Al-Hijra: il concetto di migrazione nell’Islam (prima parte)*
La Hijra, ovvero la Migrazione del Profeta e dei musulmani da Mecca a Medina, fu un evento epocale nella storia dell’umanità, e in particolare per i musulmani. Il termine hijra deriva dalla radice dei verbi hajara-yahjuru, il cui significato etimologico riporta al concetto di “rompere un legame, abbandonare, metter da parte”, ed è spesso utilizzato dal nobile Corano in vari contesti per descrivere diverse situazioni. Per esempio il trentaquattresimo versetto della Sura an-Nisā’ consiglia agli uomini, qualora sorgessero dei problemi particolari con le proprie consorti, di lasciarle da parte (wahjūruhunna), e dunque spezzare il legame consuetudinario che v’è tra loro e volgersi altrove;. Il decimo versetto della Sura al-Muzzammil recita: sopporta con pazienza quello che dicono e allontanati dignitosamente (hajran jamēlā) e ancora nella Sura al-Muddaththir, al versetto cinque, è detto: allontanati dall’abiezione. Il termine hijra descrive, quindi, un movimento di una o più persone da un luogo a un altro, ed è giustamente tradotto in italiano con la parola migrazione. Essa è un concetto presente nel Corano anche in riferimento alla vita dei profeti che hanno preceduto Muhammad: il profeta Abramo si allontanò dal contesto in cui viveva pronunciando le parole: Invero adesso mi sto dirigendo verso il mio Signore, che mi guiderà, descrivendo così il suo trasferimento da Babilonia alla Siria e in Palestina. In modo analogo il profeta Lot disse: Adesso sono un emigrante (mūhajir) verso il mio Signore, e il Corano stesso cita il momento in cui Mosè, reo d’aver ucciso un egiziano, dovette lasciare l’Egitto ed emigrare.
Un altro esempio di hijra può essere identificato nella vicenda dei Compagni della Caverna i quali, rinunciando alla società corrotta e idolatra in cui vivevano, si ritirarono nella caverna. Inoltre, la stessa vita dell’ultimo profeta è costellata di migrazioni di musulmani, sia dalla Mecca a Medina che, ancor prima, verso altre mete quali l’Abissina. Ivi regnava il Negus, un sovrano cristiano il quale concesse la propria ospitalità ai musulmani perseguitati a Mecca. La società araba del tempo era organizzata secondo un rapporto di servizio reciproco tra i vari clan familiari: molte tribù di ceto medio godevano infatti della protezione dei ceti superiori, mentre i membri delle classi più basse erano indifesi e, quando si convertirono all’Islam, furono costretti a migrare per aver salva la vita. Da ciò è possibile dedurre molteplici insegnamenti: anzitutto, al credente è concesso emigrare dalla propria terra per sfuggire a persecuzioni, ingiustizie e sofferenze dovute alla propria religione, verso un luogo che gli consenta di praticare liberamente il proprio culto; inoltre, né l’indigenza né l’essere indifesi nella propria società rappresentano delle valide giustificazioni che esonerino il credente dalla migrazione, qualora questa sia possibile, verso un luogo che possa ospitarlo; infine, non v’è nulla che sia più grande di Dio, né la patria né la nazione, ed è dovere del credente muoversi verso di Lui sia in senso materiale che spirituale, specialmente quando gli sia impedito di praticare la propria fede.
