Intervista al prof. Zarghani
Crisi siriana, “Risveglio islamico” e “Primavera araba”: gli eventi mediorientali visti dalla Repubblica Islamica dell’Iran
A cura di Giuseppe Mahdi Aiello e Ali Reza Jalali
La crisi siriana e il caos generale imperante nel mondo arabo impongono una seria riflessione sulla cosiddetta “Primavera araba”. Uno dei principali Paesi sulla scena regionale e internazionale è sicuramente la Repubblica Islamica dell’Iran, che ha una posizione particolare nell’interpretare le ribellioni nei Paesi del Medio Oriente e del Nord Africa. Tehran non chiama queste rivoluzioni “Primavera araba”, ma le definisce “Risveglio islamico”, per sottolineare l’interpretazione errata occidentale che vedrebbe le masse arabe alla ricerca di democrazia liberale, diritti umani e un rapporto conciliante con l’Occidente. Per capire meglio il punto di vista iraniano sul tema, ci siamo rivolti al prof. Seyyed Hadi Zarghani, docente di geopolitica all’Università “Ferdowsi” di Mashad (Iran orientale).
Gentile professore, le vicende che hanno riguardato nell’ultimo anno e mezzo il mondo arabo, con le rivolte popolari contro i regimi al potere in diversi Paesi, sono state seguite dall’Iran con molto interesse e con simpatia. Quando però l’instabilità ha raggiunto la Siria, i dirigenti iraniani hanno difeso il governo di Damasco. Che importanza ha dal punto di vista geopolitico per Tehran il ruolo della Siria governata da Bashar Assad?
Per dare una risposta esauriente alla sua domanda, dobbiamo analizzare la nuova sfida riguardante il Medio Oriente nel suo complesso. Se considerassimo tutta la regione come un campo di battaglia tra alcune potenze, comprenderemmo meglio gli sviluppi delle questioni all’ordine del giorno. Le potenze regionali coinvolte sono Iran, Turchia, Arabia Saudita e Israele, mentre le potenze extraregionali e mondiali con interessi specifici negli affari mediorientali sono USA, Gran Bretagna, Francia, Russia e Cina. Ognuna di queste potenze, sia regionali che mondiali, hanno interessi diversi, e in base alle circostanze le alleanze che si creano possono mutare. Ad esempio Russia e Cina sostengono il governo al potere in Siria per via di una comunanza di vedute su diversi argomenti. Lo stesso si può dire per gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e la Francia. A livello regionale la sfida è invece tra Iran e Arabia Saudita, che hanno posizioni antitetiche. La vittoria finale sarà di chi riuscirà a sfruttare meglio le occasioni e il potenziale strategico e geopolitico a disposizione. La battaglia per Damasco è divenuta negli ultimi mesi il principale campo di scontro geopolitico tra le potenze, e gli attori della politica internazionale cercano in tutti i modi di influenzare gli eventi con ingenti finanziamenti economici e una pesante propaganda politica. Quindi l’Occidente, la Turchia, Israele e l’Arabia Saudita cercano in tutti i modi di abbattere il governo e d’altro canto Russia, Cina e Iran provano a controbattere questi complotti. Dalla sua domanda si evince che l’Iran avrebbe una posizione contraddittoria, visto che dopo aver sostenuto le rivolte in Paesi come Egitto e Tunisia, ora sostiene il governo di Damasco. Ma questa è una caratteristica di tutti i principali attori della politica internazionale, visto che, ad esempio, gli USA, Israele e l’Arabia Saudita, sostengono la rivolta siriana, ma in Bahrain sostengono il regime monarchico che reprime brutalmente i rivoluzionari disarmati. Questo fatto mi costringe a aprire una parentesi “tecnica”. Ogni Paese ha un proprio “codice geopolitico”, che rimane stabile e si basa principalmente sulla questione