Al-Hijra: il concetto di migrazione nell’Islam (seconda parte)

Al-Hijra: il concetto di migrazione nell’Islam (seconda parte)*

Il migrante, dunque, volente o nolente, dà vita ad una realtà inedita che ha avuto pochi esempi nel passato: la presenza di una realtà musulmana immersa in un contesto a maggioranza non-musulmana e areligiosa o, addirittura, antireligiosa. A tal proposito, sono stati fatti numerosi tentativi di razionalizzare questa presenza nel suddetto scenario, sviluppando teorie finalizzate ad assicurare alla minoranza musulmana una vita degna e decente: simili risposte devono giungere dalla stessa comunità islamica, la quale ha proposto varie soluzioni. Tra queste, il tentativo più noto è il “fiqh delle minoranze” (Fiqh al-Aqalliyyat), dove il termine fiqh è usualmente tradotto con “diritto, giurisprudenza” in un contesto islamico. Ebbene, attraverso questo “fiqh delle minoranze” si è cercato di presentare delle teorie ed introdurre dei principi pensati appositamente per quelle minoranze islamiche che vivono in un paese o in un contesto a maggioranza non-islamica o, perfino, anti-islamica. Di ciò si iniziò a discutere più o meno agli inizi degli anni Novanta, quando alcuni studiosi presentarono diverse teorie tra le quali figurò proprio il “fiqh delle minoranze”. Tra i vari intellettuali impegnati nell’argomento emerso le figure del dottor Taha Jabir Al-Alwani e dello Shaykh Yusuf al-Qaradawi. Il dottor Taha Jabir, pur rivendicando l’universalità dell’Islam, propose che le leggi islamiche di applicazione pratica (di argomento, dunque, della shari’a e della giurisprudenza), ovvero le leggi che il musulmano deve vivere in prima persona nella sua quotidianità come il modo corretto di pregare o digiunare, le regole inerenti la carità e l’usura, il rapporto con Dio e simili, potessero essere, in certi contesti, modificate o, quantomeno, attenzionate in base agli scopi della legge stessa; si tratta, dunque, di riprendere i Maqasid e riportarli nel contesto moderno, evidenziando gli scopi originari di queste leggi nell’Islam sì da dedurne dei regolamenti dal punto di vista dell’ortoprassi. La legge sarebbe, secondo questa opinione, uno strumento intermediario per raggiungere uno scopo (maqsad), dunque soggetto a variazioni rispetto al passato purché lo scopo rimanga il medesimo. In aggiunta a ciò, lo Shaykh al-Qaradawi presentò il paese non-musulmano che ospita una minoranza musulmana come Dār al-Da’wa (terreno dell’invito), dunque sconsigliò al credente di isolarsi, invitandolo piuttosto a partecipare alla vita sociale e politica sotto ogni aspetto, al fine di consigliare le buone consuetudini ed invitare la gente al bene e, più in generale, all’Islam.

