’Iran, come fanatici e zeloti.

Nafisi afferma addirittura che gli iraniani siano essenzialmente diversi dagli americani, ripetendo così quanto affermato dagli orientalisti nel corso dei secoli: “Noi che abitiamo in paesi antichi, spiegai, abbiamo un passato, e non ce ne stacchiamo mai. Loro, gli americani, hanno un sogno: sentono nostalgia per la promessa del futuro” (pag. 109).

Quando lo zio preferito di Yassi, una allieva di Nafisi, che vive negli Stati Uniti, viene in Iran per una vacanza, inculca nuove idee nella testa della ragazza. È diverso da chiunque altro in famiglia e ha un’influenza molto positiva su Yassi: “Era paziente, attento, incoraggiante e allo stesso tempo un po’ critico, sottolineando questo piccolo difetto, quella debolezza” (p. 283). La sua personalità e la sua influenza morale eccezionali sono chiaramente legate al fatto che vive negli Stati Uniti. L’uomo superiore occidentalizzato benevolmente inietta “le idee nella testa di Yassi” (p. 283) per elevare la sua mente a criteri occidentali.

Era lui a insistere perché si trasferisse in America. Ai suoi occhi avidi tutto ciò che le raccontava della vita oltreoceano – situazioni che per lui erano perfettamente normali, semplice routine – diventava magico” (p. 283).

In parte, l’orgoglio di Nafisi per suo padre, che è andato in prigione per presunta appropriazione indebita di fondi pubblici in qualità di sindaco di Teheran, sembra esser dovuto ai suoi legami con l’Occidente.

“[…] Lo avevo visto su Paris Match, in una grande foto a colori accanto al generale de Gaulle. Non c’erano né lo Scià né altri dignitari – solo il generale e papà [. . .] Più tardi seppi che al generale era piaciuto molto il discorso di benvenuto di mio padre, tenuto in francese e infarcito di allusioni a grandi scrittori come Chateaubriand e Victor Hugo. De Gaulle decise addirittura di premiarlo con la Legion d’Onore” (p. 53).

Per il suo lavoro anche Nafisi, al pari di suo padre, è stata naturalmente ben ricompensata – tra gli altri – dai neoconservatori, data la facilità con cui si è adattata alla politica anti-iraniana contemporanea degli Stati Uniti e dell’“Occidente” in generale (vedi Rowe, 2007). Il successo di questo libro ha avuto anche altri vantaggi, in quanto ha portato alla nascita di un intero genere di memorie mediocri, molte delle quali di donne iraniane che vivono negli Stati Uniti o in altri Paesi occidentali. Molte di queste memorie, come quella di Nafisi, fanno emergere l’intero tropo orientalista del velo, perpetuato ora dalle donne “native”.

Nei suoi tentativi di “liberare” le menti dei giovani iraniani, Nafisi utilizza le opere di autori inglesi del diciannovesimo secolo come Jane Austen, nonostante sia ampiamente riconosciuto che la letteratura inglese di quell’epoca fosse profondamente legata al colonialismo. Significativamente, una delle opere principali di Jane Austen, Mansfield Park, è ritenuto da molti critici un testo profondamente intriso di colonialismo. In questo romanzo l’assenza di Sir Thomas Bertram da Mansfield Park, a causa della necessità di gestire la sua piantagione di Antigua, porta al decadimento morale tra i giovani lasciati alle cure inadeguate di due donne, sua moglie, Lady Bertram, e la signora Norris. Edward Said sostiene che la posizione di Sir Thomas Bertram a casa può essere compresa solo con riferimento alla sua condizione di proprietario di piantagioni nell’isola caraibica di Antigua: la sua tenuta nell’Inghilterra “civilizzata” è supportata e sostenuta da un’altra tenuta che viene mantenuta da schiavi “incivili” a migliaia di chilometri di distanza (Said, 1994). Quando Sir Thomas torna poi a Mansfield Park, ristabilisce rapidamente l’ordine con un’ipocrisia che, si può presumere, tradisce le sue maniere nei confronti dei propri schiavi nella piantagione.