dell’interesse e della sicurezza nazionale. Se vi sono cambiamenti di impostazione questi sono solo apparenti, ma il “codice geopolitico” rimane immutato. Ad esempio il governo nordamericano dopo l’11 settembre 2001, con l’occupazione dell’Afghanistan e dell’Iraq, ha intrapreso una politica aggressiva nel Medio Oriente, finalizzata all’egemonia completa sul mercato degli idrocarburi e sulla difesa della sicurezza di Israele. L’attuale attacco di bande armate sostenute dall’Occidente contro il governo di Assad, si colloca nello stesso “codice geopolitico” dell’invasione di Kabul e di Baghdad, anche se apparentemente con una modalità diversa. D’altronde il sostegno dell’Iran a Damasco e la simpatia e la propaganda a favore delle rivolte in Egitto e in Bahrain, sono collocabili in un unico “codice geopolitico” finalizzato da un lato a difendere la propria sfera di influenza, e d’altro canto a destabilizzare la sfera di influenza di USA, Israele e Arabia Saudita. Tornando invece in modo specifico al legame tra Iran e Siria, bisogna dire che dalla Rivoluzione islamica iraniana del 1979, Tehran si è riposizionata su istanze anti-imperialiste e antisioniste, diventando la principale preoccupazione degli Stati Uniti e di Israele. Lungo tutti questi anni, l’Iran è riuscito a creare una rete di alleanze regionali con la resistenza libanese e palestinese, principalmente grazie alla collaborazione attiva e fondamentale di Damasco. Perdere la Siria per l’Iran vuol dire la deflagrazione di questa alleanza antiamericana e antisionista. Ed è per questo che l’Occidente e i suoi alleati regionali cercano in tutti i modi di rovesciare Assad, tramite le bande armate infiltrate dall’estero, risoluzioni ONU, ingerenze pesanti e, perché no, un diretto intervento militare sul modello libico, con o senza l’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza ONU, dove Russia e Cina non vogliono il ripetersi dello scenario che ha scalzato Gheddafi. In questi ultimi giorni la crisi siriana ha subito una netta accelerazione e bisognerà vedere se l’Occidente vorrà forzare la mano con un intervento armato diretto, con il rischio di un conflitto a tutto campo tra diverse potenze internazionali.
Alcuni analisti pensano che l’alleanza creatasi tra le potenze eurasiatiche (Russia, Cina, Iran) sia solo momentanea e non strategica, mentre l’alleanza tra USA, UE, Israele, Turchia e Arabia Saudita sia molto più seria. Lei cosa pensa al riguardo?
Le alleanze tra gli Stati dipendono dagli interessi comuni che si creano nei vari contesti. Generalmente possiamo avere due tipi di alleanze o unioni: tattiche o strategiche. Nelle alleanze tattiche due o più Paesi si uniscono per affrontare una singola vicenda, ma una volta risolta la questione, le distanze tra gli alleati aumentano e di fatto l’alleanza viene meno. Nell’alleanza strategica invece le posizioni sono comuni in base ad una visuale di lungo periodo e l’unione degli intenti è più forte e più duratura rispetto alle alleanze tattiche. Farò un esempio per farmi capire meglio. Secondo le tradizioni sociali iraniche gli amici si dividono in tre gruppi: gli amici “a parole”, che fanno solo professione verbale di amicizia e intimità, gli amici “per interessi”, che si concentrano sul lato economico di un’amicizia e gli amici “per la pelle”, che sono disposti a dare tutto per un legame fraterno. Anche per l’amicizia e l’alleanza tra i governi, più o meno funziona così, ovvero alcune alleanze sono rette da un legame molto forte, fatto di un “idem sentire” su tematiche culturali o ideologiche, mentre altri tipi di alleanze sono decisamente più blande e momentanee. Nell’alleanza