Questo tipo di discussioni nacque in risposta al tema del voto, soprattutto in America, quando ci si domandò se ai musulmani fosse permesso o, perfino, dovessero partecipare alla vita politica e votare per un determinato partito (per quanto gli Stati Uniti offrano una magra scelta in quanto sistema bipartitico, oltretutto entrambi facce di una stessa medaglia). Ne scaturirono diverse opinioni, che possono essere riassunte in tre principali punti di vista. Il primo tra questi, ponendosi nel mezzo dello spettro, è il più moderato: esso sostiene che al musulmano sia concesso votare sebbene non si rispecchi pienamente in un determinato partito politico o in un particolare candidato a presidente, purché dia la propria preferenza all’opzione che danneggi il meno possibile la società in generale e la minoranza islamica in particolare. La seconda opinione impone il dovere del voto al musulmano, il quale deve schierarsi ideologicamente con un dato partito; un simile punto di vista ha generato numerose discussioni in quanto invita a confermare o sottoscrivere, direttamente o indirettamente, le idee del partito o del candidato che si sceglie per il voto, delegandone la propria rappresentanza. Questa opinione è stata soggetta a numerose critiche poiché, qualora si scegliesse di concedere il proprio voto ad un partito totalmente laico, se ne starebbero sottoscrivendo le idee riconoscendo, in tal modo, qualcosa che nulla ha a che fare con l’Islam; in risposta, chi sostiene che votare sia un dovere afferma che questo sia l’unico modo per migliorare la situazione corrente e cambiare in meglio le circostanze di un paese mentre, qualora si scegliesse di rinunciare al voto, il musulmano o i religiosi in generale, vivendo in una società areligiosa o antireligiosa, non godrebbero di alcun altro mezzo per migliorare la propria condizione; è quindi meglio schierarsi con coloro le cui idee paiono più condivisibili delle altre. La terza opinione, di contro, vieta categoricamente la partecipazione alle elezioni ritenendola islamicamente inaccettabile: lungi dall’esortare al conflitto, questa opinione presenta piuttosto il non-voto, ovvero la dimostrazione del disinteresse alla politica, come una presa di posizione politica; il boicottaggio del voto, inoltre, se attuato in modo cosciente, può assumere anche la forma di una presa di posizione spirituale, qualora si riponga la propria fiducia in Dio e si riconosca il sistema politico come estraneo al Suo nome: è il rifiuto di un mestiere che non agisce bismillah, col nome di Dio. A sostegno di questa opinione, esistono numerosi versetti del Corano in cui è facile leggere simili posizioni: Invero il giudizio spetta solo a Dio, o Coloro che non governano secondo quanto Allah ha fatto scendere, ebbene, essi sono i miscredenti, e chi rigetta l’autorità ingiusta e crede in Dio è colui che si aggrappa alla Sua corda più salda. È d’altronde questo il principio riassunto in la ilaha illa Allah, “non si adora nient’altro se non Dio”, da cui si deduce che è bene approvare ciò che è fatto in Suo nome ed astenersi da quel che non lo è. Quelle citate sono le tre opinioni maggiori circa la questione della legittimità del voto, entrata a far parte del “fiqh delle minoranze”.

I principi che determinano la giurisprudenza per le minoranze devono essere, comunque, i medesimi della maggioranza, ovvero i principi del Corano e della Sunna, accettati dalla maggioranza dei musulmani, nonché il consenso, l’intelletto, l’analogia e altri meno universalmente condivisi; tuttavia, sarebbe irrealistico aspettarsi che i musulmani in minoranza nei paesi occidentali seguano la stessa giurisprudenza dei correligionari nei paesi ove questi ultimi sono la maggioranza, motivo per cui sono necessarie delle regole differenti: gli studiosi proposero il principio della Ijtihād (interpretazione), che oltre agli elementi di qiyas (ragionamento), ‘aql (intelletto) e istihsan (preferenza), che per secoli sono stati alla base della società musulmana, include anche qualcosa di inedito, come il rafforzamento del concetto di maslaha (interesse pubblico). L’attenzione su questo argomento non è, comunque, qualcosa di recente, poiché già il sapiente hanbalita Nasruddin ad-Tufi ipotizzò perfino che, per quanto concernesse le questioni non inerenti all’adorazione e al culto, qualora vi fosse una contraddizione tra il Corano e la Sunna da un lato e il maslaha dall’altro, occorresse assecondare quest’ultimo, dunque l’interesse pubblico; questo concetto, dopotutto, è riscontrabile in diversi paesi odierni, persino in varie repubbliche islamiche, come l’Iran, l’Afghanistan o il Pakistan, ove si dimostra difficile applicare completamente quanto è detto da Corano e Sunna a causa del contesto sia nazionale che internazionale. Ad ogni modo, il “fiqh delle minoranze” pone un’enfasi particolare sui concetti di interesse pubblico, come detto, e sul taysir, ovvero la facilitazione di alcune regole. Ne è un esempio la combinazione delle salāt maghrib e isha’ nei paesi del Nord Europa per via dei ritmi della vita e gli orari che si differenziano dal meridione: a questo proposito, alcune scuole islamiche sunnite hanno stabilito che fosse possibile combinare le preghiere (cosa che gli sciiti moderni fanno in generale, non solo in caso di viaggio). Particolare importanza ha anche l’’urf, l’usanza locale o regionale, che è possibile accettare qualora questa non entri in contrasto col Corano e con la Sunna. Ognuno di questi concetti testimonia la necessità, data da un contesto estraneo, di modificare ed elasticizzare le leggi; ciò, tuttavia, può pericolosamente portare il credente a trascurare la Scrittura, tramutando il nuovo e modernizzato fiqh in un soggettivismo generale succube delle circostanze, incoraggiando un determinato comportamento a discapito delle tradizioni, col rischio che ne risentano anche la fede e la spiritualità, in un mondo dove tutto diventa relativo. È bene ribadire, difatti, che i concetti sono i medesimi indipendentemente dalla situazione geografica: l’inseminazione artificiale, ad esempio, è tale sia che la si pratichi in segreto al Cairo o apertamente a Parigi. Il pericolo è quindi che la questione del “fiqh delle minoranze” si tramuti in un pretesto per trascurare la tradizione millenaria dell’Islam e la Rivelazione stessa.

