Diarium spirituale (H. Corbin)

Tratta dall’opera dello studioso francese H. Corbin, la presente traduzione è stata gentilmente messa a disposizione dell’Associazione Islamica Imam Mahdi (AJ) dal Dott. Fabio Tiddia, che a tale argomento ha dedicato la propria tesi di laurea.

Diarium spirituale

H.Corbin

Dopo aver registrato nel suo «Diario» (l’intitolazione «Svelamento dei segreti», Kashf al-asrâr, non è una semplice figura retorica) i primi fatti della sua autobiografia spirituale, le esperienze visionarie della sua infanzia e della sua adolescenza, Rûzbehân dichiara: «Posteriormente mi furono aperte le porte delle scienze d’ispirazione divina (‘olûm ladonîya) che riguardano le realtà segrete e sottili, così come le conoscenze occulte davanti alle quali resta inebetito l’intelletto degli uomini di scienza. In seguito constatai l’esaudimento di alcune delle mie preghiere e il dono di alcuni carismi. La mia coscienza segreta (sirr, «transcoscienza», arcanum) fu rafforzata nelle realtà soprasensibili (haqâ’iq) e cominciò per me l’ascensione dei gradini della scala mistica. Feci l’esperienza delle dimore spirituali (maqâmât), degli stati interiori passeggeri (ahwâl), delle rivelazioni (moskâshafât), delle alte conoscenze del tawhîd; in breve, passai nelle contrade incantate del cuore attraverso innumerevoli scoperte di mondi invisibili 29

Queste visioni e rivelazioni riportate per tutta la lunghezza di questo Diarium, dopo gli episodi della prima giovinezza non sono più classificate in ordine cronologico. In compenso, esse offrono delle dominanti così sorprendenti, certe visioni, figure, confidenze, preghiere, ritornano con una tale insistenza, che man mano che si procede nella lettura si tratteggia già mentalmente una classificazione dei temi di visione e di meditazione. Sono le figure-archetipi che dominano la coscienza di un sufi iraniano (e attraverso di essa, quelle della sua famiglia spirituale) che in questo documento d’un genere eccezionale, ci rivelano un poco i loro segreti. Non è possibile qui menzionare che un numero molto piccolo di queste visioni; perlomeno possono darci un’idea della loro importanza per una fenomenologia generale della coscienza visionaria presso i mistici. Ci soffermeremo specialmente sulla scenografia degli incontri che congiungono la sottilità del «mondo del mistero» alla figurazione plastica e concreta di esseri di dolcezza popolanti una Terra celeste incantata: visioni dei profeti, degli Angeli, dei paradisi e sopra tutto gli incontri ripetuti in cui si risolve l’insolubile della coscienza razionale: la divinità trascendente e inaccessibile che assume la forma del Compagno eterno dell’anima amorosa. Per un mistico sciita, questo sarebbe il suo Imâm. Ma in assenza d’imamologia, l’anima amante non può dimenticare ciò che la teologia ufficiale le ha insegnato; perciò, nella sua quietudine essa s’inquieta ancora; ma da questa stessa inquietudine procede una iniziazione visionaria che volatilizza il conflitto.

«E vidi nel mondo del Mistero un universo illuminato da una Luce radiante. Vidi Dio (al-Haqq) sotto il rivestimento della Maestà, della Grazia e della Bellezza 30. Mi fece bere al mare della Dilezione (wadâd), mi elevò al rango dell’intimità e mi mostrò il mondo sacrosanto (‘âlam al-Qods). Quando fui tornato nello spazio della preeternità, mi fermai sulla Soglia della Potenza. Là vidi che tutti i profeti erano presenti. Vidi Mosè che aveva in mano la Torah, Gesù che aveva in mano il Vangelo, Davide che aveva in mano il libro dei Salmi, Mohammad che aveva in mano il Corano. Allora Mosè mi fece gustare la Torah; Gesù mi fece gustare il Vangelo; Davide mi fece gustare il Salterio; Mohammad mi fece gustare il Corano. Ma Adamo mi diede da bere i «Più bei Nomi divini» come pure il Nome supremo. Allora compresi ciò che mi fu dato di comprendere delle alte conoscenze teosofiche, quelle con la cui impronta Dio ha contrassegnato i suoi profeti e i suoi Amici (Awliyâ’) (§ 32).»

Un’altra visione di profeti dà a Rûzbehân l’occasione di precisare una delle sue espressioni tecniche caratteristiche, facendoci già capire il posto che sarà assegnato ad Abramo fra i profeti della religione d’amore. «Vidi Abramo fra alcune montagne dove si levava la luce dell’astro dei teofanismi (af’âl) 31 che sono lo Specchio d’apparizione(mir’ât tajallî) dell’Essenza e degli Attributi, – Abramo che cerca Dio e dice: Questo è il mio Signore (6:76-78). Poi, vidi uno shaykh imponente che discendeva da una montagna. I suoi occhi fiammeggiavano d’una maestà temibile. La sua capigliatura era più bianca della neve. Compresi che era Mosè che discendeva dal Sinai (§ 67).»

A questa visione si concatena una visione d’Angeli con i tratti caratteristici dell’angelologia di Rûzbehân. Nel suo stato d’estasi, rammemora il mondo del malakût, il pleroma angelico, «ed ecco che quel mondo si mostrò a me allo scoperto. Vidi gli Angeli dello Spirito (Rûhânîyûn), gli Angeli del Dominio (Rabbânîyûn), gli Angeli della Santità (Qodsîyûn), gli Angeli della Maestà (Jalâlîyûn), gli Angeli della Bellezza (Jamâlîyûn), che sedevano tutti in gruppo; le loro vesti erano identiche a quelle delle fidanzate, più belle di quanto avessi mai visto. Davanti a me vidi i due Angeli che sono chiamati «Nobili Scribi» (Corano 82:11) 32, che sembravano essere innamorati di me. Nella prima fila della loro assemblea vedevo Gabriel, identico a una fidanzata, simile alla Luna tra le stelle; la sua chioma era come quella delle donne, disposta in trecce, lunghissime, egli portava una veste rossa con dei ricami verdi. Versava lacrime a causa mia e dal desiderio di me. Allo stesso modo tutti gli Angeli lasciavano trascorrere gli istanti nella dolcezza della mia vista, come se avessero il desiderio di me e si rallegrassero del mio stato spirituale (§ 68).»

Emozione amorosa, tratti femminini che sono quelli di un Femminino assoluto, poiché essi sono comuni (come vi insisteranno gli Horoufis) 33 alla giovane donna e all’adolescente, questi tratti distinguono tutte le visioni angeliche presso Rûzbehân. «Un’altra volta, vidi Dio con l’attributo della Maestà e della Bellezza 34. Con lui c’erano degli Angeli rassomiglianti a donne bellissime; le trecce delle loro chiome cadevano fino a terra. Dissi: O mio Dio! come prenderai il mio spirito (al momento della mia morte)? Egli mi disse: Verrò a te dalla profondità della preeternità, prenderò il tuo spirito così con la mia mano, e lo porterò fino alla dimora dell’intimità. Ti darò da bere del vino della Prossimità, e ti mostrerò la mia bellezza e la mia maestà, come tu desideri, senz’alcun velo. Allora vidi Gabriel, Michaël, Seraphiel e Azraël, tutti rivestiti di abiti di luce d’una bellezza tale che sono incapace di descriverla. Poi vidi Monkir e Nâkir identici a due giovinetti belli e graziosi, che suonavano la ribeca al capezzale della mia tomba e mi dicevano: Siamo innamorati di te; è in questo modo che verremo a cercarti nella tua tomba. – Allora ogni timore svanì da me (§ 37).»