I musulmani migrati in Abissinia fecero ritorno alla Mecca quando il celebre Hamza ibn ‘Abdul-Muttalib, uno degli zii del Profeta, si convertì all’Islam. Costui era infatti una persona nobile e nota nella società meccana, il cui prestigio permise ai musulmani di godere per qualche tempo della sua protezione. I Quraysh, tuttavia, reagirono imponendo un severo boicottaggio sui credenti, i quali attraversarono un periodo estremamente difficile patendo la fame e affrontando la morte di personalità quali Abu Talib e Khadija. Fu per sfuggire a simili condizioni che un gruppo di musulmani, ottantadue uomini e diciotto donne secondo quanto ci è stato tramandato, raggiunse per la seconda volta l’Abissinia. Questi nuovi viaggiatori non provenivano più dalle sole classi più indigenti, giacché il boicottaggio dei Quraysh era rivolto ai musulmani indipendentemente dal ceto di appartenenza: né è una prova ‘Uthmān ibn ‘Affān, uno dei migranti, il quale apparteneva al clan dei Banū ‘Abd Shams. A guidare la spedizione venne posto Ja’far ibn Abu Talib, che in seguito guadagnò il nome di at-Tayyār, ovvero colui che prende il volo, quando, cadendo martire nell’impetuosa battaglia di Mu’ta, i presenti lo videro levarsi in volo verso il cielo (alcune narrazioni lo descrivono come munito di due ali da angelo). Ad ogni modo, quando i politeisti di Mecca appresero che alcuni musulmani avevano nuovamente trovato rifugio alla corte del Negus, inviarono molti doni al sovrano allertandolo sui suoi ospiti ed esortandolo a negar loro la sua protezione. Il Negus, tuttavia, dopo numerose discussioni circa il significato dell’Islam, gli obiettivi dei musulmani e le differenze tra questa religione e il cristianesimo e, soprattutto, l’ascolto della recitazione da parte di Ja’far della Sura del sacro Corano dedicata a Maria, allontanò i politeisti i quali ponevano l’enfasi sull’inaffidabilità dei musulmani e sulla loro incompatibilità con la società etiope, confermando per loro la sua protezione. Questa vicenda conferma che, secondo l’Islam, il musulmano ha diritto a respingere le difficoltà insostenibili e cercare rifugio laddove vi sia sicurezza, indipendentemente dalle pericolosità del viaggio e dall’incertezza della meta: ciò è, dopotutto, una deduzione spontanea che non necessita di regole scritte o orali. Inoltre, è desumibile che al musulmano sia lecito chiedere rifugio e protezione perfino ad un non-musulmano, giacché il Negus, come detto, era cristiano. Non va dimenticato, comunque, che questa seconda migrazione fu efficace soprattutto per merito dell’intervento di Ja’far e della sua conoscenza del Corano.
Col termine Hijra, ad ogni modo, si fa comunemente riferimento alla migrazione dei musulmani dalle periferie e dai sobborghi di Mecca, ove erano stati costretti per tre anni, a Medina, che dà inizio all’era dell’Islam (intendendo l’era dell’ultima rivelazione, giacché l’Islam ebbe genesi con Adamo). Alla sua origine vi furono l’interesse e la curiosità crescente della gente di Medina per la nobile personalità del Profeta, al cospetto del quale, dopo che singoli individui ebbero avuto modo d’incontrarlo per chiedere delucidazioni e informazioni sulla nuova religione, si recò in segreto una prima delegazione di dodici medinesi sul monte Aqaba, i quali giurarono fedeltà al Profeta stringendo quello che passò alla storia come il primo patto di Aqaba: in tal modo, i dodici medinesi si impegnarono a seguire l’etica del Profeta e ad astenersi da ciò che Allah aveva reso illecito come la menzogna, l’adulterio, il furto, l’uccisione ingiustificata. Un secondo patto fu stipulato, sempre sul monte Aqaba, da altre settantacinque persone, il cui esempio seguì poi l’intero popolo di Medina, il quale invitò il Profeta e i suoi seguaci in città, dando in tal modo inizio alla Hijra. I musulmani iniziarono dunque a migrare verso Medina ma, quando i politeisti appresero di ciò, congiurarono per uccidere il Profeta: questi, con l’aiuto dei fedeli, riuscì a defilarsi in segreto dalla Mecca tramite lo stratagemma di lasciar indietro il cugino Alì ibn Abu Talib, il quale dormì sul giaciglio del Profeta per ingannare i congiuranti e raggiungere i musulmani in un secondo momento.
