Imâm ‘Alî ibn Abî Tâlib, Lettera a Mâlik al-Ashtar. Il governo dal punto di vista islamico
Enrico Galoppini
Le edizioni Irfan sono una giovane casa editrice molto attiva nella pubblicazione di testi della tradizione islamica, in particolare sciita, che hanno dato alle stampe, tra gli altri, un importante scritto (il più lungo giuntoci direttamente di suo pugno) dell’imâm ‘Alî Ibn Abî Tâlib, cugino, figlio adottivo e infine genero di Muhammad, il Profeta dell’Islam, nonché quarto califfo “ben guidato” (656-661) dopo la scomparsa del Profeta stesso.
Si tratta della Lettera a Mâlik al-Ashtar. Il governo dal punto di vista islamico, la quale rappresenta un documento unico nel suo genere; un compendio di aurei consigli forniti dal califfo a quello che era stato incaricato di governare l’Egitto e le sue province, sempre più riottose verso l’autorità centrale, spostatasi nel frattempo da Medina a Kufa, nel sud dell’Iraq (dove infatti ancor oggi gli sciiti, eredi spirituali dei “seguaci di ‘Alî”, sono la maggioranza).
Dal punto di vista contenutistico, la “lettera” sorprende un lettore aduso a considerare la “politica” un ambito separato da ciò che è inteso come “spirituale”. In realtà, la posizione corretta, l’atteggiamento equilibrato nei confronti della “politica” è quello integrale, che non contempla compartimenti stagni né ‘doppie morali’ e né linee di condotta che non valgano sempre e comunque nella vita degli uomini.
A maggior ragione, quando è in questione in vivere in comune e la difficile “arte del governo” in mezzo ad un mondo di iene e di profittatori (non ci s’illuda che ai primordi della storia islamica fossero tutte persone “per bene”), un capo illuminato qual era il quarto califfo ‘Alî sentiva in cuor suo che non poteva inviare un suo incaricato in una delle più importanti regioni del Califfato senza rifornirlo di quanto è più prezioso per un governatore: una provvista di consigli da cui attingere per non perdere di vista il significato della sua missione (e non perdere anche se stesso a causa delle lusinghe del “potere”).
Per questo, il documento, che qui troviamo in traduzione italiana col testo arabo a fronte (*), comincia col mettere in rapporto la “politica” e la taqwâ, il “timor di Dio”, in ogni singola decisione; la conoscenza della natura profonda dell’essere umano (fitra) col modo di trattare i sudditi; la misericordia (rahma) verso i governati stessi, quale che sia il loro prestigio sociale, e l’amore per l’uomo così com’è, coi suoi pregi e difetti.
Il califfo ‘Alî passa poi a consigliare Mâlik al-Ashtar di tenersi lontano dagli appetiti carnali, dalla superbia, dagli accessi d’ira, affinché mantenga sempre lucidità e distacco, evitando così di essere eccessivamente coinvolto nel “mondo” (dunyâ), il che non è mai un bene, tantomeno per chi ha incarichi di governo.
In effetti, abituati al deprimente livello delle classi politiche “democratiche”, si potrebbe restare esterrefatti di ciò, ma non bisogna dimenticarsi che un conto è una concezione organica del vivere, una visione del mondo nella quale tutto è interdipendente e gerarchicamente ordinato, un altro è il caos contemporaneo eretto a ‘norma’ a causa dell’applicazione dei dogmi invertiti del “laicismo”.
Tra le altre norme di condotta che il neo-governatore del granaio dell’Impero avrebbe dovuto osservare per ben amministrare e riscuotere perciò il gradimento dei suoi sudditi e l’apprezzamento del Califfo, ve ne sono alcune di stretta attualità: evitare di favorire la “gente importante”, per non diventarne ostaggio e perché sarà sempre la prima a voltare le spalle quando le converrà (ci sembra di ricordare la recente storia… d’Italia!); giudicare le controversie tra gli uomini sempre in base a ciò che è manifesto (zhâhir) e stendere un velo su quello che è intimo, privato (si pensi alla odierna metastasi delle “intercettazioni” che alimentano un pettegolezzo a non finire e addirittura innescano procedimenti giudiziari!); scegliere i collaboratori e, in special modo, i giudici tra gli uomini più virtuosi e saggi e, soprattutto, tra quelli che erano al servizio di un governante giusto (si evitino quindi gli avari e gli “attaccati al mondo”, consigliava il califfo, poiché il governante ha l’obbligo di “dare” incessantemente e di non “trattenere” nulla per sé, poiché egli deve solo “servire”). Collaboratori e giudici vanno comunque pagati “il giusto” per evitarne le occasioni di corruzione.
Particolarmente attuale è il consiglio di “dare a ciascuno il suo” (haqqu-hu, lett. “quanto gli spetta”), il che ci riporta ad una saggezza senza tempo qual è stata quella romana di cui è permeata, volenti o nolenti, anche questa “lettera”. Tutti sono infatti degni di rispetto, e l’opera di ciascuno va valutata con le più scrupolose attenzione e considerazione.
Il governante inoltre non deve mescolarsi con individui dalle dubbie virtù e frequentare personaggi equivoci, e men che meno farne sfoggio, come purtroppo capita sempre più oggidì: egli deve piuttosto ricercare la frequentazione dei sapienti e dei timorati di Dio, poiché ha l’obbligo imperativo di tenere sempre alta la tensione morale.