Sebbene non vi sia alcun male nell’identificare i vari scopi della religione, occorre prestare una particolare attenzione a non sorpassare la linea che porta all’assorbimento graduale nel contesto non-islamico né spirituale ospitante, poiché ciò condurrebbe all’inevitabile annullamento in esso dell’identità musulmana com’è accaduto alla Chiesa: nonostante la buona fede di molti cattolici, essi sono stati assorbiti da un sistema divenuto più grande e subdolo di loro. Ebbene, il pericolo per la comunità islamica è il medesimo, in particolar modo per quelle minoranze che abitano in un paese che non concede loro alcun potere decisionale. È certamente difficoltoso trovare una via di mezzo che permetta al musulmano di vivere la propria fede in maniera integrale pur riuscendo a contribuire in modo positivo alla società alla quale appartiene. Va evitata l’emarginazione volontaria in favore di uno scambio che comprenda la partecipazione reciproca; è il Corano stesso ad invitare alla conoscenza tra diversi popoli e tribù, non solamente tra musulmani, pur opponendosi al subdolo processo di assorbimento da parte di una società antireligiosa tramite la perdita graduale delle tradizioni e della religione stessa. È importante affermare la propria identità rifacendosi al principio del la ilaha illa Allah, che comprende una negazione (non v’è altro Dio) ed un’affermazione (oltre Allah): alla negazione di tutto ciò che non è divino deve necessariamente seguire l’affermazione di ciò che lo è, giacché la sola negazione non è propria del credente, mentre colui che recita la formula completa, promette un hadith, è destinato al paradiso.

Il rischio del “fiqh delle minoranze” è dunque quello di creare un Islam basato su principi differenti da quelli dei paesi musulmani: se in essi l’enfasi è riposta sul Corano e sulla Sunna, la teoria del fiqh rischia (sebbene una simile conclusione non sia certa) di trasformarsi in una sorta di adeguamento della religione alla vita moderna, lasciando in secondo piano Corano e Sunna in favore di altri concetti quali l’interesse pubblico e le usanze locali. Si verrebbe in tal modo a creare una diaspora di musulmani sradicati dalla propria terra d’origine e, soprattutto, dall’insegnamento tradizionale dell’Islam. È quindi necessario confermare l’importanza fondamentale e necessaria della Rivelazione e della tradizione, nonché rivendicare il primato di queste ultime su qualsiasi altra teoria o tecnicismo di sorta in virtù della loro rivelazione direttamente da parte di Iddio l’Altissimo, mentre tutti gli altri meccanismi artificiali, per quanto importanti, appartengono alla sfera umana: dar loro la precedenza sul resto significherebbe sostituire l’umanità al divino. È importante enfatizzare, nella giusta modalità, il primato della Rivelazione e della tradizione su tutto il resto, rafforzando il senso di appartenenza alla comunità islamica (umma) e rinunciando, di conseguenza, al pretesto secondo il quale le minoranze musulmane presenti in paesi non-musulmani rappresentino un caso speciale e possano dunque dar vita ad una nuova religione basata su concetti che, pur non negando la Rivelazione e la tradizione, le subordinano a concezioni prettamente umane o umanistiche. Il senso di appartenenza alla umma va incrementato anzitutto attraverso uno studio che non tradisca la tradizione islamica in favore, magari, di studi alternativi nati in contesti occidentali e non-islamici. Diventa quindi necessario riscoprire le proprie radici spirituali e riappropriarsi di uno studio tradizionale che non miri soltanto all’ottenimento di un riconoscimento materiale utile a questo mondo, bensì che favorisca una formazione spirituale che vada oltre il pezzo di carta, tale da permettere al musulmano di accedere alla dimensione dell’anima e portarne testimonianza in questo mondo. Studio, dunque, e purificazione dell’anima sono attività che dovrebbero camminare di pari passo, insieme al rafforzamento dei concetti di umma e fratellanza tra i musulmani in generale e, in particolar modo, tra coloro che abitano in una stessa area, città, regione o paese.