In questa battaglia per catturare i cuori e le anime dei giovani iraniani, Nafisi mostra poco rispetto per i professori universitari iraniani – tranne, ovviamente, per sé stessa. Sembra che l’unica università del Paese in qualche modo progressista (p. 13) fosse l’Università Allameh Tabatabai; altre università non hanno professori degni (p. 179). Questa affermazione, forse, è stata influenzata dal fatto che ella stessa insegnò alla Allameh Tabatabai; è difficile capire come possa giudicare le altre duecento e più università presenti in tutta la nazione. Docenti di altri atenei, come l’Università femminile Alzahra, liquidata da Nafisi come “questa cosiddetta università” (p. 220), vengono descritti come del tutto ignoranti (pp. 185, 220). Le studentesse dell’Università Alzahra, sostiene Nafisi, erano per lo più giovani donne disturbate per le quali “nessuno ha mai speso una parola buona” (p. 237). In realtà questa università ha sempre avuto alcune delle migliori e più brillanti giovani menti del Paese, insieme ad alcuni dei suoi migliori professori. Appare dunque lampante come sia davvero possibile leggere il suo cosiddetto libro di memorie come un buon esempio del ricorrente motivo orientalista di proiettare le proprie fantasie personali – più o meno megalomani, qui – sull'”Oriente” e sugli “orientali”.

Tra le tante persone che mette in caricatura nel suo libro ci sono rispettati docenti universitari, almeno uno dei quali è deceduto (pp. 69, 99, 294). Mentre Nafisi sembra credere che siano spesso ossessionati da lei, si può affermare che sia lei ad esserne ossessionata e pronta a tutti i costi a distruggerne la reputazione. Ovviamente, come tutti gli altri nel libro, anche la stragrande maggioranza degli iraniani che per qualsiasi motivo sostiene la Repubblica Islamica e partecipa alle elezioni, alle manifestazioni politiche e ad altri eventi pubblici, viene lasciata senza voce, ad eccezione di quella che l’autrice stessa ha imposto loro nella storia.

Nafisi è, ovviamente, l’eroe di questa storia, avendo insegnato segretamente Nabokov ai suoi otto discepoli a Teheran “contro tutto e contro tutti” (p. 10). Dimentica però di menzionare che, all’epoca, tra gli altri, proprio il suo rivale, l’odiato professor X, aveva studenti dell’Università di Teheran che su Nabokov scrivevano persino le loro tesi, dopo averne consultato i romanzi dalla biblioteca dell’università. Ha invece ben poco da dire sul mondo accademico “occidentale”: il suo silenzio implica che sia sfuggita alla tirannia per raggiungere la Terra Promessa.

Secondo Nafisi sembra che tutti gli uomini religiosi, come lo zio di Nassrin, siano stupratori, molestatori di minori (p. 57), ossessionati sessualmente (p. 32), “pervertiti” (p. 226), “maniaci” (p. 226) e che le loro controparti femminili siano altrettanto malvagie, con le loro “molestie sessuali” (pp. 182, 226). Paradossalmente, essere religiosi significa essere immorali.

Afferma infatti che tale perversione sessuale possa esser notata anche nei loro riti religiosi al pari che nella loro ideologia. Nelle loro cerimonie religiose, Nafisi sente “una frenesia selvaggia, quasi erotica” (p. 101), e quando ai milioni di iraniani che hanno preso parte alla cerimonia funebre dell’Ayatollah Imam Khomeini a causa del caldo estremo veniva spruzzata acqua per rinfrescarli, Nafisi afferma che “l’effetto era curiosamente sensuale” (p. 244). Non sono tuttavia soltanto tutti i religiosi e le religiose a essere pervertiti: anche gli uomini iraniani che vivono negli Stati Uniti sono quasi altrettanto malvagi. Sembra che anche loro siano tutti ossessionati da Nafisi: “Mi tenevo a distanza dalla comunità iraniana, specialmente dagli uomini, che avevano idee tutte loro circa la disponibilità delle giovani divorziate” (p. 93).