La Hijra ebbe termine con l’ingresso del Profeta a Medina, il cui nome era allora Yathrib e che, da quel momento, fu ribattezzata Città del Profeta (Madīnat al-Nabī). Una tale migrazione racchiude un importante significato religioso, tanto da esser considerata una vera e propria prova di fede: da allora, coloro che parteciparono alla Hijra vennero considerati dotati di un determinato grado di fede mentre a chi, invece, tardò o si trattenne del tutto dal viaggio, ne fu attribuito un diverso grado. Ciò è detto nel Corano stesso che, in riferimento ai miscredenti, recita all’ottantanovesimo versetto della Sura An-Nisā’: Non sceglietevi amici tra loro, finché non emigrano per la causa di Allah.
L’Hijra conservò un profondo significato, quantomeno sotto l’aspetto spirituale, perfino tra le generazioni successive al Profeta. Esistono infatti due tipi di hijra, l’una prettamente fisica e l’altra di tipo spirituale: quest’ultima, sempre valida indipendentemente dal fatto che vi sia anche uno spostamento fisico o meno, deve necessariamente essere compresa nella migrazione materiale. Essa è la migrazione, per esempio, dalla miscredenza alla fede, ovvero il viaggio che compie il kāfir, abbandonando la miscredenza e l’ipocrisia verso la nobile religione dell’Islam; può anche trattarsi della migrazione compiuta da chi abbandona il peccato sul sentiero della rettitudine, o il lento passaggio dall’aridità del cuore ad una vita pienamente spirituale.
Certamente, la hijra fisica non può non includere al suo interno tutte le componenti spirituali citate, giacché colui che migra da un luogo ad un altro per Dio l’Altissimo deve coltivare, volente o nolente, qualità irrinunciabili. La pazienza, anzitutto, senza la quale la suddetta migrazione non si verificherebbe, come conferma il Corano: Poi il tuo Signore sarà con coloro che emigrano e, dopo che sono messi alla prova, si sforzano nuovamente e pazienteranno (16:110). Poi la speranza, poiché nella migrazione occorre sperare non nel guadagno e negli ottenimenti personali, bensì in Dio; recita, a tal proposito, il versetto duecentodiciotto della Sura Al-Baqara: In verità, coloro che hanno creduto, sono emigrati e hanno combattuto sulla via di Allah, questi sperano nella misericordia di Allah. Allah è perdonatore, misericordioso. La wilaya, il sentimento di intima relazione tra Dio e le sue creature e tra le creature stesse, che è la qualità più importante del migrante; è detto nel settantaduesimo versetto della Sura Al-‘Anfāl: In verità coloro che hanno creduto e sono emigrati, e hanno lottato con i loro beni e le loro vite per la causa di Allah e quelli che hanno dato loro asilo e soccorso sono alleati gli uni degli altri, in riferimento a quella stessa intimità che unì tra loro i migranti e legò questi ultimi al popolo di Medina, formando un’unica comunità, e procede: Non potrete allearvi con quelli che hanno creduto, ma che non sono emigrati, fino a che non emigrino, giacché chi ha rifiutato o rimandato la migrazione non godrà di quel sentimento di intimità coi propri compagni fino a che non l’attuerà.
È bene ribadire come la hijra fisica e quella spirituale debbano camminare di pari passo e che, inoltre, la migrazione non deve necessariamente avvenire da un Paese all’altro, ma anche da un ambiente dove vige il peccato all’altro. Per questa ragione è annoverato tra i peccati maggiori il ritorno allo stato beduino e all’ignoranza (Jāhiliyyah) dopo aver compiuto la hijra: il migrante è partito senza avere Dio ed è arrivato trovandoLo, e non gli è permesso di voltarsi indietro e abbandonarLo. Il viaggio non è solo uno spostamento geografico ma, soprattutto, un allontanamento trascendente alla materia che spinge il credente ad allontanarsi dal male avvicinandosi al bene, abbandonando la falsità per abbracciare la verità: questo spostamento si manifesta, certamente, anche in modo fisico e in base alle circostanze, da paese a paese, da ambiente ad ambiente, da casa a casa, da comunità a comunità.