Il mistico che aveva questa visione anticipata del periglioso passaggio, soddisfaceva effettivamente in anticipo all’ingiunzione: «O anima pacificata, ritorna…» Caratteristico è il colore del paesaggio di queste visioni: è il rosso che domina, ma un colore rosso legato a quello dei fiori. «Parecchie volte vidi Dio tra culle di rose, sotto veli di rose, in un universo di rose rosse e di rose bianche; spesso gettava su di me rose, perle, giacinti. Spesso mi fu concesso d’abbeverarmi accanto a lui col vino delle Uri, nella Dimora sacrosanta (§ 39).» Questo colore rosso è spontaneamente associato anche a una percezione mistica del sangue versato, di cui Rûzbehân prova la premonizione come ambigua, motivante contemporaneamente il timore e la speranza. Sembra ugualmente legato all’idea di un «martirio» subito allo stato visionario, proprio lì dove, nel suo inconscio, Rûzbehân sa di infrangere la Legge, il tawhîd dei letteralisti. È ciò che suggerisce l’evocazione iniziale del motivo della visione profetica «… sotto la più bella delle forme», poi il delirio amoroso che dimentica le prescrizioni riguardo il tashbîh e ilta’tîl, il doppio scoglio: assimilare Dio agli attributi delle creature o al contrario relegarlo allo stato d’astrazione.

«Ecco che lo vidi con l’attributo della Maestà e della Bellezza, nella mia dimora, sotto la più bella delle forme35. Provai una nostalgia, un amore, un desiderio, che si accrescevano l’uno dall’altro. Durante il mio stato d’estasi, era bandita dal mio cuore tutta la faccenda del tashbîh e del ta’tîl, perché in Sua presenza crollano le norme degli intelletti e delle conoscenze. Un certo tempo passò. Poi Lo vidi di nuovo, che si levava dal mondo del Mistero con l’attributo della Maestà. Restai numerose ore immerso nell’estasi. Dopo Lo vidi all’aurora; si mostrò in Maestà e in Bellezza nelle solitudini del Mistero, alla soglia stessa del Luogo del Mistero, tingendo le strie dell’aurora eterna con il sangue degli Abdâl… Dissi tra me: cosa sono io rispetto a loro? È possibile che io sia del loro numero? In quel momento vidi una tintura più sottile di quell’altra, sopra la loro, ed Egli mi indicò che era il mio sangue. Allora fui preso da un’estasi d’allegrezza; gettai esclamazioni a più riprese; la mia coscienza segreta (sirr), il mio cuore, la mia intelligenza, il mio spirito, erano prossimi a involarsi nello spazio dell’Ipseità divina (howîya), e ad essere annientati nelle luci del Mistero. Malgrado ciò provai il timore che ciò che vedevo non fosse da interpretare nel senso di una prova, dato che una visione anteriore me L’aveva mostrato in procinto d’immolarmi e di versare il mio sangue nei ruscelli 36 del Mistero, ed ero passato quindi per una prova terribile… Allora gridai: Io prendo rifugio in te contro Te (L. 155ª) 37.» La visione anteriore a cui fa così riferimento Rûzbehân, è riportata da lui in questi termini: «Una notte, contemplavo il Luogo del Mistero 38. C’erano delle sorte di ruscelli vuoti. D’improvviso Dio mi prese e mi sgozzò. Una grande quantità di sangue defluiva dal mio collo; presto tutti i ruscelli ne furono riempiti. Ma ecco che il mio sangue prendeva l’aspetto dei raggi del sole al momento dell’aurora, quando appare più vasto delle regioni dei Cieli e della Terra. E moltitudini d’Angeli prendevano del mio sangue e se ne truccavano il viso (§ 28) 39

Tra queste compagnie angeliche, le figure dei Quattro che sono designati nell’esoterismo islamico come i «Sostegni del Trono», prendono nelle visioni di Rûzbehân, l’abbiamo rimarcato, un rilievo particolare. Tre di essi hanno un rapporto ancora più personale, come testimoniano questi due racconti: «Le coorti degli Angeli uscivano dalle profondità del Mistero. I loro capi, Gabriel, Michaël, Seraphiel, apparivano come dei giovani paggi 40, le trecce delle loro chiome disposte come quelle delle donne. Allora Dio versò su di me rose e perle. Così fecero i profeti (Nabî) e gli Angeli… Il nostro profeta mi parlò, mi baciò sul viso, e dopo di lui fecero lo stesso Adamo, Noè, Abramo, Mosè, Gesù e tutti i Nabî. Quindi Dio «pregò su» Mohammad e sui suoi profeti e ne fece l’elogio, poi disse: Io ho eletto il mio servitore Rûzbehân per la felicità eterna, la funzione di Amico (walâyat) e l’investitura dei miei carismi. Ho fatto di lui il vaso della mia scienza e dei miei segreti… egli è il mio califfo nel mondo e nei mondi; chiunque lo ami, io l’amo; chiunque sia suo nemico, è mio nemico (§ 49) 41

L’altro racconto è il seguente: «M’apparve di essere nel Tempio della Mecca (al-masjad al-harâm). Vidi il Profeta che sembrava in stato d’estasi. Camminava in circolo; era vicino alla Pietra Nera, al lato sinistro della Ka’ba. Gabriel stava sotto il portico, vicino alla porta di Safâ. Michaël stava vicino a lui, Seraphiel vicino a tutti e due, mentre un gruppo d’Angeli stava nel cortile del Tempio. Mi avvicinai al Profeta; ero in uno stato di abbagliamento. Il Profeta si girò verso di me, mi chiamò per nome. Successivamente ciascuno dei tre Angeli, Gabriel, Michaël, Seraphiel, si avvicinò a me e mi chiamò per nome: O Rûzbehân! Tutti e tre erano in stato d’estasi. Poi essi si avvicinarono al Profeta; mi sembrò che la Ka’ba stessa si smuovesse e si approssimasse ad essi. Allora danzai con loro. Dio si rese loro visibile, ed ero là con loro, condividendo la loro estasi amorosa, gustando una pace profonda (§ 52).

Tra questi tre arcangeli, la figura di Gabriel assume un significato sorprendente, in rapporto con la sua funzione nella profetologia islamica sulla quale si modella l’esperienza mistica, e che sperimenta l’Angelo della Rivelazione come lo Spirito Santo personale, come figura dell’Alter Ego divino 42. Una notte, Rûzbehân ha la rivelazione della Notte del destino (laylat al-Qadr): «In quella notte gli Angeli e lo Spirito discendono con il permesso del loro Signore per regolare tutte le cose: e c’è una pace che dura fino al levarsi dell’aurora (97:45) 43.» Dio mi mostrò l’insieme degli Angeli che avevano tutti l’apparenza umana, sorridenti messaggeri di buone novelle. Fra di essi c’era Gabriel, ed è il più bello degli Angeli. Le trecce delle loro chiome erano identiche a quelle delle donne. I loro volti erano come la rosa rossa. Gli uni portavano sulla testa un velo di luce; altri portavano una mitra di gioielli; altri erano vestiti d’un mantello di perle. Li vidi a più riprese che avevano ugualmente l’aspetto di giovinetti 44. Vidi l’Angelo Rezwân (Ridwân) e il Paradiso, e vi entrai. Vidi le uri, i paggi; il loro aspetto era così come Dio li descrive (cfr. Corano 37:47; 56:17-22 etc.). Penetrai nei castelli celesti, mi abbeverai alle acque correnti, mangiai i frutti del Giardino… A più riprese vidi il Trono (‘arsh) e il Korsî. E vidi Dio sotto un rivestimento che gli dava l’aspetto d’uno shaykh; aveva su di sé un mantello persiano. Allora mi sentii fondere davanti alla sua maestà e al suo contegno (§ 24).»