Le righe sopra sembrano dare un nuovo significato all’affermazione di Nafisi secondo cui “la nostra cultura ha scansato il sesso perché ne era troppo coinvolta” (p. 318). Tali affermazioni di sessualità deviante naturalmente possono rendere Nafisi, la psicologa pop, una volta ancora vulnerabile all’accusa di rivelare più sull’autrice che su ogni altra cosa.

Il fatto che Nafisi si descriva spesso come affetta da problemi psicologici (pp. 12, 24, 44, 46, 47, 85, 107, 170 e 171) ovviamente non diminuisce l’autenticità delle “memorie” agli occhi di molti critici occidentali, poiché le sue affermazioni rientrano perfettamente nelle rappresentazioni discorsive dominanti in Occidente rispetto all’Iran, all’Oriente e all’Islam. Può quindi muovere accuse selvagge e spesso contraddittorie e continuare a sembrare ancora autentica ai lettori occidentali, nonostante il fatto che gli iraniani che risiedono in Iran le considererebbero ridicole.

Nafisi racconta una storia che afferma di aver sentito da una delle sue studentesse, Nassrin, un’ex appartenente della temuta MKO, l’organizzazione terroristica “Mujahedin-e Khalgh” (un gruppo per il quale Nafisi sembra nutrire una certa simpatia). Questa organizzazione terroristica aveva sede nell’Iraq di Saddam Hussain, godeva di un forte sostegno occidentale e ha inoltre commesso innumerevoli crimini sia contro il popolo iraniano che contro quello iracheno.

Il racconto parla di una ragazza che sarebbe stata detenuta in una prigione iraniana:

C’era una ragazza di una bellezza strabiliante, credo fosse la sua unica colpa. L’avevano sbattuta dentro inventandosi un’accusa di immoralità, e l’avevano tenuta in carcere un mese, violentandola ripetutamente. Le guardie se la passavano tra di loro. In prigione la voce si è sparsa in fretta, perché la ragazza non era nemmeno una detenuta politica; la tenevano con i criminali comuni. Facevano sposare le ragazze vergini con le stesse guardie che più tardi le avrebbero giustiziate, perché, se fossero morte ancora vergini, sarebbero andate in paradiso” (p. 227).

Comunque, se questo è vero, ci si chiede perché le guardie carcerarie avrebbero presumibilmente sparato e ucciso alla ragazzina di dodici anni “mentre correva per il cortile della prigione in cerca della mamma” (p. 207). Nafisi e le guardie sembrano aver dimenticato la “filosofia” dei fondamentalisti delineata a pagina 227.

Gayatri Spivak, in Can the Subaltern Speak?, scrive di come la campagna britannica contro il sati sia stata un tentativo colonialista di salvare “le donne brune dall’uomo bruno” (Spivak, 1988: 296). Sebbene questo lavoro si basi sull’attenzione di lunga data dell’Occidente ai racconti orientali di schiavitù e violazione femminile, l’argomento di cui sopra sembra applicarsi anche qui, tranne per il fatto che tali atti di stupro non abbiano mai avuto luogo, in quanto una tale filosofia fondamentalista non esiste, se non nella mente di Nafisi e di altre persone che la pensano allo stesso modo.

Ciò che rende queste bizzarre accuse particolarmente significative e pericolose è che Nafisi le associa falsamente all’Islam e all’ideologia di coloro ai quali si oppone. Non sente il bisogno di fornire prove a sostegno della sua accusa, né lo sentono i suoi sostenitori occidentali. Scrive del suo “amore” inequivocabile e assoluto per gli “imperativi morali” (p. 196) e i principi etici (p. 197), il che, ironicamente, la rende una sorta di fondamentalista. Ovviamente, la prova di questa presunta “filosofia” deve esistere nei testi religiosi e politici prodotti da quelle persone, affinché questa donna apparentemente di principi possa fare affermazioni così scioccanti… a meno che non siano mere invenzioni, il che la renderebbe responsabile dello stupro della verità. Il suo odio cieco è in effetti così profondo che non si preoccupa nemmeno di convalidare le numerose citazioni che utilizza, come ella afferma, dell’Ayatollah Imam Khomeini e di altri – se supponiamo, forse in modo generoso, che ella si illuda che esistano.