Ad ogni modo, questa minoranza musulmana abita in un contesto che non è il proprio, ove tra i valori più alti spicca la liberaldemocrazia: essa altro non è che un matrimonio tra due importanti teorie quali il liberalismo e la democrazia, sebbene si potrebbe discutere a lungo se le democrazie in Occidente siano da considerarsi effettivamente tali e non una sorta di meccanismo ipocrita, giacché ai cittadini non è chiesto di nominare direttamente i propri rappresentanti, bensì candidati scelti da qualcun altro su cui i votanti non hanno voce in capitolo. Aldilà di ciò, vale la pena di analizzare nel dettaglio le due componenti della liberaldemocrazia, ovvero il sistema entro il quale i musulmani si ritrovano a vivere in Occidente.

Il liberalismo nasce da un’interpretazione molto semplice del concetto di libertà (non certo l’unico presentato né il solo presentabile) che propone di lasciar spazio al singolo individuo nel tentativo di renderlo più libero possibile attraverso l’assenza di restrizioni; lo Stato e qualsivoglia forza esterna, in una simile ottica, sono ridotti ad intervenire il meno possibile sull’individuo al fine di garantirgli la massima libertà, fintanto che è rispettata la libertà altrui. Ciononostante, una simile proposta di libertà non viene affatto ottemperata nella sua applicazione pratica: uno dei punti cardine del liberalismo è, ad esempio, il libero mercato, ove lo Stato deve intervenire solo quando necessario, sia a livello locale che regionale, nazionale e internazionale, e un simile meccanismo porta inevitabilmente all’ascesa del capitalista, ovvero colui che dispone di grandi somme di denaro, il quale si arricchisce esponenzialmente mentre il povero s’impoverisce, riducendosi a servo che necessita dei propri sfruttatori. In certi stati ultraliberali, perfino i servizi di base per la vita degli individui, quali gli ospedali, non sono accessibili agli strati sociali più poveri: questi sono i risultati di un liberalismo sfrenato, nonché le conseguenze di concedere la massima libertà a chi dispone del capitale. Ove vige il liberalismo, dunque, chi non possiede capitali né denaro si ritrova costretto a servire sempre di più coloro che, invece, ne possiedono in abbondanza.

Al giorno d’oggi non esiste al mondo una vera e propria democrazia la quale, nel suo principio, consiste nella presa di decisioni per tramite di votazioni, alzata di mano o elezioni, imponendo il diktat di una maggioranza che non appartiene necessariamente ad una determinata classe sociale o ad uno specifico gruppo di esperti in determinati settori: essa è piuttosto la massa, all’interno della quale le opinioni e il voto del sapiente e quelli dell’ignorante hanno lo stesso valore. All’essere umano, ignorante o sapiente che sia, è dunque chiesto di prender parte a decisioni su questioni cruciali quali il destino dell’umanità (sebbene i musulmani sappiano ch’esso è solo nelle mani di Dio e che, dunque, ci è impossibile cambiarlo), inebriandosi in tal modo dell’idea del potere. La democrazia offre infatti una falsa percezione di potere all’uomo il quale, in tutta la sua ignoranza, si illude, riponendo un foglio dentro un contenitore, di essere potente come Dio. Un simile sistema non fu concepito dai nostri Imam, come dimostra la vicenda del famoso Muhammad ibn Abd Allah ibn al-Hasan ibn Alì ibn Abu Talib, un uomo talmente pio da esser noto anche come al-Nafs al-Zakiyya (anima pia) il quale diede inizio ad una rivoluzione, il cui esito fu però negativo, contro il tiranno abbaside nella città di Medina, attirando a sé non solo gli sciiti ma anche numerosi appartenenti ad altre scuole, tra i quali molti mutaziliti nonché i fondatori stessi del mutazilismo, Wāsil ibn ‘Atā’ e Amir ibn Obay. Questi ultimi si recarono a Medina per domandare all’Imam as-Sadiq di unirsi all’imminente rivoluzione, che avrebbe avuto luogo a Medina sotto la guida di Muhammad contemporaneamente alla rivolta a Kufa fomentata dai suoi due fratelli, Ibrahim e Idris ibn Abdullah (il primo verrà ucciso ed il secondo riuscirà a fuggire in Marocco, dove porrà le basi per l’attuale Stato marocchino; tutt’oggi molti suoi abitanti discendono dalla Ahl ul-Bayt attraverso la catena di Idris). L’Imam Ja’far, tuttavia, rifiutò di prender parte alla sommossa intuendone già allora, tramite la sua sapienza e la sua saggezza, l’esito negativo, proponendo piuttosto di riunire vari ulama ed esperti al fine di formare un consiglio (shura) e decidere il da farsi: si trattava di appellarsi a color che fossero esperti nel campo, saggi e sapienti, non a chi mancasse di esperienza e delle giuste competenze per prendere decisioni di un determinato tipo. La proposta dell’Imam non era la democrazia bensì la shura, forse più vicina, volendo tentare un parallelismo, all’idea di meritocrazia. 