Un’altra notte Rûzbehân contempla Dio «al di sopra del Trono, nelle camere nuziali dell’intimità, manifestandosi con gli attributi della Bellezza e della Maestà. Non c’era nessuno davanti a lui tranne Gabriel che versava lacrime e che improvvisamente si strappò gli abiti, sotto la violenza del suo delirio d’amore in presenza della Bellezza divina… Passò del tempo… Vidi delle rocce sulle quali scorreva un grande fiume, come di perle. Vidi Khezr ed Elia con tutti gli Abdâl, che lavavano i loro abiti nel fiume, e mai avevo visto spettacolo più incantevole della loro vista in quel momento (L. 157 b).»

A frequenti riprese, Rûzbehân ci fa la confidenza delle sue penetrazioni visionarie nel paradiso. Dopo la grande visione in compagnia dei tre Arcangeli e del Profeta intorno alla Ka’ba, egli attraversa una lunga distensione fino all’approssimarsi del mattino. Allora di nuovo l’estasi lo rapisce: «Mi fu mostrato un uomo in mezzo al Tempio, che sembrava da lì trasportare la sabbia altrove, tanto che una porta apparve sotto la sabbia. Quella porta mi fu aperta. La varcai e penetrai al di là. Vidi un altro uomo che stava sotto quella porta. Il primo era Ismaël, il secondo era Rezwân. Allora avendo attraversato la soglia, vidi il paradiso con i suoi alberi, i suoi fiori, le sue luci innumerevoli. Vidi Mohammad e tutti i profeti, gli Amici (Awliyâ), i martiri, gli Angeli. Vi vidi una folla di fedeli… Non vi vidi niente di comparabile a questo mondo; non c’era che luce su luce, sfavillio su sfavillio, bellezza su bellezza (§ 53).» Un’altra visione precisa: «Non vidi mai niente di più bello. Vi vidi gli Angeli, i Profeti, le uri, i castelli celesti. Tutto ciò era riempito delle Luci divine. Vidi fra gli alberi del Paradiso un albero di turchese, simile a una palma. Se quell’albero con la sua grazia e la sua bellezza si mostrasse alle genti di questo mondo (ahl al-donyâ), tutti ne morrebbero d’ardente desiderio (§ 81).» Il visionario vi contempla ugualmente la propria famiglia: «Vidi i miei in uno dei paradisi davanti a Dio, aventi l’aspetto di giovani bellezze 45. Poi vidi i miei in una delle alte sale del Paradiso, davanti a Dio. Quell’alta sala era di giacinto rosso; i miei erano assisi in prossimità di Dio, sull’orlo di una fila di cuscini; sembravano aspettarmi. Allora sentii dal mondo del Mistero risuonare la Sua parola: «… quelli dei loro padri e delle loro spose che saranno stati virtuosi». Riflettei su quel messaggio interiore, e rivenni all’inizio del versetto coranico: I giardini d’Eden: essi vi entreranno così come i loro padri, le loro spose e i loro figli che saranno stati virtuosi (essi vi riceveranno la visita degli Angeli che entreranno da tutte le porte) (13:23). Compresi che era una buona novella per me. Mi sedetti al momento dell’alba, spiando il sorgere del mattino eterno (§ 82).»

È un luogo comune di certa apologetica cristiana diretta all’Islam, svalutare le gioie del Paradiso coranico, perché concernerebbero le facoltà sensibili. È importante dunque vedere come queste gioie sono presentite e anticipate dagli spirituali proprio in Islam. Mai si è provato un dilemma paragonabile a quello che tormenta la coscienza dell’asceta cristiano. La descrizione delle gioie paradisiache rientra nel problema più generale deltanzîh (operazione negativa che allontana dalla divinità tutti gli attributi) e del tashbîh(omologazione che fonda le corrispondenze dell’invisibile e del visibile). Non si tratta né di sacrificare l’uno all’altro, né di cedere all’uno o all’altro. È passando fra l’uno e l’altro, a uguale distanza ma a uguale prossimità, che l’anima mistica conquista la sua quiete nei riguardi dell’uno e dell’altro. Ciò non è possibile senza dubbio che grazie al sentimento teofanico, al senso del «fenomeno del divino» che anima il sufismo. Il problema è al fondo stesso della dottrina teofanica di Rûzbehân (come di quella di Ibn ‘Arabî); dalla sua soluzione dipende giustamente la possibilità di gustare il sapore e la quiete dell’amore divino nell’amore umano. Soltanto qui non ne abbiamo solamente l’esposizione teorica, ma il dato sperimentale, vissuto allo stato visionario. Ad ogni modo, non si tratta di percezioni dei sensi al livello del mondo sensibile, ma di percezioni immaginative al livello del mondo intermedio, mundus imaginalis.

«Vidi la Presenza divina (Hazra) riempita degli Angeli del più alto rango, assisi sotto i padiglioni della Gloria. Vidi Dio; e tutti i profeti e tutti gli Inviati attendevano seduti presso il pulpito (o leggio, minbar). Quando mi fui seduto (al leggio) ed ebbi menzionato i detti sulla mutua riconoscenza (degli Spiriti), gli Angeli versarono lacrime così come i Profeti. E Dio sentiva. Dalla sua persona trasparve una luce, come ad indicare che era d’accordo con loro. Poi Egli disse: “Così sarà nel giorno della Resurrezione”. Ah! e allora! chi stima che queste rivelazioni siano delle fantasie che meritano il sospetto di tashbîh (antropomorfismo), egli non è che un principiante; non ha sperimentato nulla, non ha mai respirato il profumo dei fiori del paradiso. Vi sono esperienze del mondo sacrosanto, stazioni che si offrono ai più penetranti fra i circospetti, i quali sanno bene che ci sono forme della condizione divina (robûbîya), un’apparizione delle Luci eterne, una qualificazione che ricevono gli Attributi divini attraverso l’intermediazione delle teofanie (§ 84).»