La maggior parte delle citazioni sono imprecise, fuorvianti o del tutto inesistenti, come l’affermazione oltraggiosa di curare l’appetito sessuale di un uomo facendo “sesso con animali” (p. 82), tra le altre (cfr., ad esempio, pp. 93, 96, 137, 158). Si tratta di un aspetto piuttosto curioso per una persona come Nafisi, l’autoproclamata intellettuale (p. 115) che si considera “troppo accademica” (p. 279). Il suo libro in generale sembra fare affidamento quasi totalmente su una rievocazione, anche se paradossalmente ammette di non avere una memoria molto precisa (p. 174). Se Nafisi avesse davvero voluto citare accuratamente il defunto Ayatollah Imam Khomeini, avrebbe potuto farlo facilmente, poiché tutti i suoi discorsi pubblici e le sue lettere sono stati digitalizzati e sono accessibili ai ricercatori. Ciò nonostante, Nafisi viene ampiamente creduta in “Occidente”, soprattutto perché il suo lavoro opera all’interno dei metodi discorsivi occidentali dominanti riguardanti l’Islam e l’Iran.

Nafisi pare inoltre aver vissuto in un mondo particolarmente appartato mentre si trovava in Iran, poiché sembra sapere poco di persone ed eventi diversi da quelli che vede o sente nella sua ristretta cerchia. Espone la sua ignoranza sulla cultura e la legge iraniana e islamica quando cerca di stringere la mano a Bahri, sbagliando, allo stesso modo, quando tenta di spiegare la parola namahram, (p. 109). È una delle poche persone, compreso Saddam Hussain, ad affermare che furono gli iraniani ad aver “trascinato il Paese” nella guerra Iran-Iraq (p. 209). Reitera la ridicola affermazione secondo cui i combattenti militari iraniani di età compresa tra dieci e sedici anni hanno effettuato attacchi con “ondate umane” (p. 208) ricevendo in promessa le “chiavi di un paradiso in cui finalmente avrebbero potuto godere di tutti i piaceri da cui si sono astenuti in vita” (p. 225). Come veterano di quella guerra, in cui Saddam Hussein con il sostegno delle potenze occidentali invase l’Iran e usò armi di distruzione di massa contro civili e combattenti iraniani, vorrei vedere prove dell’offerta di queste chiavi, o altre prove a sostegno di queste affermazioni. In effetti, l’assurdità di tali esternazioni potrebbe essere considerata come una delle caratteristiche del discorso orientalista nativo iraniano. Sembra che persone come Nafisi siano così sicure dell’accoglienza acritica di tutto ciò che si oppone alla Rivoluzione Islamica e all’Islam in generale o, in realtà, semplicemente all’Iran, da non ritenere necessario dare il minimo tocco di credibilità alle loro affermazioni. Non c’è motivo per la maggior parte dei critici occidentali, di qualsiasi provenienza, di mettere in discussione le sue affermazioni, poiché rafforzano le rappresentazioni dominanti dell’Iran in America, costruendo un Iran esotico derivato principalmente dagli archivi statunitensi.

Che si tratti del famigerato orientalista Bernard Lewis o della “progressista” Susan Sontag, pochi dubitano della sua autenticità. Apparentemente non vi è motivo per mettere in discussione le sue affermazioni, poiché questo tipo di comportamento è prevedibile da quella parte del mondo. È una donna orientale illuminata dal pensiero e dalla cultura occidentale, quindi è un’autorità rispetto alla terra barbara e arretrata che si è lasciata alle spalle.