strategica, la sicurezza e la prosperità di un Paese diventa quella dell’alleato e viceversa, la crisi economica o il caos sociale di una nazione è condivisa dall’alleato. Volendo quindi contestualizzare tutto ciò, bisogna dire che riguardo alla crisi siriana, siamo dinnanzi a due fronti eterogenei retti da un principio più simile ad un’alleanza tattica che non ad un’alleanza strategica, sia per l’asse Mosca-Pechino-Tehran, sia per l’apparente unione tra Paesi NATO, Israele e alcuni attori del mondo arabo. Questo perché il punto di vista, l’interesse e il peso geopolitico dei vari contendenti è diverso; ad esempio le relazioni israelo-americane sono molto forti, mentre l’alleanza tra USA e UE ha un grado inferiore di intensità. Mentre USA e Israele ritengono il mondo islamico e l’Islam politico come una potenziale minaccia, la Turchia e l’Arabia Saudita hanno una diversa visuale riguardo a tale questione. Gli stessi rapporti tra UE e Turchia sono controversi, visto che Ankara cerca a tutti i costi l’ingresso nell’Europa bianca e cristiana, ma è esclusa principalmente per la sua civiltà islamica eterogenea rispetto alle nazioni europee. Quindi in questo ampio fronte anti-Assad le posizioni sono diverse, ma solo l’alleanza tra USA e Israele può essere definita strategica, mentre le altre sono tattiche. Lo stesso si può dire anche per l’asse sino-russo-iraniano. La Russia e la Cina hanno un comune timore per il fondamentalismo islamico, e in passato, sulla vicenda del nucleare iraniano, hanno espresso addirittura posizioni simili all’Occidente, votando delle sanzioni anti-iraniane all’interno del Consiglio di Sicurezza ONU. Quindi vediamo che entrambe le alleanze, sia quella a favore del governo siariano, sia quella contraria alla permanenza del presidente Assad al potere, sono unioni tattiche e non strategiche. Inoltre, l’atteggiamento sino-russo riguardo agli avvenimenti mediorientali, rispetto al ruolo regionale degli USA, è sempre stato abbastaza debole. Nella recente guerra libica abbiamo visto che i russi sono disposti a giocare col fuoco e a scendere a patti pericolosi con gli Stati Uniti. In Siria però la situazione è diversa, visto che qui si gioca il futuro degli assetti mondiali e ogni potenza coinvolta, sia gli attori regionali che quelli extraregionali, sa bene questo fatto. Si presume quindi che la Russia questa volta non accetti compromessi.
Esistono principalmente due interpretazioni riguardo alla cosiddetta “Primavera araba”: una di tipo geopolitico, basata sul presupposto che queste ribellioni e rivoluzioni nel mondo arabo sono in realtà fomentate da potenze straniere, che mirano al controllo della regione più importante del pianeta per ciò che concerne i giacimenti di idrocarburi. Il controllo del Vicino Oriente da molti è visto come il controllo delle relazioni internazionali nel XXI secolo. Gli USA e Israele cercano un cambio ai vertici dei regimi arabi, ma non vogliono un cambiamento di linea politica e orientamento occidentalofilo dei governi arabi (quanto meno della loro maggioranza). L’Iran dal canto suo cerca di influenzare i nuovi governi arabi scaturiti dalle rivoluzioni, per far mutare orientamento a questi governi, tendenzialmente anti-iraniani. Un’altra interpretazione alla “Primavera araba” è quella imperante nei media occidentali, ovvero delle ribellioni in nome di democrazia, diritti umani, migliori condizioni economiche e così via. In base a questa seconda interpretazione, alle masse rivoluzionarie arabe, non interessa un particolare orientamento politico dei nuovi regimi (anti o pro-occidentali). Che opinione si è fatto di tutto ciò?