A differenza della religione la quale, sebbene anch’essa si dirami in varie forme e correnti, si basa sui principi della ricerca della verità, intendendola come qualcosa di esistente e raggiungibile, come sulla morale e sull’etica, simili concetti non sono presenti nel sistema democratico, la cui verità e la cui etica sono ridotte semplicemente alla volontà della maggioranza, per la quale non esiste un criterio che ne stabilisca la giustezza. Al giorno d’oggi, specialmente, non è un arduo compito per i mass media, le televisioni e internet rincitrullire un popolo intero, inculcando nella maggioranza idee manipolate e incanalate da qualcuno che, invece, lavora dietro le quinte. Non esistono in un tale sistema, dunque, concetti quali verità, morale ed etica, che sono invece alla base della religione, la quale è incentrata proprio sulla verità e sulla vera giustizia. Qualora vi fosse un uomo contro il resto dell’umanità, insegna la religione, e quell’uomo fosse dalla parte del vero e del bene e il resto dell’umanità dalla parte del falso e del male, ebbene, bisogna sostenere quell’unico uomo: è dunque assente il concetto di democrazia in questo insegnamento come nella religione tutta.

In passato sono esistiti diversi tentativi di governo, anche nell’antico Occidente di stampo cristiano, di far coesistere il papato e l’Impero, dunque il papa e l’imperatore, ove quest’ultimo necessitava della benedizione di Dio o dell’uomo di Dio, cioè del papa o del vescovo di turno, i quali conferivano una sorta di grazia che stabiliva un certo collegamento col cielo sebbene, nell’atto pratico, nella maggior parte dei casi si è tenuto diviso il regno terreno dal Regno dei Cieli, dando a Dio quel che è di Dio e a Cesare quel che è di Cesare. Il Regno di Dio era quindi inteso come qualcosa di distante, mentre il regno terreno diveniva qualcosa di pertinenza dell’intelletto soltanto, il quale rappresentava il limite di quanto un re potesse riuscire a fare, indipendentemente dal numero di benedizioni e preghiere ricevute dal vescovo o dal papa. Un simile concetto non appartiene all’Islam, secondo cui il Regno dei Cieli partecipa pienamente alla vita sociale, poiché i cieli includono la terra senza esserne distinti. I cieli non sono una meta futura distinta dall’esistenza terrena, bensì si trovano qui e adesso: Allah è più vicino a noi della vena giugulare, recita il Corano, dovunque ci si volga è il Suo volto, Egli è presente e agisce e interagisce col creato: questa è una salda concezione nell’Islam. Ciò crea dei problemi a quel musulmano che si ritrova a vivere in un contesto non-islamico poiché egli, ricco di questa coscienza e conoscenza, è costretto a parlare un linguaggio a lui estraneo, riscontrando non poche difficoltà nel discutere e nel relazionarsi con un ambiente completamente nuovo. Può esser preso come esempio il tema dell’aborto: pur non condividendo la linea generale adottata dai paesi occidentali al riguardo, non ci è impedita la discussione, per quanto si tratti di una discussione sempre e solo orizzontale dove Dio è del tutto assente. Si parla dunque del rispetto della vita del neonato o della scelta della donna, senza mai far cenno ad una vita che dipende da Dio e sull’origine di quest’ultima, a causa dell’incapacità della discussione in Occidente di far riferimento a qualcosa che vada oltre la mera materialità: si rinuncia quindi a nominare da chi dipenda la vita del neonato e le conseguenze che il gesto dell’aborto avranno qui ed ora giacché, come detto, il Regno dei Cieli è già tra noi, omettendo da qualsivoglia discorso pubblico ogni discussione teologica e sull’Islam, argomenti, questi, relegati alla sola sfera privata. Il meccanismo è simile a quello vigente nelle logge massoniche: al loro interno sono ammessi cristiani, musulmani, ebrei o atei, purché non si parli di religione né di politica, né tantomeno si affermi l’idea assoluta di Dio, mentre è ammessa la definizione di un dio normativo e soggettivo, giacché l’assoluto è nelle mani del “Grande Architetto”.