Questo problema è aggravato dal fatto che in tutto il testo Nafisi usa, o abusa, la causa femminista per rafforzare la percezione dell’autenticità del suo testo, un punto ben spiegato nell’articolo di Roksana Bahramitash (2005). Probabilmente per molti in Occidente sarebbe una sorpresa sapere che in Iran, prima della Rivoluzione, solo una piccola percentuale degli studenti universitari fossero donne, mentre oggi il 64% della popolazione studentesca universitaria del Paese è femminile. Questo drastico aumento è stato in parte dovuto a una legge di “azione affermativa” approvata dal governo dopo la Rivoluzione che ha reso obbligatorio che almeno la metà di tutti i nuovi studenti in certi campi, come la medicina, fosse di sesso femminile. Era anche in parte dovuto al fatto che le successive amministrazioni dopo la Rivoluzione sostenevano e implementavano l’istruzione universale in un Paese in cui circa tre decenni prima oltre la metà della popolazione femminile era analfabeta. Nafisi sembra credere che l’unico modo per evolversi sia che la donna orientale segua i modelli occidentali di progresso, perché ai suoi occhi i valori occidentali sono universali.

Non sono questi gli unici problemi della sua opera. Nafisi afferma che nella sua università vi erano solo due organizzazioni studentesche legali, una delle quali si chiamava “Jihad islamica” (p. 208). In realtà nei campus iraniani sono numerose le organizzazioni studentesche attive e non ve ne è mai stata una, in nessuna università iraniana, con il nome di “Jihad islamica”. Jihad islamica è il nome di un’organizzazione palestinese che combatte l’occupazione sionista della terra palestinese. È difficile capire come l’abbia collegata alle università iraniane. Ciò indica la misura della sua ignoranza sulla vita nei campus iraniani, per non parlare rispetto alla vita in Iran in generale.

Nel suo testo sono infatti presenti numerose inesattezze, come quando afferma che il Consiglio dei Guardiani ha scelto l’Ayatollah Khamenei quale nuova Guida dopo la scomparsa dell’Ayatollah Khomeini (p. 288): il Consiglio dei Guardiani non svolge assolutamente alcun ruolo nel processo costituzionale di scelta o rimozione della Guida del Paese. Altrove attacca e ridicolizza il cinema iraniano degli anni ’80 e sostiene che i film iraniani siano “propaganda” (p. 206), mentre in realtà durante quel periodo il cinema iraniano ha ottenuto un certo riconoscimento e consensi a livello mondiale. Afferma inoltre che il “capo della censura” del Paese, che in seguito divenne “capo del nuovo canale televisivo“, era “quasi cieco” (pp. 30), un’affermazione che sembra essere stata fatta solo per gettare del ridicolo. Non esiste una posizione burocratica ufficiale che corrisponda alla descrizione, per non parlare di una persona che si adatti alla sua rappresentazione. Si riferisce all’IRIB, al Ministero della Cultura, alla Fondazione Cinematografica Farabi o a qualche altro ente governativo? Questi sono solo alcuni esempi che mostrano quanto poco Nafisi conosca dell’Iran, ammesso che abbia davvero tentato di produrre un testo “autentico”.

Nel suo libro di memorie parla autorevolmente a nome di tutti gli iraniani e afferma che “noi” iraniani “che viviamo nella Repubblica islamica dell’Iran abbiamo colto sia la tragedia che l’assurdità della crudeltà a cui siamo stati sottoposti” (p. 23) dal governo. Tuttavia, in seguito ammette che enormi folle hanno partecipato ai funerali dell’Ayatollah Khomeini (pp. 243–45). Si contraddice anche altrove, quando ammette che vi erano molti giovani studenti nel campus che erano a favore della Rivoluzione (p. 119) e “fanatici” (pp. 250, 251).