Sappiamo che Ruzbehan ha esercitato per lunghi anni la funzione di predicatore a Shîrâz. Gli succede, quest’ultimo testo ce lo mostra, di ricoprire la stessa funzione «nel Cielo». Ma l’oggetto della sua predicazione rimane lo stesso: è condensato in questo aneddoto (cfr. supra cap. II, in fine) che ce lo mostra attraversare le file degli uditori al fine di guadagnare il suo pulpito per la prima volta a Shîrâz, e fermarsi per rimproverare la madre che aveva appena udito ordinare alla figlia di velare la sua bellezza. Questa predicazione non può che ricordare ad ogni occasione il mistero della teofania nella bellezza; il culto e l’etica imposti da questo «fenomeno del divino» non devono mai perdere di vista ciò che Rûzbehân designa col termine tecnico di iltibâs, quell’anfiboliadell’Immagine umana che contemporaneamente è e non è; tutto il sensibile, il visibile, l’udibile, è anfibolia, in un duplice senso, perché rivela l’invisibile, l’inudibile; è ciò stesso la funzione teofanica della bellezza delle creature. Evidentemente, la predicazione d’una tale dottrina può scandalizzare i pii ortodossi, coloro che davanti al testo della bellezza come davanti al testo rivelato, non hanno alcun presentimento del duplice senso. Allora può anche succedere a Rûzbehân di provare dei dubbi sulla sua predicazione, ma le sue visioni gli danno il conforto della certezza. La notte stessa in cui ha contemplato i suoi nel Paradiso, si mette a meditare su quella visione oculare, immediata e diretta, che permette la stazione spirituale dell’anfibolia. Egli prova degli scrupoli che sono come una riemergenza alla sua coscienza degli imperativi dell’ortodossia collettiva, della religione legalitaria e «sociomorfica» contro la fede personale. «Ero impensierito da ciò che è eterno, cercando di distogliermi dal creaturale. Allora Dio mi si mostrò nel Consiglio sacrosanto (Majlis al-Qods), sotto una forma d’una bellezza tale che incatenava a lei tutti i fedeli d’amore. Si avvicinò a me dicendo: Andiamo! non c’è di che metterti in pena su questo. Avevo l’impressione che gli ripugnasse la mia preoccupazione di mantenere la sua trascendenza lontano dalle rappresentazioni immaginative. Il mio cuore s’incantò di quella teofania sotto una formaappropriata al segreto del mio amore. Così restai nell’estasi, nei sospiri e nelle lacrime, fino al mattino. Poi si mostrò a me a ogni ora sotto un attributo nuovo fra i gruppi delle Luci preeterne. Quando in seguito si fu reso invisibile, venne al mio cuore il ricordo di ciò che avevo predicato dall’alto del pulpito. Ma Egli mi disse: E’ ben alla misura del mio segreto ciò che tu hai predicato per guidare le creature, e far loro conoscere la bellezza dei favori divini preparati per loro (§ 83).»

Dicendo «sotto una forma appropriata al segreto del mio amore», Rûzbehân enuncia il segreto delle teofanie, che in effetti corrispondono ogni volta alla capacità spirituale del visionario. Ma sempre qui si fa luce di nuovo il conflitto: esse sono necessariamente molteplici e diverse, sono come altrettante individuazioni divine. Che ne è di questa molteplicità davanti all’esigenza imperiosa del tawhîd? Il conflitto è insolubile, certo, in termini di monoteismo essoterico, che pone Dio alla maniera di un oggetto trascendente. Che Dio non sia mai Oggetto, ma il Soggetto attivo degli atti che nelle sue creature si riportano a lui, sarà qui il segreto del tawhîd esoterico, il quale non potrà esprimersi che per paradossi (quegli shath che hanno fatto dare a Rûzbehân il suo soprannome di shaykh shattâh). La persona stessa del mistico diviene un paradosso, non solamente perché gli capita d’esprimere alla prima persona (perché il suo ego umano s’è ritirato) proposizioni di cui solo l’Essere divino può essere il soggetto, ma anche perché questa situazione lo trascina a sfidare la religione legalitaria, ad accettare con coraggio e indifferenza che la sua attitudine religiosa, tutta interiore e personale, passa esteriormente, agli occhi della Legge, della religione socializzata, per empia e sacrilega. Tali sono i sufi, l’abbiamo già ricordato qui, che si designano sotto il nome di Malâmatî. Il grande poeta mistico, Hâfez di Shîrâz, fu uno di loro. Come a sostegno dell’affinità che ci ha già fatto presentire in lui un precursore di Hâfez, Rûzbehân ci informa qui che ebbe nella giovinezza uno shaykh malâmatî. È significativo che questo shaykh assuma una funzione teofanica, nel corso di una visione dove si afferma il paradosso della molteplicità dell’Unico e dell’identità del Molteplice.

«Al tempo della mia gioventù, avevo uno shaykh. Era uno shaykh di grande scienza mistica, perpetuamente in stato d’ebbrezza spirituale, uno shaykh malâmatî, la cui vera figura era ignorata dalla gente comune. Una notte contemplavo una vasta pianura nelle pianure del Mistero, ed ecco che vidi Dio che aveva l’aspetto di quello shaykh, all’ingresso di questa pianura. Mi avvicinai a lui. Allora mi fece segno, mostrandomi un’altra pianura. Avanzai verso quella pianura, e là di nuovo vidi uno shaykh identico a lui, e quello shaykh era Dio. Di nuovo mi fece un segno, mostrandomi un’altra pianura, così di seguito finché mi ebbe svelato settantamila pianure, e ogni volta, all’ingresso di ogni pianura, vedevo una figura simile a quella che avevo visto nella prima. Dissi a me stesso: Dio Altissimo è tuttavia unico, uno, indiviso, trascendente il numero grande o piccolo, così come gli uguali, i contrari e i simili. Allora mi fu detto: Tale è la teofania degli Attributi eterni, giacché essi sono senza limite. In quell’istante sentii in me la presa delle realtà esoteriche del Tawhîd, dopo il mare della Magnificenza (§ 34).»

Stessa allusione in un altro racconto: «Vidi una Luce più bianca dello splendore delle perle e della neve… Mi manifestò le bellezze degli Attributi… Non restò più distanza tra lui e me. Allora vidi dalla Faccia divina una maestà e una bellezza tale che i Celesti e i Terrestri ne potrebbero morire di delizia. Vidi che tutte le regioni del Cielo e della Terra ne erano piene… Mi rese presente nella stazione dell’avvicinamento, mi mostròsettantamila maestà, bellezze e perfezioni, e m’indirizzò parole tali che a sentirle, la montagna di Qâf (la montagna cosmica) ne fonderebbe di piacere… Dopo avermi fatto sedere davanti a lui e trattato con ogni sorta di graziose premure, mi diede dalla sua mano una bevanda che non posso descrivere; mi fu dato di intendere ciò che non è in mio potere di tradurre (§ 47).»

Il simbolo di questa bevanda ritorna ancora nel momento in cui, paradossalmente, Rûzbehân vuole in qualche modo ricordare l’Essere divino al sentimento della sua trascendenza: «Dio levò il velo del pleroma angelico (malakût) prendendo la forma della Maestà e della Bellezza, che mette allo scoperto tutta la serie degli Attributi corrispondente alla forma umana. Poi Egli mi fece vedere la sua Sublimità e la sua Maestà in un’altra stazione spirituale, e così di seguito, fino a che l’ebbi contemplato insettanta stazioni 46, e in ciascuna sotto un Attributo che non avevo mai contemplato in precedenza… Poi Egli mi fece sedere alla Tavola della sollecitudine, mentre io contemplavo in Lui dei colori di maestà che non erano ancora mai saliti alla mia coscienza. Mi presentò pietanze di quella Tavola. Io dissi: Mio Dio! tu trascendi tuttavia l’azione di mangiare e bere! Se le lacrime del pentimento sono la bevanda degli Angeli, che ne è delle lacrime del desiderio e dell’intimità durante la visione? Allora mi disse: È ciò la mia bevanda. – Tali sono le regole della sua delicatezza nei riguardi dei suoi profeti e dei suoi Amici, essendo completamente trascendente agli attributi del creaturale (L. 153 b).»