A mio modo di vedere entrambe queste interpretazioni sono esatte ed hanno un senso. Da un lato i popoli arabi vogliono un cambiamento dei regimi autoritari, ma d’altro canto è innegabile lo scontro tra le potenze per influenzare i cambiamenti a proprio favore. La regione mediorientale è anni luce indietro rispetto ad altre aree del mondo per ciò che concerne il processo di democratizzazione. Ciò è dovuto principalmente al ruolo delle potenze extraregionali che non hanno mai visto di buon occhio libere elezioni nel mondo arabo, per via dell’importanza senza eguali di questa regione rispetto ad altri contesti. Secondo me le rivolte nel Nord Africa hanno avuto delle caratteristiche particolari, e non sono state fomentate dall’estero, almeno nella fase iniziale. I problemi in questi Paesi erano molteplici, dalla corruzione delle classi dirigenti alla dittatura, e le masse oppresse si sono ribellate a queste ingiustizie. La verità è che dittatori e autocrati come Ben Ali, Mubarak e Gheddafi, sostenuti o comunque in ottime relazioni coi Paesi occidentali, come USA, Gran Bretagna, Francia e Italia, hanno depredato le risorse dei rispettivi Paesi, facendo soffrire le popolazioni arabe. Sicuramente i media in queste rivolte hanno avuto un ruolo importante, visto che i canali satellitari e internet hanno avuto un ruolo importante nel passaggio delle informazioni. I popoli hanno seguito le ribellioni in diretta, e ciò ha reso le masse arabe deste e informate sui fatti. Il ceto sociale che più ha partecipato a queste rivolte è stato quello dei giovani laureati, che con spirito combattivo, libero e anti-autoritario hanno manifestato pacificamente il loro dissenso da classi dirigenti corrotte e agenti di potenze straniere. Il “virus” rivoluzionario si è espanso immediatamente nel mondo arabo, fino a lambire le coste del Golfo Persico e della Penisola araba, ma l’intervento degli attori internazionali ha evitato, almeno fino ad oggi, la caduta di altri regimi corrotti nel Medio Oriente arabo. Un’altra faccia della cosiddetta “Primavera araba” è indubbiamente lo scontro geopolitico tra le potenze regionali e extraregionali per influenzare a proprio vantaggio gli eventi. In realtà lo scontro non è solo geopolitico, ma anche geostrategico, geoeconomico e geoculturale. Addirittuara siamo arrivati ad una doppia definizione per le ribellioni nel mondo arabo: “Primavera araba” e “Risveglio islamico”. Sembra scontato il fatto che, in contesti a maggioranza musulmana, dei governi democratici si caratterizzino per una decisa matrice religiosa, come abbiamo visto nelle elezioni in Tunisia ed Egitto. Tutto ciò, almeno potenzialmente, spaventa gli USA e Israele, visto che da diversi anni questi governi propongono idee e atteggiamenti apertamente islamofobi. Le rivolte in Tunisia e Egitto hanno spiazzato i dirigenti americani, ma col passare del tempo sono riusciti a riorganizzarsi e in Libia hanno preso l’iniziativa attraverso l’intervento armato diretto. In questo modo hanno voluto farsi passare per paladini della causa democratica nel mondo arabo. L’obiettivo finale degli americani sembra quello di evitare nuove ribellioni in altri Paesi, e di “guidare” la transizione in Nord Africa verso un modello “secolare” o “semi-islamico”, come in Turchia. In altri contesti invece, come in Bahrain, in Yemen, in Arabia Saudita e in Giordania, l’Occidente è riuscito, per il momento, a soffocare la rivolta. Dall’altra parte della barricata c’è l’Iran, che crede nella componente islamica delle rivoluzioni e cerca di presentarsi alle masse arabe come l’esempio da seguire, in base alla comune appartenenza alla grande “casa islamica”, per l’istaurazione di governi democratici e ostili nei confronti dell’egemonia extraregionale. La sfida geopolitica tra Iran e USA nel mondo arabo si concretizza nella presentazione di due modelli differenti: la democrazia islamica e la democrazia liberale. La vittoria della Fratellanza Musulmana in Egitto ha dimostrato ancora una volta che i popoli arabi, se hanno la possibilità di scegliere, votano per l’islam politico e non per altre ideologie “di importazione”. Questo è quello che terrorizza gli USA e Israele, la capacità dell’Iran di influenzare gli eventi. Ovviamente l’Occidente non starà a guardare e la destabilizzazione della Siria, lo scontro con Hezbollah e altre questioni sono finalizzate alla sconfitta o al ridimensionamento dell’influenza iraniana. Un’altra carta che stanno giocando in funzione anti-iraniana e anti-sciita è il potenziamento di alcuni gruppi salafiti nella regione, patrocinati da alcuni governi del mondo arabo.
Come ha ricordato anche lei, l’Iran non ha accettato la definizione di “Primavera araba”. Le autorità e gli intellettuali iraniani hanno coniato il concetto di “Risveglio islamico”, volendo sottolineare la matrice religiosa delle rivolte. Tehran quindi ha avuto sempre una visione “ottimistica” (ovviamente dalla propria visuale) riguardo alle rivoluzioni in corso, ma i primi frutti delle ribellioni in corso, ovvero i governi islamisti di Tunisi e del Cairo, in politica estere e per ciò che concerne la principale crisi regionale, ovvero il caos siriano, si sono allineate all’Occidente e non alla Repubblica islamica dell’Iran. Come si spiega questo apparente paradosso? Gli iraniani possono ancora parlare di “Risveglio”?