Secondo Nafisi, in generale, gli iraniani sono tutti inferiori, irrazionali, semplici di mente, rozzi e spesso pervertiti – persone che possono essere riscattate solo se leggono “opere di pensatori e filosofi occidentali” e mettono in discussione “i loro approcci ortodossi” (p. 277). Ella, d’altra parte, rappresenta un’autorità intellettuale superiore e occidentalizzata (p. 176), anche se priva della conoscenza per comprendere che le idee secondo cui “il piacere è il peccato più grave di tutti” e che “il sesso serve solo per procreare” (p. 312) non sono islamiche. Si presenta come una meravigliosa accademica i cui dotti articoli le hanno fatto guadagnare “rispetto e ammirazione” (p. 173), anche se ammette che, a differenza di alcune delle sue studentesse, non conosceva le opere di Edward Said (p. 290), all’epoca ampiamente letto nei circoli accademici iraniani. Si presenta come diversa dalle masse iraniane ignoranti e arretrate a cui si presuppone “fossero stati dati cibo e denaro” per manifestare contro gli Stati Uniti. Nafisi va oltre e fa un’affermazione ancora più straordinaria quando dichiara che questi iraniani monolitici e arretrati venivano “portati in autobus ogni giorno dalle province e dai villaggi” e “non sapevano nemmeno dove fosse l’America, e a volte pensavano di venire effettivamente portati in America” (p. 105).

Per quanto riguarda i dibattiti di classe, i suicidi, le battaglie di strada e altri eventi che si sostiene abbiano avuto luogo, c’è poco da dire tranne che i professori e gli ex studenti dell’Università di Teheran e dell’Università Allameh Tabatabai che ho intervistato per redigere questo articolo non ricordano questi eventi nel modo in cui Nafisi li descrive. Alcune delle affermazioni che fa sono in effetti in conflitto con le immagini trasmesse in diretta dalla televisione iraniana, come la storia su Nategh Nouri e la frusta (p. 45).

Un esempio interessante dall’interno del testo aiuterà forse a rivelare i molti problemi esistenti rispetto alla sua autenticità e credibilità. Nafisi afferma che la sua studentessa, Nassrin, aveva tredici o quattordici anni quando frequentava ufficiosamente le sue lezioni all’Università di Teheran insieme a Mahtab, che sembrava coltivarla per l’organizzazione terroristica MKO (p. 136). Tuttavia, solo poche pagine dopo, l’autrice afferma che solamente coloro che avevano una tessera studentesca potevano entrare nel campus dell’Università di Teheran, che è circondato da recinzioni. In effetti, entrare nell’area universitaria senza una tessera studentesca “era diventata una sfida” di fronte alla quale “i più decisi e ribelli saltavano la recinzione per sfuggire alle guardie all’entrata” (pp. 153). In tali condizioni, se fossero vere, come potrebbe entrare una ragazza di tredici o quattordici anni per frequentare le sue lezioni?

Il libro di Nafisi non è l’unico a seguire questa strada. Persepolis di Marjane Satrapi è per molti versi quasi identico al suo Leggere Lolita a Teheran. Gli iraniani sono di nuovo descritti come sciocchi (Satrapi, 2003: 32) e le sue spiegazioni riguardo al credo e alla cultura musulmana sono fuorvianti (pp. 94-96).

Anche qui si ripete la fantasiosa storia della chiave del paradiso. Secondo la cameriera di famiglia, a suo figlio a scuola è stata data una chiave di plastica dipinta in oro: “L’hanno data a mio figlio a scuola. Dissero ai ragazzi che se si fossero recati in guerra e fossero stati abbastanza fortunati da morire, questa chiave li avrebbe portati in paradiso [. . .] Per tutta la vita sono stata fedele alla religione. Se si arriva a questo [. . .] Beh, non posso più credere a niente” (Satrapi, 2003: 99).

Come Nafisi, riporta la straordinaria affermazione secondo cui i bambini vengono portati sui fronti di guerra, ipnotizzati e gettati in battaglia per essere massacrati (Satrapi, 2003: 101–02). La storia è distorta per far sembrare che la colpa del conflitto fosse dell’Iran e che la Repubblica Islamica in realtà “abbia ammesso che la sopravvivenza del regime dipendeva dalla guerra”, sebbene non dica al lettore da dove provenga questa presunta dichiarazione (p. 116). Si ripete inoltre l’accusa secondo cui le ragazze vengono portate in prigione, costrette a sposare i loro carcerieri, violentate e poi giustiziate (p. 145).