Tutto il Diarium potrebbe essere letto come un susseguirsi di variazioni su questo tema dell’anfibolia e della visione diretta: il rivestimento d’Attributi omologabili a quelli delle creature (tashbîh) senza contraddizione con la sobrietà della pura Essenza (tanzîh).

Per la dialettica razionale non c’è via d’uscita; solo il puro amore risolve sperimentalmente il conflitto. È ciò che Rûzbehân apprenderà ugualmente nella sua esperienza visionaria e verificherà nell’esperienza della sua vita. Nel racconto che evoca i veli di rose rosse e di rose bianche sotto i quali molte volte contemplò Dio, egli confessa che, se ci fosse stato un possibile testimone di quei travasi tra Dio e lui, quel testimone avrebbe riconosciuto in lui uno zandîq (qualificazione con cui l’ortodossia islamica riconduce alla religione dell’antico Iran zoroastriano tutto ciò che le sembra infrangere la lettera della Legge) 47. Come può il cavilloso ortodosso concepire che sotto l’individuazione divina «appropriata al segreto dell’amore del mistico», costui percepisce la Maestà trascendente, perché essa non può praticamente essere percepita altrimenti né altrove? «Ciò che menziono e ciò a cui faccio allusione, sono i ricami che costituiscono i simboli delle alte scienze dell’amore. Dio vi si manifesta con l’Attributo della Maestà e della Bellezza. Li ha investiti di quest’amore e di questa gnosi mistica, perché nella vera Realtà del tawhîd c’è un mare di negatività davanti al quale fuggono i profeti e gli Inviati, gli Angeli e gli Amici di Dio, e perché nella stazione mistica deltawhîd ardono i fuochi della Magnificenza che abbracciano riflessione, comprensione e percezione in generale (§ 39).»

Impenetrabile è il mistero dell’Uno unico. Non può rivelarsi che al prezzo di unannuvolamento a misura del cuore, che sia quello dell’Angelo o dello Spirituale, un annuvolamento che bisogna simultaneamente accettare e percepire. «Egli si manifestò a me sotto l’aspetto dell’increato, fra gli Orienti della preeternità, e mi disse: Ho viaggiato verso te dal Mistero dei Misteri; fra te e me c’è una distanza di settecentomila anni… Mi manifestò una gentilezza delicata e mi disse: Io ti ho scelto nella tua epoca per questo rango al di sopra dei mondi. Mi discoperse delle bellezze sacrosante e le particolarità degli Attributi eterni. Contemplai una bellezza in una maestà, una maestà in una bellezza, che sarò per sempre incapace di descrivere… Avevo, l’abitudine nel periodo della giovinezza, di vegliare fino al cuore della notte. Così, una notte ero in procinto di pregare; l’Essere Divino passò vicino a me, mostrandosi sotto la più bella delle forme. Mi sorrise e gettò verso di me dei sacchetti di muschio. Gli dissi: Dammene un gran numero. Egli mi disse: Ognuno di essi è un Angelo, e tu, sei un Angelo della Persia (§§ 21-22).»

A più riprese il mistico cerca di far violenza all’anfibolia, di sorpassarla per pervenire alla conoscenza assoluta; apprenderà solamente più tardi che non la si sorpassa se non trasfigurandola, e che altrimenti ci si espone al pericolo corso da Mosè sulla montagna. «Ecco che contemplavo le stranezze dell’anfibolia. Dissi: Mio Dio! Mio Signore! Fino a quando mi mostrerai la visione che mi è propria, sotto la forma dell’anfibolia? Fammi vedere il puro increato, la sovraesistenza allo stato puro. Egli mi disse: Mosè e Gesù hanno desiderato questa dimora spirituale (senza raggiungerla). Allora mi manifestò un atomo di luce della sua Essenza eterna, e poco ci mancò che il mio spirito ne fosse volatilizzato. Temetti di morire. Vidi il nostro Profeta, i Nabî, tutti i Compagni e tutti gli shaykh che domandavano a Dio di accordarmi l’ultima stazione della Magnificenza (§ 45).» La stessa insistenza, lo stesso scacco in un’altra visione: «Mi apparvero le meraviglie del tawhîd, ma ciò ne restava alle vestigia del mondo delle teofanie. Dissi: Mio Dio! fammi pervenire a te nella forma del tajrîd del tawhîd (cioè nella spoliazione della tua Unità astratta da ogni predicato). Il mondo del divenire m’apparve allora come la luna piena al momento in cui essa emerge dalla cima della montagna, o come l’irradiazione d’un fuoco rosseggiante che brucia senza fumo. Dio mi fece entrare in quell’altro mondo. Fui spogliato delle infermità delle norme comuni, ma non potetti sussistere fino alla fine, perché quella dimora era quella del sacrosanto, della negatività (tanzîh), dell’annichilamento (fanâ’). Allora mi furono rese evidenti le realtà essenziatrici dell’Essenza (haqâ’iq al-haqîqat). La mia coscienza segreta fu portata all’incandescenza. Mi fu detto: è il mondo dell’unicità unica (wahdânîyat), quello che Io ho annunciato nel mio Libro (il Corano) dicendo: Niente Gli somiglia (42:9) (§ 66).»

Ad ogni sforzo pretendente alla cattura della trascendenza, il mistico è dunque rinviato al simbolo, alla teofania, all’anfibolia del Velo che la transcoscienza, la «coscienza segreta» (sirr), porterà alla trasparenza d’uno specchio. Di nuovo i fiori saranno i simboli annunciatori del Mistero. «Una volta, nella seconda parte della notte, dopo essermi seduto sul tappeto dell’adorazione nell’attesa dell’apparizione delle Fidanzate invisibili (‘arâ’is al-ghayb), la mia coscienza segreta prese il volo nelle regioni delmalakût, e io contemplai la maestà divina, nella stazione dell’anfibolia, a più riprese, sotto l’aspetto numinoso (hayba) della sua bellezza. Il mio cuore non se ne contentava, aspirando alla scoperta della Maestà eterna che abbraccia i segreti delle coscienze e dei pensieri. Ecco che contemplai un Volto più vasto dell’insieme dei Cieli, della Terra, del Trono e del Korsî. Ne irradiavano le luci della Bellezza. Esso trascendeva ogni idea di identico e di simile. Tuttavia percepii la sua bellezza come avente l’aspetto della rosa rossa, ma alla maniera d’un mondo dentro un mondo, come se ne emanassero delle rose rosse, e non ne vedevo il limite. Il mio cuore si sovvenne allora di quella proposizione del nostro profeta: La rosa rossa fa parte della bellezza divina (§ 71).»