È in atto un vero e proprio attacco alla religione e il musulmano riscontra grandi difficoltà nel vivere in una società senza Dio che non permette di parlare in termini religiosi, come un italiano che si trovi in Cina e non comprenda il linguaggio locale. Si può, certo, discutere apertamente della fornicazione, dei danni dell’adulterio, dell’usura, della bestemmia sul piano morale, ma questa moralità è cangiante e si adatta ad ogni società, variando ogni cinque o dieci anni. Omettendo Dio da ogni discussione, l’uomo tende a crearsi le proprie regole senza avvedersi ch’egli non conosce sé stesso. In un simile contesto senza Dio, il dovere del musulmano che si trova in minoranza, il quale sente e vede il Signore, ci vive insieme e lo nomina prima di compiere qualsiasi azione, consiste nel porre sempre Dio al primo posto, menzionandoLo in ogni occasione, portandoLo in ogni discussione di etica, bioetica, giustizia sociale, nonché ribadendo la propria visione teocentrica dell’esistenza: questo è un grandissimo jihad e un’importante testimonianza (shahada) dell’esistenza di Dio e del Suo messaggero. Credere, ad esempio, in una giustizia sociale che sia subordinata alla giustizia divina e serbare questa credenza dentro di sé non rende il musulmano diverso dal liberale, dal democratico, dal comunista o dal fascista: egli deve sempre menzionare il nome di Dio ed il Corano, iniziare ogni sua azione col bismillah e credere in una giustizia divina che si differenzi dalla presunta giustizia dell’uomo senza Dio, le cui drastiche conseguenze sono sotto gli occhi di tutti.