Significativamente, la spiegazione di Satrapi per queste presunte atrocità contraddice quella di Nafisi, che afferma che i carcerieri lo fanno perché “è contro la legge uccidere una vergine” (Nafisi, 2004: 145). Entrambi i testi operano così pienamente all’interno del discorso orientalista occidentale da rimanere quindi in gran parte indiscussi in Occidente. Non sembra nemmeno necessario che le accuse siano coerenti l’una con l’altra.

È significativo che in Leggere Lolita a Teheran vi sia un riferimento a un altro cosiddetto libro di memorie, Mai senza mia figlia di Betty Mahmoody (Nafisi, 340). In questo testo Mahmoody, che ha vissuto brevemente in Iran, racconta la sua versione della vita nel Paese e la sua fuga dall’Iran e dal marito. Nel racconto parla delle differenze irrisolvibili tra la cultura orientale e quella occidentale. Gli iraniani sono sporchi (pagg. 15, 23, 27, 28, 31, 32, 36, 37, 85, 231, 335, 365), imbroglioni (p. 220), corrotti (p. 17), violenti (p. 21), ostili (p. 342), pigri (p. 429), “desiderosi di uccidere” (p. 203), disorganizzati (p. 35), imprevedibili (p. 342) e animaleschi: “seduti sul pavimento a gambe incrociate o appollaiati su un ginocchio, gli iraniani attaccavano il pasto come un branco di animali selvaggi alla disperata ricerca di cibo. Gli unici utensili forniti erano grandi cucchiai simili a mestoli. Alcuni li usavano insieme con le mani o con una porzione di pane piegata in un mestolo; altri non si sono preoccupati dei cucchiai. In pochi secondi c’era cibo ovunque. È stato spalato indiscriminatamente in bocche che chiacchieravano e gocciolavano pezzi […]. La scena poco appetitosa è stata accompagnata da una cacofonia di farsi” (Mahmoody, 2004: 26).

In questa “strana società” (p. 45) un gran numero di bambini soffre di “difetti alla nascita o deformità di un tipo o dell’altro. Altri avevano un’espressione particolare, vacua” (p. 28). La doccia quotidiana è vista come una strana usanza occidentale (p. 42) per le “orde” di iraniani dalla “faccia arcigna” (p. 43). Il Paese è una “strana sinfonia di dannati, piena di mendicanti che vanno di porta in porta gridando aiuto e lottando per la sopravvivenza” (p. 114).

Secondo Mahmoody alcuni iraniani tentano di copiare la cultura occidentale, ma falliscono a causa della loro mancanza di raffinatezza. Questo significava, letteralmente, che non le piaceva il gusto delle pizze iraniane (p. 116). Gli iraniani, sostiene, rendono inoltre omaggio a chiunque sia stato istruito negli Stati Uniti. La sua costruzione della psiche iraniana è straordinaria. Sono infantili, inferiori, ignoranti e non sanno cosa sia bene per loro. Quindi, all’interno di una tale cornice orientalista, è comprensibile che affermi che “il tempo sembrava non significare nulla per l’iraniano medio” (p. 81). L’affermazione che “una volta all’anno tutti in Iran fanno il bagno” (p. 207) è tuttavia davvero straordinaria, anche se proveniente da qualcuna a cui “non importava nulla delle usanze iraniane” (p. 84).

I suoi stupefacenti commenti sugli uomini iraniani, la sua ignoranza della storia islamica (p. 89), dell’Islam (p. 309), della legge islamica (p. 170) o delle leggi iraniane (p. 288), riflettono il fatto che la sua “conoscenza” deriva da fonti occidentali piuttosto che da esperienze reali in questa “terra orribile” (p. 132). Quindi, come Nafisi e Satrapi, anche lei può affermare che “ogni volta che il pasdar arrestava una donna che doveva essere giustiziata, gli uomini prima la violentavano, perché avevano un detto: ‘Una donna non dovrebbe mai morire vergine’” (Mahmoody, 2004: 366).