La società musulmana che si formò a Medina ebbe due cardini nei migranti, i Muhājirūn, e nei medinesi, gli Ansar, ovvero gli Ausiliari, sebbene in città fossero presenti anche diverse tribù di ebrei e alcuni cristiani; la maggior parte dei cittadini, comunque, abbracciò l’Islam e riconobbe l’ultimo profeta come tale. Ma il termine hijra, come già accennato, non fa riferimento unicamente alla migrazione da Mecca a Medina del Profeta e dei suoi compagni, a differenza di quanto credono certuni, giacché i musulmani sono sempre stati in movimento e, ancor di più, la storia dell’intera umanità è una storia di spostamenti da un luogo a un altro: l’uomo è, per sua natura, un viaggiatore non solo in senso spirituale ma anche fisico. È bene ragionare, dunque, sulle migrazioni (possibili o già verificatesi) di uno o più credenti che si spostano da una terra non-musulmana ad una musulmana. Un simile spostamento deve certamente esser frutto di una decisione importante, poiché non va sottovalutato il peso di lasciare la propria terra, i conoscenti, i luoghi noti e la famiglia, quest’ultima particolarmente importante nell’Islam; il migrante che vuole o deve compiere il viaggio deve quindi considerare quale scelta sia la migliore per sé e per la propria famiglia, nonché ponderare e meditare sulle conseguenze della propria decisione.
Nel corso della storia dell’Islam, molte opinioni sono state date dai vari esponenti della giurisprudenza e del pensiero islamico sull’argomento della migrazione. Poiché risulterebbe impossibile citare ognuna di esse, prenderemo in esame i pareri dei fondatori delle quattro scuole di pensiero più famose in seno al mondo islamico sunnita (Malikita, Hanafita, Shafi’ita e Hanbalita), quindi le valutazioni di alcuni dotti sciiti. Va inoltre sottolineato come gli stessi esponenti della medesima scuola di pensiero, come nel caso della scuola Malikita, abbiano sviluppato opinioni differenti sull’argomento e, inoltre, come di alcuni fondatori non ci sia pervenuto alcun parere specifico: è il caso di Abu Hanīfa, fondatore della scuola Hanafita, di cui disponiamo delle opinioni dei sapienti che vi aderirono ma non dei pareri diretti del fondatore. Uno sguardo alla sua vita, ad ogni modo, può essere utile per trarre alcune conclusioni.
Abu Hanīfa al-Nu’mān ibn Thābit dovette in prima persona spostarsi da un luogo ad un altro per motivi politici. Egli, cittadino di Kufa e giurista che emetteva fatwe (verdetti giuridici) per coloro che lo seguivano, adottò posizioni politiche anti-omayyadi e, per questa ragione, la propria città divenne per lui un luogo pericoloso, in quanto la sua attività di giurista rappresentava una minaccia per il governo. Per alcuni anni si trasferì a Mecca e, soprattutto, a Medina, dove conobbe due Imam, al-Baqir e as-Sadiq, beneficiando soprattutto degli insegnamenti di quest’ultimo. Tornerà a Kufa dopo il declino omayyade e l’ascesa abbasside, dove adottò nuovamente posizioni antigovernative e, per questo, si vedrà interdetto l’espatrio e sarà arrestato e torturato in prigione, perdendo la vita in sgradevoli circostanze. La diffusione della scuola Hanafita è infatti dovuta soprattutto a due studenti del fondatore, Muhammad al-Shaybānī e, in particolare, Abu Yūsuf, il quale sceglierà, al fine di far sopravvivere la scuola del suo maestro, di scendere a compromessi col governo di Baghdad divenendo ufficialmente uno dei giudici presso la corte abbaside. Dunque, sebbene non esistano fatawa particolari sull’argomento, Abu Hanīfa dovette migrare egli stesso, abbandonando un tessuto sociale e politico ostile per motivi di sopravvivenza.