Ecco allora che si traccia l’iniziazione al segreto dell’anfibolia che è inerente al creaturale, iniziazione che sarà amplificata nei trattati dottrinali di Rûzbehân. «Nel corso di una delle mie visioni… mi elevavo gradualmente tra le figure delle teofanie; la mia intenzione era di pervenire fino all’increato, dove mi sarebbe dato di uscire dalla norma dei teofanismi. Allora vidi Dio sotto la più bella delle forme, che si levava su di me dal mondo del Mistero. Io non mi possedevo più; singhiozzavo e gridavo, perché quella forma mi abbagliava di stupore… come se dalla sua Faccia fossero gettate su di me delle rose bianche… Dopo Egli si rese invisibile, poi riapparve sotto una forma più bella ancora della prima. Lo raggiunsi, e mi disse attraverso la mia coscienza segreta: Dove ci dirigiamo? – Io dissi: Verso la preeternità. – Che cosa cerchi? – Cerco il mio assorbimento (fanâ’) nella violenza di ciò che è preeterno, giacché non posso soddisfarmi della visione dell’anfibolia. – È un lungo viaggio, disse; vengo con te, sarò il tuo compagno di strada. – Avanzammo dunque verso ciò che è al di là del Trono, facemmo il viaggio del Mistero. Poi Egli mi divenne invisibile, poi riapparve, un’ora dopo, con l’attributo del Jabarût, e là fui annientato. Allora mi dimostrò una graziosa dolcezza e mi disse: Cercami nella stazione mistica dell’amore, perché né il mondo né niente di ciò che c’è nel mondo possono far fronte agli assalti della mia maestà… E restai con la dolcezza della mia visione (§ 58)».

Da qui il mistero del cuore, organo per eccellenza della fisiologia sottile e centro delle percezioni mistiche. Nella seconda parte della notte ancora, Rûzbehân medita osservando i misteri nel mondo delle Luci. «Ecco che Lo vidi sui cammini del Mistero. Nella sua mano, qualcosa. Dissi: Mio Dio! che cos’è? Egli mi disse: È il tuo cuore. – Il mio cuore ha dunque una dimora che è nella tua mano? dissi. Ed ecco che piegò il mio cuore; questo fu come una cosa arrotolata; poi lo dispiegò, e ora il mio cuore copriva dal Trono fino alle Pleiadi. Dissi: questo è il mio cuore? – Questo è il tuo cuore, ed è più vasto dell’universo 48. Poi lo portò così com’era nella sua mano, verso le regioni delMalakût. Vi penetrai con lui, fino a incontrare il dîwân del Mistero dei Misteri. In quel momento dissi: Fin dove lo porti? – Fino al mondo preeterno al fine di contemplarmi in lui… e di mostrarmi a lui per le eternità future sotto la forma della deità (olûhîya). – Io dissi: voglio vederti così come sei nella preeternità. – Non c’è per te via d’accesso a questo. – Allora mi feci supplicante: io lo voglio, dissi. Ed ecco che si mostrarono le Luci della sublimità. Fui annichilato, annientato; dopo questo, il creaturale cessò d’offrirsi al diluvio della Magnificenza. Poi la mia coscienza segreta fu interpellata, e mi fu detto: Comprendi adesso il senso nascosto di questa frase del Profeta: I cuori sono tra due dita del Misericordioso, Egli li lavora come vuole? – Ciò che ho visto tra le Sue dita, è la spoliazione del cuore dei Suoi amanti; egli li lavora (= li rigira) da questo mondo fino alle cinta della sua Maestà. Quando egli si occultò… quella visione lasciò nella mia transcoscienza (sirr) un’immensa allegrezza, fino al momento in cui ripresi coscienza (§§ 61-62).»

Progressivamente il visionario è così iniziato al segreto del tawhîd esoterico; segreto che è quello del vero soggetto degli atti che si compiono nel mistico: il Compagno eterno, l’Alter Ego divino. Fino allora succede al mistico di provare il dolore delle assenze, perché non sa ancora chi in realtà si assenta. All’indomani di un concerto spirituale, Rûzbehân prova un certo rilassamento; poi, tornata la sera, all’ora che segna l’Orazione del primo terzo della notte, s’interroga: «Perché le meraviglie del Mistero non si sono mostrate durante il concerto spirituale (samâ’) di ieri? Improvvisamente, ecco che vidi Dio attraverso gli orifizi del Malakût, che si mostrava a me con gli attributi della Bellezza e della Maestà. Gli dissi: Dov’eri, dato che sei rimasto invisibile durante il concerto spirituale? Egli mi disse: Io ero con te sotto questa forma che tu vedi ora. Allora emisi un grido; la mia coscienza segreta, la mia intelligenza, il mio cuore, furono nell’allegrezza. Mio Dio! dissi, perché dunque non ti ho visto? Egli mi disse: ero dietro di te e sopra di te, vedendoti, alla tua destra e alla tua sinistra sotto l’aspetto che vedi. Allora, fu come se lo vedessi tale come si descriveva e si mostrava. La metà della notte passò. Lo cercai sotto l’aspetto della deità (olûhîya), senza l’anfibolia degli Attributi e delle Operazioni (che li manifestano). Mi feci supplicante. Ecco che m’apparvero le luci dell’Essenza e degli Attributi nel mondo preeterno; v’erano degli strati di vapore che si elevavano l’uno sull’altro. Vidi splendore su splendore, maestà su maestà, bellezza su bellezza. Vidi il mare sacrosanto (bahr al-Qods)… mi sembrava che tutte quelle luci sorridessero al mio viso (§ 65).»

Perché si abbia simultaneamente Unificazione dell’Unico (tawhîd) e la gioia d’essere due, bisogna capovolgere la visione comune fondata sul senso comune essoterico. Ciò che ci ha insegnato il «Libro dell’Annuvolamento», il Diarium ce ne apporta la verifica sperimentale. Il Testimone (shâhid) è non più l’occhio altro che guarda Dio, ma l’occhio attraverso cui Dio guarda e si mostra a se stesso sotto le varianti infinite della «più bella delle forme». È in tal senso che tu sei il suo Testimone oculare, e che il tawhîd essoterico non è che trucco e inganno. «Ecco, racconta Rûzbehân, che vedevo la mia anima in stato di fanâ, e mi dicevo tra me: Io sono la più misera delle tue creature, sono il tuo servitore e il figlio del tuo servitore. Allora si abbatterono contro il mio cuore gli assalti deltawhîd e della Sublimità. Egli mi disse: Chi sei tu per essere un servitore nei miei riguardi? Fui preso da vergogna nei riguardi di quel Dio sfuggente al potere della mia parola. Dissi: quale attributo potrei enunciare, dato che io stesso sono una cosa fra le cose che ti appartengono? Ma Egli mi disse: Tu non sarai un autentico Unificatore prima d’aver dimenticato e te stesso e tutto ciò che è altro da me dal Trono fino alle Pleiadi. Restai come abbagliato in seno ad un velo immenso. Ero ancora incapace di parlare, quand’egli mi fece ricordare di qualche cosa del suo dhikr: mi fece comprendere il mio annientamento in lui e il mio desiderio di lui; le grandi piane del Mistero si rischiaravano, ed ecco che designando se stesso mi disse: Sono io che ti appartengo (Anâ laka). Allora fui preso da una emozione d’estasi e il mio cuore fu nell’allegrezza. Poi si avvicinò a me sotto la forma d’un giovinetto 49. La mia anima e il mio cuore furono annientati nella sua grazia e bellezza. Avvicinandosi a me, mi disse: Qui il tuo cuore non è messo nell’angoscia dall’enunciato del tawhîd, perché qui il tawhîd è trucco e inganno, poiché ecco che tu sei il mio Testimone oculare, e che io sono sotto la forma della grazia e della bellezza (§ 77).»