Le ragioni “ideologiche” per cui le ragazze verrebbero verosimilmente violentate in prigione, in questi testi, differiscono tra loro. Non fa tuttavia differenza, poiché non è necessario fornire la prova che tali “detti” o stupri siano realmente esistiti. Quando si discute in Occidente del religioso musulmano iraniano, tali contraddizioni nella maggior parte non intaccano la credibilità della storia e sono di poca importanza. Devono essere vere, poiché tali azioni sono prevedibili in un simile “folle Paese” (Mahmoody, 2004: 391). Forse una delle affermazioni più straordinarie fatte in Senza mia figlia è laddove la scrittrice afferma che in Iran alle donne non è permesso mostrare il proprio volto (p. 367). La foto sulla copertina dell’edizione Corgi pubblicata nel 1989 mostra infatti una donna il cui volto, ad eccezione degli occhi, è completamente coperto da un velo. Il fatto è che in Iran le donne non si coprono il viso.

Ciò che è importante è che, quando Nafisi fa riferimento a questo testo, non vi è traccia di critica. E’ implicito infatti che la studentessa di Nafisi, Nassrin, in Iran stia affrontando condizioni simili a quelle che avrebbe affrontato Betty Mahmoody. Agli occhi di Nafisi pare quindi che Mai senza mia figlia costituisca un’autentica rappresentazione della vita in Iran. Non c’è da meravigliarsi di Nafisi o di personaggi come lei, quanto piuttosto di quei progressisti che in Occidente sarebbero indignati se un tale linguaggio venisse mai usato per descrivere altri popoli o razze. Per comprendere le motivazioni che si trovano dietro la stesura di un libro come quello di Nafisi e il suo legame con quello di Betty Mahmoody, basta riflettere sull’affermazione dell’autrice secondo cui molti sono diventati famosi in Occidente per essersi opposti al governo islamico (p. 181).

La scrittura di Nafisi è quindi certamente orientalista. È un orientalismo perseguito fino agli estremi assurdi senza il minimo sforzo per non essere assurdo. Ciò non significa che esista una forma di rappresentazione completamente oggettiva; la portata della falsa rappresentazione dell’Iran da parte di Nafisi è davvero straordinaria. L’unica cosa ancor più straordinaria è la misura in cui critici e “studiosi” in Occidente vedono Leggere Lolita a Teheran come un’onesta rappresentazione dell’Iran, riducendo così la vita di milioni di persone a caricature pregiudizievoli.

 

Bibliografia

Bahramitash, Roksana 2005 “The war on terror, feminist orientalism and orientalist feminism: case studies of two North American bestsellers”, Critique: Critical Middle Eastern Studies 14 (2) (Summer) 223–237.

Macfie, Alexander Lyon 2002 Orientalism. London: Longman.

Mahmoody, Betty 1989 Not without my daughter. London: Corgi.

Nafisi, Azar 2004 Reading Lolita in Tehran: a memoir in books. New York: Random House.

Naipaul, V S 1967 The mimic men. Harmondsworth: Penguin Books.

Rowe, John Carlos 2007 “Reading Reading Lolita in Tehran in Idaho”, American Quarterly 59(2) (June) 253–275.

Satrapi, Marjana 2003 Persepolis. New York: Pantheon.

Spivak, Gayatri Chakravorty (1988) “Can the subaltern speak? Speculation on widow sacrifice”. In: Nelson, Cary and Grossberg, Lawrence (eds) Marxism and the interpretation of culture. London: Macmillan, pp. 217–313.

X, Malcolm 1963 “Message to the grass roots”. Rpt in Rudnick, Lois P, Smith, Judith E, and Rubin, Rachel Lee, American identity, an introductory textbook. Oxford: Oxford University Press, 2006, pp. 119–125.

 

*L’autore è docente di Letteratura Inglese all’Università di Teheran e Capo del Dipartimento di Studi sul Nord America, nonché ricercatore onorario nel Dipartimento di Studi Americani e Canadesi dell’Università di Birmingham.

 

 Traduzione a cura di Islamshia.org © E’ autorizzata la riproduzione citando la fonte

Writer : shervin | 0 Comments | Category : Attualità, politica e società , Novità

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