Le opinioni di Mālik ibn Anas, fondatore della scuola Malikita e autore del libro al-Muwattā’, ci sono note grazie ad uno dei suoi studenti, Sahnūn, il quale raccolse tutte le opinioni del suo maestro, dei suoi studenti e dei sapienti malikiti in generale. Tra costoro, una personalità di spicco è certamente quella di Asad ibn al-Furat, un celebre generale che sbarcò perfino in Sicilia ove ebbe un ruolo fondamentale nel tessuto isolano. Questi fu un generale ma anche un muftì e un sapiente, che dovette abbandonare la Tunisia alla volta della Sicilia a causa delle sue critiche contro il governatore Ziyad Atullah, accusato di dedicarsi ad una vita lussuriosa in contrasto con gli insegnamenti del Profeta. Ebbene, Sahnūn cita che, quando fu domandato all’imam Mālik se fosse possibile migrare in terre non islamiche o in terre di conflitto per motivi commerciali, la sua opinione si rivelò forse la più rigida tra quelle espresse dagli altri fondatori delle scuole maggioritarie: egli negò la possibilità di raggiungere una terra ove non fosse applicata la legge islamica e vigesse, al suo posto, la legge dei politeisti o dei miscredenti. Il sapiente malikita al-Qurtubi, proveniente da Cordova nel momento in cui la penisola iberica e la Sicilia erano prevalentemente malikite, conferma il divieto dell’imam Malīk di vivere laddove la pratica e la prassi delle genti contraddica la verità, rivelandosi contrario a qualsiasi spostamento dal Dār al-Islam (terra dell’Islam) al Dār al-Harb (zona di guerra). Alcuni sapienti malikiti successivi, ad ogni modo, proporranno posizioni meno rigide.
Muhammad ibn Idrīs al-Shāfī’ī, fondatore della scuola Shafiita, adottò posizioni più moderate dell’imam Malīk, affermando che la hijra, intesa come spostamento da un luogo a un altro appartenente al Dār al-Islam qualora divenisse impossibile praticare la propria fede, fosse qualcosa di obbligatorio; d’altro canto, se la pratica della fede fosse permessa, nulla vieterebbe al credente di rimanere in terra non-musulmana. Si potrebbe citare, a questo proposito, l’esempio dello zio del Profeta, Abbas, il quale, pur convertitosi, non partecipò alla migrazione dei musulmani verso Medina rimanendo alla Mecca, sebbene il motivo di tale scelta non ci sia noto. È probabile che al-Shāfī’ī riprenda questa vicenda per trarre le proprie conclusioni, stabilendo come discriminante per la legittimità o meno della permanenza in un luogo la possibilità di praticare la propria fede.
Di Ahmad ibn Hanbal, fondatore della scuola Hanbalita, non ci è giunta alcuna opinione diretta sulla questione della migrazione, ciononostante il suo pensiero è deducibile dalla risposta che diede quando gli fu domandato da un uomo se gli fosse permesso trasferirsi al confine tra Dār al-Islam e Dār al-Harb, ovvero in una zona pericolosa: l’imam Hanbal sconsigliò un simile trasferimento, in quanto la sua famiglia e la sua progenie avrebbero risentito dell’influenza diretta o indiretta dei non-musulmani. Da questa risposta è deducibile che, s’egli sconsigliava di vivere presso il confine con le terre dei miscredenti, quantomeno sconsigliasse si spostarsi in una terra non islamica.