Uno dei compiti ingrati di un governatore è inoltre quello della riscossione delle tasse (kharâj era il nome della tassa fondiaria pro capite), ma evitando inutili e controproducenti vessazioni. Per questo il califfo incoraggia il suo preposto al governo dell’Egitto ad implementare a sua volta tutto ciò che contribuisce alla prosperità dei raccolti, di modo che le tasse non vengano a pesare troppo sulle spalle dei contadini, finendo quindi per essere percepite come un qualcosa d’ingiusto. Inutile sottolineare che questo punto, specie nell’Italia sottoposta alle ‘cure’ della cosiddetta troika (UE, BCE e FMI), è quanto mai da meditare a fondo… Ormai si pretendono tasse esose mentre si uccide l’economia!
Un governatore attento e scrupoloso non deve poi permettere che sorgano monopoli economici d’alcun tipo, secondo le direttive impartite dal centro del Califfato. Qui possiamo osservare una cosa importante: nel mondo moderno sono stati escogitati vari provvedimenti ed istituti, in linea con una concezione dell’economia (e dell’uomo) di tipo “liberistico”, presentati come una novità, nel quadro d’un progressivo (e “progressista”!) miglioramento delle condizioni di vita dell’uomo e dei mezzi per ottenerlo.
L’America fa del cosiddetto “antitrust” (la tutela della “libera concorrenza”) un fiore all’occhiello della sua dottrina economica, pertanto esso è stato recepito anche nei suoi paesi-satellite. I liberisti inoltre sono convinti che la circolazione del denaro favorisca il benessere collettivo, ed abbiamo sentito anche un primo ministro italiano, nelle prime fasi dell’attuale “crisi”, incitare i suoi connazionali a “spendere” per mettere in moto l’economia.
Bene, in linea di principio (fatto salvo il fatto che il risparmio ha pure una sua eticità purché non diventi un accumulo di ricchezze dettato da mera avidità ed ingordigia), sia l’assenza di monopoli che la circolazione della ricchezza – specie quella monetaria – sono due principi sani. E difatti l’Islam, nella sua dottrina economica, li recepisce: si pensi alla zakât, una tassa, esatta dallo Stato per i bisogni di determinate categorie di aventi diritto indicate con cura nel Corano, che scoraggia l’accumulo di capitali, poiché sono quelli oggetto di tassazione. Ma nell’“economia islamica”, a differenza di quella moderna (sia “liberista” che “dirigista”), tutto trova il suo senso alla luce del nucleo metafisico, della “Rivelazione”, che ne costituisce il perno, così, accanto all’incoraggiamento dell’iniziativa privata (che i monopoli, e i “cartelli” oligopolistici, di fatto uccidono) e ad una tassazione che colpisce in particolare i patrimoni, troviamo un’etica che è quanto mai lontana da quella della moderna “concorrenza” economica, per tacere delle tasse, autentico flagello dei regimi democratici le quali vanno per di più a coprire i “bisogni” più assurdi e pretestuosi, come quello di tamponare gli interessi sul “debito pubblico” creati da una moneta-debito che è tale fin dal momento dell’emissione e che è proprietà di banchieri privati.
Nell’ordinamento islamico dello Stato, la moneta, oltre che essere solo d’oro o d’argento (e riportare sul recto ed il verso formule religiose ed il nome del sovrano), è al servizio di una orto-economia, ovverosia un’economia “retta” guidata da principi universalmente validi e veri nella misura in cui traducono, nell’ambito degli scambi di beni e servizi, quell’Unica Verità da cui trae origine il messaggio coranico.
L’Islam spinge incessantemente l’uomo a cercare la “prosperità” (falâh, non a caso della stessa radice di fallâh, “contadino”), da quella spirituale a quella materiale (mens sana in corpore sano…), così come apparentemente si pongono le ideologie contemporanee, le quali, però, non avendo alcuna base metafisica, ma tutt’al più un moralismo, finiscono per tradursi in un fallimento pratico ed una regolare delusione per chi vi aveva riposto speranze palingenetiche, con l’uomo che finisce per stare sempre peggio.
L’essere umano, come insisteva l’imâm ‘Alî nella sua “lettera” a Mâlik al-Ashtar, va considerato per quello che è, coi suoi pregi e suoi difetti, e tutti gli uomini vanno considerati allo stesso modo, purché non si perda mai di vista la bussola del “timor di Dio” e la consapevolezza che “servire” implica primariamente il servizio al Signore, tramite la costante disponibilità di chi detiene un “potere” (non “suo”) nei confronti di tutti, specialmente i poveri e gli oppressi (mustad‘afûn).
Forte di tutte queste raccomandazioni, il neo-incaricato governatore dell’Egitto si mosse alla volta dell’Egitto, per riportarvi la pace e la concordia, ma non ebbe mai il tempo di applicarle, poiché lungo il percorso, probabilmente ‘intercettato’ dagli avversari (in primis gli alleati di Mu‘âwiya, il governatore della Siria rimosso dal califfo ‘Alî), venne avvelenato a morte durante un pasto offertogli con l’inganno.
Ma una volta scomparso il destinatario, rimane ad ogni modo l’importanza di questo documento, che oltre ad illuminarci sulle virtù di chi lo redasse si pone come sicura guida per chiunque, oggigiorno, intenda assumere incarichi di governo per il bene e la prosperità della sua comunità.
(*) La traduzione dall’arabo è dell’Hujjat al-Islam Damiano ‘Abbas Di Palma, intervistato sul numero 4/2012 di “Eurasia”. La “presentazione” è di Ghorban Ali Pourmarjan, ex Direttore dell’Istituto Culturale dell’Ambasciata della Repubblica Islamica dell’Iran in Italia. La “Prefazione” è del Centro per la traduzione e la pubblicazione della sapienza islamica e delle scienze umane (Iran). L’“Introduzione” ed il commento, posto in chiusura, sono di Ahmad Khatami. Il testo può essere ordinato alla nostra redazione, scrivendo a imam_mahdi59@yahoo.it
fonte: “Eurasia”, 2/2013