Per rispondere alla sua domanda sono costretto a prendere in considerazione due questioni principali. Da un lato bisogna vedere se l’etichetta di “Risveglio islamico” sia corretta per le rivolte in Paesi come Tunisia, Egitto, Yemen, Bahrain ecc. D’altro canto dobbiamo considerare il motivo delle prese di posizione in Tunisia o Egitto contro il governo siriano sostenuto dall’Iran e inviso a Israele. Le rivolte nella regione mediorientale e nordafricana hanno avuto motivi economici, politici, culturali e religiosi. In Iran è prevalsa la tesi della matrice culturale e religiosa, ma in altri Paesi gli intellettuali hanno optato per analisi socio-economiche. Le autorità iraniane hanno ritenuto che gli insegnamenti islamici, basati su un forte senso di giustizia, siano la causa principale delle rivolte anti-regime nel mondo arabo. Da questo punto di vista, l’islam è considerato come una scuola universale ed onnicomprensiva, basata sulla lotta alla dittatura, all’oppressione, alle ingiustizie. Il pensiero islamico può essere la base di una svolta, non solo spirituale, ma anche sociale senza precedenti. Non a caso il Corano afferma che la vittoria della falsità sui credenti non è permessa da Dio (capitolo 4; versetto 141). I musulmani hanno il dovere di lottare contro la menzogna e i governanti corrotti ed islamofobi. La matrice islamica delle rivolte nel mondo arabo è innegabile, tanto più che il grido di battaglia dei rivoluzionari è “Allah Akbar” (Iddio è Grande), il luogo di ritrovo dei ribelli sono le moschee ed il ruolo dei partiti islamisti, sia durante sia dopo la rivoluzione è evidente, come hanno mostrato anche le libere elezioni in Egitto e Tunisia. La Fratellanza Musulmana, soprattutto in Egitto, ha dimostrato una grande influenza sulle masse oppresse dei Paesi arabo-mediterranei. Secondo me il concetto di “Risveglio islamico” collegato alle rivolte nel mondo arabofono è corretto. L’esempio da seguire per i rivoluzionari del mondo arabo è senza ombra di dubbio quello di Hezbollah, che basandosi su un autentico messaggio islamico ha resistito dinnanzi alle potenze arroganti; oppure la Repubblica islamica dell’Iran, che lungo questi decenni è stato il principale avversario delle prepotenze di alcuni governi nel mondo. Ad esempio in Egitto, e in altri Paesi arabi, la devastante sconfitta contro Israele nel 1967, ha rappresentato un’umiliazione molto grande. La scusa dei regimi arabi per giustificare la sconfitta fu l’ipotetica invincibilità dell’esercito di Tel Aviv e l’appoggio della superpotenza americana ad esso. A distanza di tre decenni dalla Rivoluzione islamica del 1979 in Iran, questo Paese musulmano è ormai ufficialmente riconosciuto nel mondo come l’avanguardia e il principale oppositore dell’imperialismo americano. Inoltre, la vittoria di Hezbollah contro Israele nella guerra del 2006 ha definitivamente infranto il mito dell’invincibilità israelo-americana. Tutto questo ha prodotto nei giovani egiziani una consapevolezza completamente nuova, e io penso che l’odio dei rivoluzionari nei confronti di Israele e l’amore per l’islam rivoluzionario si siano concretizzate al Cairo, quando il popolo ha attaccato e occupato la rappresentanza diplomatica di Tel Aviv, all’indomani della caduta del regime filoamericano e filoisraeliano di Mubarak. Riguardo poi alle posizioni antisiriane delle autorità islamiste egiziane e tunisine, bisogna sottolineare il fatto che i popoli di questi Paesi non necessariamente condividono le posizioni dei propri governanti. Questi regimi sono stati completamente controllati da potenze straniere, e prima che questo atteggiamento di sudditanza possa cambiare ci vuole del tempo. Sarebbe molto superficiale da parte nostra aspettare un cambiamento repentino delle posizioni dei nuovi governi e bisogna considerare anche l’esistenza di trattati internazionali che impongono ai nuovi regimi una certa attenzione nelle mosse geopolitiche da fare. Ad esempio sono più che certo del fatto che gli egiziani vedrebbero di buon occhio la cancellazione del trattato di pace con Israele, ma il governo di Morsi, per via di questioni economiche e pressioni internazionali, non può attuare una vera politica indipendente e rivoluzionaria, almeno nel breve periodo. Non è un caso quindi che il primo viaggio all’estero di Morsi sia stato in Arabia Saudita, Paese ricco e in linea con le politiche antisiriane e anti-iraniane di Israele e degli USA. Inoltre non possiamo dimenticare il fatto che l’Iran è un Paese sciita, mentre l’Egitto e l’Arabia Saudita essendo Paesi sunniti ed è normale che vi siano vedute diverse.