Oltre le opinioni citate dei quattro fondatori delle principali scuole sunnite, esistono numerosi altri pareri esposti dai sapienti successivi. Anche per quanto concerne i sapienti appartenenti al mondo sciita, sebbene risulterebbe impossibile analizzare ogni aspetto della questione, sarà sufficiente offrire un’idea generale su cui riflettere e dalla quale si possa trarre beneficio. Le opinioni dei marja’a cui in genere gli sciiti fanno oggi riferimento si dividono in due punti di vista principali, il primo dei quali sottovaluta la hijra descrivendola come un fenomeno storico circoscritto al tempo del Profeta, negandone ogni necessaria sacralizzazione; secondo questa interpretazione, quando il Corano cita coloro che si sforzano ed emigrano, ordinando loro di abbandonare i politeisti, il riferimento è limitato nello spazio e nel tempo di quei musulmani che abbandonarono la Mecca. Altri sapienti, invece, tendono ad universalizzare il concetto di hijra, non riducendo la migrazione ai soli compagni del Profeta che si recarono a Medina, bensì ampliandola a chiunque viva in un contesto che gli renda impossibile praticare la propria fede e la propria religione: è dunque suo dovere migrare verso una terra che possa permettergli di vivere la propria fede liberamente. La divergenza di opinioni citata, comunque, è prettamente teorica, giacché ogni marja’ è concorde nell’affermare che, qualora una persona non possa praticare la sua fede, debba migrare, sia che si chiami questo spostamento hijra in riferimento al Corano e agli hadith o meno: all’atto pratico, lo spostamento verso una terra che garantisca la libertà di professare la propria religione è certamente incoraggiato, qualora ve ne siano le possibilità. In generale, i sapienti sciiti, a proposito della migrazione, pongono l’accento sul tipo di religiosità che una persona può sperimentare nel proprio contesto. Dopo la dipartita terrena del Profeta, l’autorità ricadde sugli Imam dell’Ahl al-Bayt e ad essi o ai loro rappresentanti fu richiesto di far riferimento: se un credente non può praticare la sua fede gli è chiesto di spostarsi, non necessariamente in un luogo ove sia fisicamente presente l’Imam o un suo rappresentante, fintanto che avrà accesso alla loro conoscenza; qualora quest’ultima dovesse essere ostruita, per il credente diventa obbligatorio spostarsi. Al giorno d’oggi, la suddetta conoscenza è fornita dai fuqaha (esperti), ovvero coloro che hanno accesso alle fonti primarie e sanno leggere e comprendere le ingiunzioni e gli insegnamenti religiosi. Ma migrare verso i fuqaha non significa spostarsi fisicamente alla presenza di uno di essi, giacché è sufficiente l’accesso alle loro conoscenze fondamentali al fine di preservare la propria fede (a meno che il credente non desideri approfondire e accrescere simili conoscenze).
Uno dei sapienti più celebri in seno all’Islam sciita, al-Allāma al-Hilli, nell’opera al-Muntaha, distingue tre tipi di migrazione: una obbligatoria, una meritoria ed una permessa. Se un credente non può praticare e preservare la propria fede, è per lui obbligatorio spostarsi da un luogo ad un altro che possa accoglierlo; qualora al credente sia permessa la libertà di culto solamente nei suoi aspetti necessari, il viaggio verso una terra ove possa sperimentare la religione in modo completo è consigliato e meritorio; infine, al seguito delle dovute riflessioni e consultazioni, la migrazione è permessa al credente, ad esempio, per motivi economici, sebbene rappresenti un rischio abbandonare una terra che permette la pratica della fede verso una in cui tale permesso è incerto. È narrata nel Wasa’il al-Shia da un certo Ahmad Sindi la risposta che diede l’Imam Sadiq quando gli fu domandata la sua opinione su coloro che, trovandosi in un luogo in cui l’Islam fosse praticamente inesistente, vi restassero al fine di ingiungere il bene ed invitare le genti alla bontà e alla religione: rispose l’Imam che, in quel caso, la morte di quella persona sarebbe stata pari alla morte di una comunità intera e costui, in quanto rappresentante della comunità islamica in un paese non islamico, rinunciando alla migrazione pur di portar testimonianza della parola di Dio, riceverà le ricompense di un’intera comunità. Una simile opinione è espressa dal sapiente shafiita al-Mawar, vissuto nel V secolo, il quale affermò che fosse meglio, per un credente, rimanere in una terra non-islamica per farsi testimone di Dio e diffondere la buona parola giacché, così facendo, avrebbe reso quella terra un’area islamica e, dunque, nel caso di un suo ritiro, quella stessa terra sarebbe tornata ad essere un luogo di corruzione e miscredenza.