D’altro canto, tentando di adottare il punto di vista esterno alla minoranza in questione, ci si potrebbe domandare a chi vada la fedeltà di questa comunità di musulmani in Occidente, per quanto possano perfino esservi nati e cresciuti. La questione della fedeltà è, in effetti, cruciale anche al livello religioso, dottrinale e teologico, giacché la wilaya è alla base di tutto, come cita il Corano al ventottesimo versetto della Sura Al-‘Imrān: I credenti non si alleino (sebbene alleanza non sia la traduzione più corretta del termine awilyā’a) coi miscredenti, preferendoli ai fedeli, giacché la wilaya deve intercorrere unicamente tra i credenti. Si potrebbe allora sospettare che il musulmano giuri la propria fedeltà unicamente a Dio e non alla costituzione o alla nazione, il che potrebbe rappresentare un problema per una certa categoria di persone. Coloro che prendono i miscredenti come alleati all’infuori dei credenti cercano l’eccelsitudine? Ma l’eccelsitudine appartiene interamente a Dio, come tutto il resto. Nell’Islam è quindi assente la prospettiva di dare a Dio quel che è di Dio e a Cesare quel che è di Cesare, giacché tutto appartiene a Dio e perfino Cesare è una sua creatura, e se questi si è arricchito è solo per Sua volontà: non è stato forse Iddio a donare a Cesare l’aria che ha respirato, il cibo che ha mangiato, la forza della quale si è servito? Ed è stato Cesare a creare sé stesso o ciò avvenuto per un volere superiore? Riguardo al dubbio sulla fedeltà del musulmano, il Corano conferma che la wilaya debba essere data interamente e solamente a Dio e ai Suoi diretti subordinati, ovvero i profeti e gli Imam, ma, allo stesso tempo, afferma nel verso otto della Sura Al-Mumtahana: Allah non vi proibisce di essere buoni e giusti nei confronti di coloro che non vi hanno combattuto per la vostra religione e che non vi hanno scacciato dalle vostre case, poiché Allah ama coloro che si comportano con equità. Da ciò si deduce che il fatto che la wilaya del musulmano sia rivolta unicamente a Dio non gli impedisce di fare del bene verso il prossimo: la wilaya appartiene a Dio, il birr (bene) a tutti gli altri. Continua il versetto successivo: Allah vi proibisce soltanto di essere alleati di coloro che vi hanno combattuto per la vostra religione, che vi hanno scacciato dalle vostre case o che hanno contribuito alla vostra espulsione. Coloro che li prendono per alleati, sono essi gli ingiusti, e Dio ama gli equi ma non gli ingiusti. Il bir è quindi rivolto all’umanità intera, poiché il Corano stesso impone al credente di intrattenere buoni rapporti col prossimo laddove egli viva, poiché questi, pur trovando invisi i valori della liberaldemocrazia, si riconosce nei valori del Corano il quale gli ordina di essere giusto con tutti coloro che gli sono vicini, escludendo da ciò solo due tipi di persone: chi lo ha combattuto a causa della sua religione, giacché l’Islam insegna al musulmano a rispondere alla guerra e non a porgere l’altra guancia, e chi lo ha scacciato dalla propria casa, il quale deve tutt’al più essere respinto con decisione. Esistono inoltre diversi tipi di wilaya: infrangerne un determinato tipo può perfino sfociare nella miscredenza (kufr), mentre infrangerne un altro può semplicemente equivalere ad una trasgressione. Ad ogni modo, essa deve essere assoluta per Dio e, al di là di essa, è raccomandato di fare il bene nella società in cui si vive. Perfino verso dei genitori miscredenti e ostili all’Islam, il Corano impone di render loro grazia. In conclusione, è importante ribadire ancora una volta come la wilaya vada rivolta solo a Dio e il bir al resto dell’umanità.

Ci si potrebbe a questo punto domandare se e quanto i musulmani siano in grado di contribuire positivamente alla società in cui vivono poiché, da un lato, il sistema non permette loro di esercitare una influenza positiva sulla società europea e occidentale e, dall’altro, molti musulmani, sradicati dalle proprie tradizioni spirituali e trapiantati in un paese non-islamico ove costituiscono una minoranza, hanno perduto le proprie basi e la connessione originaria con la religione. L’Islam, a questo proposito, indica col termine da’wa la chiamata del musulmano al non-musulmano e l’invito alla religione e alla purezza, ovvero alla cosiddetta vita pura in senso spirituale e coranico. Una simile azione testimonia inoltre la relazione intima che dovrebbe intercorrere tra il musulmano e il non-musulmano, dunque tra due esseri umani con religioni e bagagli culturali differenti giacché, al momento dell’invito alla salvezza, alla beatitudine eterna, alla verità, alla purezza della vita, il musulmano riconosce nell’interlocutore non qualcuno che gli è inferiore, bensì un uomo dotato del potenziale necessario per ottenere la salvezza e, quindi, degno di attenzione da parte del credente. Nell’invito all’Islam da parte del musulmano v’è amore e intimità, poiché questi riconosce nel non-musulmano qualcuno perfino migliore di sé stesso; se, invece, si ritenesse il non-musulmano immeritevole della salvezza, non vi sarebbe alcun motivo d’invitarlo all’Islam. La da’wa, quindi, altro non è che il riconoscimento del potenziale intrinseco dell’uomo e della sua naturale tensione al vero: essa è un messaggio universale per tutti gli uomini. Nel Corano, Allah esorta in tal modo il Suo messaggero: chiama al sentiero del Tuo Signore (compiendo la da’wa, che è un atto profetico) con saggezza, dando buoni consigli (non, dunque, per raggiungere delle conquiste personali, ma per consigliare il prossimo il quale, potenzialmente, potrebbe essere migliore di noi) e discuti con loro nel modo migliore. È certamente un dovere del musulmano invitare all’Islam attraverso il proprio comportamento, ma il Corano incita inoltre a fare uso del dialogo e della parola di cui Allah gli ha donato facoltà. Usualmente, negli hadith il dibattito (jidal), inteso come dialogo frivolo o polemico, è riportato in termini negativi e scoraggiato, se non addirittura proibito, mentre la discussione volta a condurre alla verità è elogiata e raccomandata, come testimonia il centoventicinquesimo versetto della Sura Al-Nahl: Chiama al sentiero del tuo Signore con la saggezza e la buona parola e discuti con loro nella maniera migliore (16:125), e un altro versetto recita: dì: questo è il mio sentiero, invitate con cognizione di causa (12:108), ovvero, come già detto, con saggezza e coscienza, purezza e sincerità, io e coloro che mi seguono, dunque la da’wa non è riservata ai soli profeti, ma anche a coloro che li seguono: l’invito all’Islam è quindi parte della prassi del credente e deve avvenire tramite un linguaggio che sia comprensibile alle masse e, al contempo, consono alla Rivelazione, dunque veritiero ma di facile comprensione, purché non si perda o si snaturi il messaggio originale.