La condizione dell’«autentico Unificatore», è quella stessa che hanno attestato, nel racconto del Mi’râj di Sarî al-Saqatî che chiude il «Libro dell’Annuvolamento», l’ultimo gruppo dei Fedeli che, avendo perseverato nell’unicità del loro Desiderio, sopravvissero al gruppo primitivo, dopo che esso era stato decimato a sette riprese da una settupla prova. Tutti coloro che attestano Dio «oggettivamente», senza dimenticare se stessi, credendo di essere essi stessi ad attestarlo, non sono che politeisti. Il monoteismo della religione legalitaria e socializzata resta a questo livello; esso non fa che sovrapporre unEns supremum alla somma dell’essere creaturale. In compenso, solo il tawhîd esoterico sfugge alla trappola di quest’idolatria metafisica. La molteplicità delle teofanie, è la molteplicità delle forme attraverso le quali l’unico Soggetto divino appare a se stesso e riconosce se stesso dalle sue creature, a condizione che queste tengano gli occhi aperti, e aperti su Lui solo, perché allora esse sono i suoi occhi propri, gli occhi attraverso i quali Egli guarda e guarda se stesso in esse. Allora, non c’è più conflitto tra l’unico e il molteplice; c’è il molteplice dell’Unico, ma questo molteplice è ogni volta sempre Uno50, è l’unità dell’Uno, o piuttosto è il mistero dell’unus-ambo, due in uno solo, essendo vero dire dell’Uno e dell’altro che è il Guardante e il Guardato. Nessun ostacolo, quindi, a certe scene estatiche, francamente scandalose per ogni conformismo essoterico. Citeremo ancora questa visione: «Un giorno, caddi nel mare del Desiderio; mi trasportò la spinta delle onde dell’Oceano della Magnificenza, fino alla stazione mistica dove è contemplata la sovresistenza. Ed ecco che vidi Dio: tramite la sua Bellezza e la sua Maestà si scoprivano a me i lampi folgoranti della sua Faccia. Rimanevo nella contemplazione di quella bellezza; ero al colmo dell’ebbrezza spirituale; poco ci mancò che il mio spirito non venisse squamato (dal mio corpo), la mia intelligenza abolita, il mio cuore rapito, la mia coscienza segreta annientata… Quando si levò l’aurora, vidi che il mondo era come riempito dell’Essere divino. Ero allo stesso tempo assente e presente; mi sembrava allo stesso tempo di vederlo e di non essere io a vederlo. Allora ecco che venne verso di me; mi attirò per danzare, e danzai con Lui. Ma uscendo dall’estasi, ripresi coscienza all’istante (L. 148ª).»

Per chiudere questa troppo breve analisi del Diarium spirituale di Rûzbehân, citiamone ancora qui la pagina finale. Essa comincia come con una triplice esultanza nostalgica che riafferma: Poi lo vidi! Poi lo vidi! Poi lo vidi! Troppe volte perché mi sia possibile dirne il numero… Mi fece circolare nel supremo Malakût, svelandomi le profondità preeterne, nel loro stato di spoliazione (tanzîh); mi svelò la Bellezza e la Maestà. Poi si manifestò a me sotto qualcuna delle qualificazioni dell’anfibolia (iltibâs). Tutti i Cherubini erano ai padiglioni della Magnificenza, la loro forma mirabile era quella stessa della grazia e della bellezza. Le trecce delle loro chiome erano come quelle delle donne. Le uri in vesti come ne portano le abitanti del Paradiso, si separavano e si radunavano. E vidi Gabriel, d’una grazia e d’una bellezza che non posso descrivere; egli passò molto vicino a me, con quella grazia e quella bellezza. E vidi i Profeti e gli Amici (Awliyâ) immersi nelle Luci folgoranti della Sua maestà. Ero io stesso fra l’occultamento (istitâr) e la teofania (tajallî), fuori di me, gridando e gemendo, nostalgico e pazzo d’ardente desiderio, alla maniera delle persone in preda all’ebbrezza. Allora Egli portò via tutte le mie preoccupazioni e le mie pene. Il mio cuore fu riempito d’allegrezza dalla Sua intimità e la Sua bellezza. Dopo ciò, pregai Dio per la comunità di Mohammad, e questo in un tempo in cui s’era abbattuta su Shîrâz una terribile epidemia; c’erano morti e malati in massa. Infine pregai Dio di liberarmi: che io non avessi più a entrare nel palazzo degli Emiri. Sorto il mattino, sopravvenne un ordine divino e da quell’istante fui liberato della loro vista e della loro società (L. 51ª).»

NOTE

29 Sul Kashf al-asrâr, cfr. supra p. 22, n. 13. Citiamo generalmente qui dal manoscritto di Mashhad; le citazioni contrassegnate dalla sigla L sono fatte dal manoscritto di Louis Massignon, che aveva proprio voluto metterlo a nostra disposizione. La numerazione dei paragrafi è nostra; si riferisce a quella dell’edizione che speriamo davvero di dare un giorno, per quanto i manoscritti, di medesima famiglia, presentino le stesse gravi manchevolezze.

30 La distinzione classica tra gli attributi di Maestà (jalâl) e di Bellezza o di Grazia (jamâl) trova la sua conferma sperimentale nel Diarium di Rûzbehân; ma bisogna notare che essa corrisponde nella sua opera proprio alle varianti di una forma plastica molto precisa; cfr. infra p. 49, n. 35, la visione «sotto la più bella delle forme». Si noterà che gli attributi di Jalâl e Jamâl corrispondono rispettivamente, nella Cabala ebraica, al quarto e quinto sefirot: Gebura e Hesed.

31 Af’âl: le attività o operazioni divine ciascuna delle quali è la manifestazione di un Attributo divino sotto una forma appropriata alla natura di colui cui quest’Attributo è manifestato. Ciascuna dunque è il processo, il «teofanismo» di una teofania (tajallî); cfr.Introduzione al Jasmin, p. 114, e infra cap. V e p. 120, n. 170.

32 Su questi due «Angeli terrestri» (Angeli «della destra e della sinistra», «che dettano e che scrivono») cfr. il nostro libro Avicenna e il Racconto visionario, tomo I (Bibl. Iranienne, vol. 4), Parigi 1954, indice, p. 327.

33 Cfr. infra, libro IV, cap. III, 7 (la precellenza delle «linee materne» o delle «linee d’Eva» presso gli Horoufis, precellenza in ragione della quale è sotto quei tratti che Dio manifestò il suo volto al Profeta, in una visione instancabilmente meditata dai sufi, cfr.infra p. 49, n. 35).

34 Jalâl e Jamâl, cfr. supra p. 46, n. 30. C’è occasione, inoltre, di pensare qui alle categorie stabilite da Rudolf Otto: tremendum e fascinans, con tutte le sfumature che s’impongono in funzione delle variazioni del «sacro». Si può in un senso tradurre, come fa Fritz Meier, op. cit., con Erhabenheit (sublimità) e Freundlichkeit (affabilità). Tuttavia non ci sono che aspetti e conseguenze che sgorgano dall’Immagine primordiale. Andrebbe meglio conservare il senso primo: Maestà (rigore) e Bellezza (che affascina). Altrimenti, si spezza l’unità di lessico che caratterizza questa adorazione mistica della Bellezza (jamâl-parastî), e si perde di vista che l’Immagine primordiale si esprime imperiosamente nella visione d’una forma plastica molto precisa (cfr. nota seguente).