Sebbene l’Europa e, più in generale, l’Occidente non siano certo da considerarsi terre musulmane, ci si accorge dell’esistenza di alcune zone al loro interno in cui è presente una densità relativamente alta di popolazione musulmana, soprattutto nelle città più grandi, composta sia da chi vi è migrato sia da chi vi è nato. Alla domanda se queste zone possano essere considerate Dār al-Islam, gli ulama hanno fornito risposte variegate. Una di esse afferma che una terra è parte del Dār al-Islam fintantoché vi siano delle moschee e sia udito l’adhān cinque volte al giorno perché, in tal modo, i musulmani possono interagire nella maniera che Allah ha indicato; inoltre, è interessante notare come, mentre la definizione dei libri di storia di Dār al-Islam, di origine medievale e non presente né nel Corano che negli hadith, assuma un significato prettamente politico, facendo riferimento al territorio imperiale, l’opinione citata pone invece l’accento sull’ambito sociale esistente nelle contrade e nei sobborghi occidentali, considerati come tanti piccoli Dār al-Islam. Si possono dare certamente altri nomi a questo fenomeno, ma non cambia il fatto che, in queste zone in Occidente, i musulmani vivano quotidianamente la propria religione. Le condizioni poste da alcuni studiosi affinché sia permessa la vita dei musulmani in uno spazio non-islamico sono la preservazione della religione e la possibilità di praticarla liberamente: se il credente può rimanere fedele ai propri principi, al monoteismo, alla profezia e al Libro Sacro, e gli è permesso pregare, fare la carità e compiere il digiuno, può ricreare tranquillamente un contesto islamico in un paese non-musulmano. I motivi di tale permanenza o spostamento in terra non-musulmana possono essere molteplici: l’invito delle genti al bene citato dall’Imam Sadiq, lo studio, motivi diplomatici, la necessità di cure mediche, il commercio (sebbene, come visto, l’imam Malīk rifiutò questa possibilità), l’indigenza e l’impossibilità a muoversi; questi ultimi sono detti mustad’afin, ovvero coloro che sono impossibilitati a vivere in modo completo la propria fede ma non possono spostarsi altrove. Tra i motivi citati, comunque, solamente due sono tali da permettere la fissa permanenza di un musulmano in una terra non-musulmana: l’invito al bene, cioè la testimonianza della parola di Dio (shahādah), e l’impossibilità materiale dello spostamento, poiché chi viaggia per studio ultimerà il suo percorso didattico, chi si sposta per motivi di salute completerà le sue cure mediche, il lavoro del diplomatico volgerà al termine e il commercio sarà concluso.