Come vediamo gli sviluppi delle vicende mediorientali hanno un impatto diretto sugli equilibri mondiali. Una cosa è certa: il mondo arabo vive un periodo di forte instabilità o addirittura un vuoto di potere. In questa sfida geopolitica, geoculturale, geoeconomica, e geostrategica chi riuscirà a riempire questo vuoto? L'”Asse della Resistenza” a guida iraniana o l’asse israelo-americano? O per meglio dire, vincerà il “Risveglio islamico” o la “Primavera araba”?
L’instabilità nei Paesi arabi si caratterizza su due poli, ovvero i governi e i popoli. A livello popolare sembra progressivamente prendere piede il “Risveglio islamico”. Nei prossimi anni tutto ciò sarà più chiaro e andremo in contro ad un movimento globale nel mondo musulmano, finalizzato alla creazione di un polo che riscoprirà la sua grandezza come civiltà. Il ruolo dell’Iran sarà cruciale, in quanto la Repubblica islamica sia dal punto di vista ideologico che materiale è un esempio. L’Iran è una potenza regionale e i popoli arabi sono e saranno influenzati dal “soft power” di Tehran. Ovviamente questo processo sarà sabotato dall’Occidente e dagli USA che giocheranno la carta delle guerre inter-islamiche per dividere i musulmani e renderli deboli. Gli occidentali per non perdere il controllo della regione cercheranno non solo lo scontro tra i popoli musulmani, ma anche i dissidi tra i governi, per deviare le rivoluzioni e pilotarle verso la “Primavera araba”. La vicenda siriana dimostra che il processo finalizzato alla trasformazione del “Risveglio islamico” in “Primavera araba” è già cominciato e l’opposizione dei gruppi islamisti di fede sunnita (la Fratellanza Musulmana, ma anche gruppi radicali come i salafiti e Al Qaida, senza dimenticare il tentennamento di Hamas) al governo siriano (influenzato dagli alawiti) è la dimostrazione di tutto ciò; i popoli musulmani invece di stare uniti contro il nemico comune, cioè Israele, si combattono tra di loro e si indeboliscono vicendevolmente. Purtroppo i prossimi mesi segneranno un aumento degli scontri e il Medio Oriente diventerà il luogo di cruente battaglie. Oltre allo scontro tra musulmani, i governi occidentali stanno fomentando lo scontro in Asia tra musulmani e buddisti, come in Myanmar. Il silenzio dei presunti difensori dei diritti umani in queste vicende è sconvolgente. A livello dei regimi e dei governi però la situazione è diversa. Sicuramente i regimi dovranno tentare un approccio più democratico con i rispettivi popoli, ma il peso dell’egemonia e dell’influenza americana sui governi della regione mediorientale si farà sentire, per cui i cambiamenti potrebbero essere molto lenti. Non mi stancherò di ripetere che in questo momento la questione più importante rimane la crisi siriana, nella quale le potenze extraregionali stanno mettendo da parte le amicizie di facciata per intraprendere politiche più improntate all’interesse nazionale. Gli USA sostengono ormai apertamente l’opposizione armata al presidente Assad, d’altro canto Russia e Cina inviano navi da guerra nel Mediterraneo, in sostegno del governo siriano. Senza dubbio il vincitore dello scontro in atto nel Paese arabo-mediterraneo riuscirà ad influenzare gli eventi mondiali in modo impensabile fino a qualche tempo fa.