In linea generale, una società liberaldemocratica tollera la da’wa e il suo invito alla verità e alla religione purché non promuova un sistema migliore del suo: alle persone è quindi permesso di organizzarsi ed invitare le genti all’Islam e al vero, qualora la verità professata non entri in contrasto con la “verità” liberaldemocratica, già in precedenza identificata col volere della maggioranza. Ogniqualvolta la da’wa fuoriuscisse invece dagli schemi liberaldemocratici, essa non verrebbe più tollerata ma, al contrario, sarebbe ostacolata e combattuta, com’è anche accaduto in tante società pseudo-islamiche. La risposta generale ad una da’wa autentica, efficiente e profonda è quindi la repressione, dapprima tramite mezzi e procedure legali, vietando, ad esempio, manifestazioni e sit-in che sarebbero invece bene accetti nel caso di una da’wa innocua. Riflettendo però sul termine legale, ci si accorge facilmente di come, mentre in un sistema islamico è la verità a dettare la legalità, in un sistema liberaldemocratico è invece, quantomeno in teoria, la volontà delle masse, mentre, in pratica, è la volontà di chi lavora dietro le quinte manipolando i popoli tramite una pesante propaganda massmediatica, la quale si serve degli odierni sistemi multimediali per plasmare il volere delle persone. A reggere la liberaldemocrazia è quindi il sincero volere delle masse o la volontà di pochi pronunciata inconsciamente dalla bocca di molti? È un chiaro esempio di questo diabolico meccanismo di propaganda la concezione negativa diffusa in Occidente dell’Islam, di cui le masse sono vittime. Oltre ai mezzi legali, ad ogni modo, la repressione avviene anche in forma violenta per tramite di frange estreme considerate ufficialmente illegali, la cui malleabilità fa però comodo a chi detiene il potere: esse sono emarginate in quanto minoranza eppure, attraverso la propaganda massmediatica già citata, divengono strumenti che il potere indirizza contro chi desidera reprimere come, nel caso in esame, il movimento della da’wa, colpevole di invitare al bene e alle buone consuetudini. Recita il centoquattresimo versetto della Sura Al-Imrān: Sorga tra voi una comunità che inviti al bene, raccomandi le buone consuetudini e proibisca ciò che è riprovevole. Il principio della da’wa è dunque quello di ingiungere al bene e interdire il male: senza di esso, al musulmano non resta alcuna ragione per permanere laddove è, e gli è chiesto di compiere una hijra verso un luogo dove possa invitare al bene e proibire il male o, se non potrà spostarsi a causa di una ragione legittima (motivi economici, ad esempio), diverrà un mustad’af, ovvero un credente che non dispone dei mezzi necessari a vivere nel modo comandato da Allah; ad ogni modo, neanche al mustad’af è permesso darsi per sconfitto, e dovrà continuare ad invocare Dio affinché lo liberi dalla situazione in cui è e il bene venga praticato a tutti gli effetti, ed anche in ciò ci sono dei segreti sottili e spirituali da non sottovalutare udibili a chi abbia orecchie per udire e intelletto per intendere.

 

* Trascrizione di una lezione tenuta da Shaykh Abbas Di Palma presso il Centro Islamico Imam Mahdi di Roma

 

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Writer : shervin | 0 Comments | Category : Il pensiero islamico

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