35 Sono i termini caratteristici del celebre «hadîth della visione» dove il Profeta attesta: «Ho visto il mio Signore sotto la più bella delle forme, come un Giovinetto dall’abbondante chioma, che sedeva sul Trono della grazia; era rivestito d’un abito verde; sulla sua chioma, una mitra d’oro; ai suoi piedi, sandali d’oro.» Su questo hadîth, le sue varianti e il suo utilizzo come tema di meditazione, cfr. il nostro Sufismo di Ibn ‘Arabî, pp. 203 ss., supra pp. 46 e 48, n. 30 e 34 e infra p. 93, n. 112 e 114. All’epoca di Rûzbehân, nello stesso Iran, il tipo di bellezza turk d’Asia centrale era visto come il tipo di bellezza per eccellenza, tanto per le giovani fanciulle quanto per i «giovani paggi». Le visualizzazioni come il lessico di Rûzbehân ne portano la traccia. Forse conviene stabilire un legame tra la straordinaria bellezza di cui avevano reputazione gli abitanti di certe città dell’attuale Turkestan, e la testimonianza di Abû Shakûr Sâlimî (V/XI sec.), secondo cui i Manichei d’Asia centrale si segnalavano per il culto che rendevano ad ogni essere di bellezza; cfr. la nostra Introduzione al Jasmin, pp. 100 ss. Si comprenderà come sia radicalmente impossibile tradurre, all’occorrenza, con «giovani Turk»! Cfr. infra n. 40, 44-45 e 49, e vedere il nostro studio su Manicheismo e religione della bellezza, in «Cahiers du Sud», aprile 1963.

36 Sawâqî, corr. Per aswâq, da un passaggio parallelo (§ 28).

37 È una formula d’invocazione celebre, quella proferita, per esempio, da Maryam al momento dell’apparizione dell’Angelo prima che le venisse detto, come enuncia ilMathnawî: «Tu prendi rifugio contro di me, e sono io che sono il Rifugio». Cfr. infra t. IV, libro V, cap. 1.

38 Hazrat al-Haqq: sul concetto di Hazrat («presenza», piano di coscienza, grado dell’essere o «dignità», come traduceva Raimondo Lullo), cfr. il nostro Sufismo di Ibn ‘Arabî, pp. 167 ss., 262-263. Najmoddîn Kobrâ si rappresenta gli Attributi divini come dei «luoghi» determinati nel Cielo; con ragione, Fritz Meier (op. cit. pp. 78-79) mette in relazione questi «luoghi» (hazrat, mahzar) con i topoi che, nei libri gnostici copti di Iéou (III sec.), sono le emanazioni del vero Dio e attraverso i quali sono condotte le anime dei mistici.

39 La luce rossa è una dominante delle visioni di Rûzbehân, cfr. quest’altra: «Vidi una notte qualcosa che avvolgeva i Cieli. Era una luce rossa scintillante. Chiesi: cos’è questo? Mi fu detto: È il mantello della Magnificenza (§ 25).» Il simbolismo della lucerossa, nella gnosi islamica, definirà tutta una ricerca; Michaël, come Anima divina universale, colonna destra inferiore del Trono, sommità maggiore del Malakût, ha colore rosso. Nello sciismo iraniano, nel secolo scorso, uno dei capi della scuola shaykhita, lo shaykh Mohammad Karîm Khân Kermânî (la cui opera geniale è di un’ampiezza estenuante, infra t. IV, libro VI, cap. II) ha, tra gli altri, scritto un trattato completo sulla luce rossa, studiando dal fenomeno ottico fino al senso esoterico del colore (Risâlat al-yâqûtat al-hamrâ’). Cfr. già qui precedentemente, t. II, cap. V.

40 Atrâk: cfr. supra p. 49, n. 35.

41 Questa dichiarazione desta una triplice reminiscenza: i termini stessi in cui l’Imâm Ja’far Sâdiq si rivolse a Abû’l-Khattâb (supra p. 42, n. 25); – l’idea del «califfo» sulla Terra di Dio; cfr. l’idea del Saggio perfetto, il «Polo», alla fine del prologo della «Teosofia orientale», Hikmat al-Ishrâq, di Sohrawardî; – i termini stessi in cui il Profeta si espresse riguardo al I Imâm, ‘Alî ibn Abî-Tâlib. Un sufi non sciita aspira a questa triplice investitura; un sufi sciita non può considerarsi che come lo «specchio» (mazhar) dell’Imâm.

42 Sui significati dell’Angelo Gabriel, cfr. il nostro Sufismo di Ibn ‘Arabî, indice s. v., p. 283.

43 Sulla «Notte del Destino» (una delle ultime del mese di Ramazan) come tema di meditazione, ricordiamo l’esegesi ismaelita che la percepisce (come gli altri giorni e notti) nella forma di una persona-archetipo, quella di Fâtima-Fâtir (Fâtima-creatore), la figlia del Profeta, sorgente della stirpe dei santi Imâm fino al Resuscitatore (Qâ’im); cfr. il nostro Rituale sabeo ed esegesi ismaelita del rituale (Eranos-Jahrbuch XIX), Zurigo 1951, pp. 235 ss.; Epifania divina e nascita spirituale nella Gnosi ismaelita (Eranos-Jahrbuch XXIII), Zurigo 1955, pp. 190-191.

44 Atrâk, cfr. supra p. 49, n. 35.

45 Atrâk, cfr. supra p. 49, n. 35.

46 Cfr. supra cap. III, i «70 veli». Questo numero (70, e anche 70.000) ha, beninteso, non un valore quantitativo statistico, ma il significato qualitativo di un numero-archetipo. In ogni caso, è il settenario che importa.

47 Sul senso della parola zendiq, così come è stato nei fatti compreso in Islam, cfr. Hujwîrî, Kashf al-Mahjûb, trad. R. A. Nicholson, pp. 404 ss. Ogni adepto del ta’wîlessendo uno zendiq agli occhi dell’Islam ufficiale, era facile perciò a questo imputare agli sciiti e sufi un rapporto con i Magi dell’antico Iran; cfr. ancora infra p. 103, n. 137, e Georges Vajda, Les Zindiqs en pays d’Islam au début de la période abbasside [Gli Zindiq in terra d’Islam all’inizio del periodo abbaside], in «Rivista degli studi orientali» XVI, 1937.

48 Compara l’hadîth: «Né il mio Cielo né la mia Terra mi contengono, ma il cuore del mio credente fedele mi contiene» (cfr. Sufismo di Ibn ‘Arabî, p. 146).

49 Cfr. supra p. 49, n. 35.

50 Tâ wâhid dar wâhid na-shawad: fintantoché  il pellegrino mistico non divenga 1 x 1; cfr. supra p. 43, n. 28 e infra p. 81, n. 84 e cap. VI, 6, p. 133, n. 191; cfr. precedentemente libro II, cap. VI, 5.

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Writer : shervin | Comments Off on Diarium spirituale (H. Corbin) Comments | Category : Via Spirituale

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