Oggi non capita di rado che dei musulmani abbandonino il proprio paese a maggioranza musulmana, indipendentemente dal fatto che quest’ultimo sia laico o meno (d’altronde gli Stati ufficialmente religiosi non sono tanti ed anche quelli che si dichiarano tali, come le poche repubbliche islamiche, non sono certo perfetti) per raggiungere un paese occidentale ove il laicismo e e la secolarizzazione concedono poco spazio ad un’esperienza religiosa vissuta nell’ambito sociale, limitandola piuttosto alla sfera privata e, in tal modo, impedendo la piena espressione della fede che, per sua natura, dovrebbe essere universale. Anzitutto, come detto, con “paese islamico” non si intende un paese la cui politica rifletta esattamente il Corano e la Sunna del Profeta, giacché un simile paese non esiste, bensì che cerchi di rifarsi ad essi o che, quantomeno, ospiti una maggioranza musulmana e il cui governo definisca sé stesso credente e musulmano. Appurato ciò, lo spostamento di un musulmano da un paese del genere verso l’Occidente può avvenire per varie ragioni, molte delle quali sono già state accennate in precedenza. Una causa della migrazione può essere la ricerca del miglioramento economico, qualora la propria terra di origine offra una situazione di seria difficoltà: questa è una realtà testimoniata sia in molti paesi musulmani che in tanti contesti estranei all’Occidente, dovuta soprattutto ad un costante processo di colonialismo verificatosi nei secoli scorsi e che oggi, lungi dall’esser terminato, ha assunto nuove forme e altri nomi; in simili contesti, molti popoli non solo non hanno la possibilità di migliorarsi da un punto di vista economico, bensì riscontrano soverchianti difficoltà perfino nel tentativo di sopravvivere: è quindi normale che un simile contesto spinga allo spostamento verso un paese le cui condizioni di vita siano migliori. Talvolta, sebbene possa sembrare un controsenso, a spingere alla migrazione da un paese considerato islamico ad uno non-islamico è proprio l’impossibilità di praticare la propria fede o, ancora, motivi di sicurezza politica, guerra, matrimonio e, malgaro ciò accada più raramente, carestie e disastri naturali.
Simili migrazioni, causate dai motivi più disparati, hanno portato al formarsi di una nuova realtà in Europa e in Occidente, generando diverse problematiche inerenti sia, esternamente, alla presenza musulmana in territorio non-musulmano che, internamente, alla vita dei musulmani stessi. Il migrante, difatti, giungendo in un paese nuovo si imbatte necessariamente in tematiche che nel proprio paese di origine non avrebbe mai affrontato. Un esempio può essere la circoncisione, obbligatoria per alcune scuole che la considerano una necessità religiosa, e tradizione profetica per altre comunque da non sottovalutare: ad ogni modo, l’atto della circoncisione è pur sempre parte integrante della tradizione islamica. Ebbene, una simile questione si è trasformata in un problema in Occidente, laddove alcune fazioni politiche hanno cercato di sfruttare l’argomento per presentare i musulmani sotto una determinata luce: anni fa in Germania, ad esempio, in seguito ad una circoncisione non andata a buon fine, il parlamento ha approvato una legge che permetteva l’operazione esclusivamente per ragioni mediche, e simili misure si sono verificate anche in altri paesi. È un caso, questo, in cui qualcosa di comune come la non riuscita di un’operazione, di qualsiasi tipo essa sia, è stata trasformata in un argomento politico divisivo che limita la libertà del musulmano di vivere la propria fede, accrescendo il divario tra chi si schiera a favore dei flussi migratori e chi, invece, vi si oppone. Il musulmano che si muove verso l’Europa può inoltre imbattersi in determinati atti di discriminazione e, per di più, in manifestazioni perfettamente legali organizzate ai danni degli immigrati in generale e dei musulmani in particolare o, perfino, contro la presenza delle moschee, le quali rappresentano il punto focale della spiritualità del musulmano. Il migrante si stupirà nell’interfacciarsi con simili manifestazioni, organizzate non contro la criminalità, la delinquenza o la disoccupazione, bensì in opposizione alla costruzione di un luogo di culto, quando nel proprio paese di origine coesistono moschee, chiese e sinagoghe. Si tratta di contesti difficili e situazioni traumatiche, in principio, alle quali il credente dovrà abituarsi.
*Trascrizione di una lezione tenuta da Shaykh Abbas Di Palma presso il Centro Islamico Imam Mahdi di Roma
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