Recensione dell’introduzione di Sayyid Jalālu-d-Dīn Āśtiyānī al commento di Qayşarī ai Fuşūş-l-Ĥīkam di Ibn Arabī
(prima parte)
R.Arcadi
Nell’accingerci a recensire questa preziosa introduzione di Sayyid Āštiyānī (1), sarà opportuno rimarcare, com’è che non ci si debba in primo luogo far ingannare dal fatto che essa è così denominata, trattandosi in effetti di un’opera a sé stante. In secondo luogo, ci eravamo in un primo tempo risoluti di limitarci ad essa, sennonché i legami profondi che detto scritto ha con un altro scritto capitale del nostro autore, vale a dire, l’introduzione alla Mişbāĥ dell’Imam Ķomeynī, ci hanno indotto ad avvalerci anche di quest’ultima sua opera, dato che essa si occupa anche di argomenti consimili.
In effetti, entrambe le trattazioni concernono in generale la figura d’Ibn Arabi, e la prima la sua opera capitale Fuşūş-l-Ĥikam, “Le Gemme”, o “I Castoni della Sapienza”, occupandosi quest’ultima inoltre del fondamentale commento di Qaysari, che a nostro modesto avviso è una delle sue principali chiavi di comprensione. Ma il fatto è, che oltre a quest’opera fondamentale della conoscenza dottrinale, vale a dire, del pensiero trascendente, si trattano nella suddetta introduzione tutta una serie di questioni fondamentali e spinose.
Questioni che vanno dall’esposizione della dottrina stessa dei livelli di conoscenza trascendente e delle sue stazioni, a quel che concerne più in generale gli uomini di conoscenza che vi sono coinvolti, sino alla questione cruciale del rapporto d’Ibn Arabi con le Genti della Dimora del Vaticinio ed i loro retti seguaci, che si riallaccia al principio stesso della visione presenziale trascendente, con la sua eventuale infallibilità, argomento questo assai delicato.
Sino a tutto l’insieme della materia delle narrazioni le quali vengono riportate sia pro, sia contro, sebbene in quest’ultimo caso per lo più indirettamente, la preminenza di quelle Genti, quanto sia alla comunità, nella loro funzione che ne concerne la guida pubblica e legislativa, sia ai livelli subordinati dell’essere, che sono la creazione stessa nel suo complesso, vale a dire, in un altro modo d’esprimersi, la questione cosiddetta “cosmologica” e “cosmogonica”, ovverosia la dottrina dell’universo e della sua generazione.
Questioni queste ultime in effetti assai spinose, in quanto esse coinvolgono non solamente la questione cruciale della successione e dell’eredità vicaria del Nunzio divino, ma si riferiscono inoltre alla funzione dello stesso Ibn Arabi, del Maestro Massimo, in seno alla comunità dei credenti, con tutti gli abusi che della sua figura sono stati fatti da taluni suoi cattivi seguaci, corrispettivi alla sua condanna senz’appello, ed alla svalutazione della sua figura somma.
Una materia dunque assai più vasta di quello che sembrerebbe dover essere l’argomento più immediato di quest’indagine assai preziosa del nostro autore, ma che nondimeno finisce col riconnettervisi intimamente, a riprova di tutta la profondità e l’altezza del suo pensiero, certo ben degno non soltanto di accostarsi a quello del commentatore per eccellenza di Ibn Arabi, Qaysari, ma persino di dire la sua quanto alla sublimità stessa del Maestro Massimo.
Non ci attarderemo in questa sede sulle questioni più accessorie ed erudite di questo scritto prezioso ed illuminante del nostro autore, le quali di troppo allungherebbero il nostro discorso. Nella sua prima parte infatti, a mo’ di esempio, la trattazione di Sayyid Astiani concerne la linea di sviluppo del pensiero trascendente, della conoscenza dottrinale, o speculativa, personificata nella sue massime personalità e Maestri, vale a dire, in lingua araba, con vocabolo oramai alquanto usitato, dell’”irfan”, nella fattispecie di quello “nazari” (speculativo).
Ci limiteremo in questa sede ad alcune considerazioni preliminari che lo concernono, riguardando in più particolare i Maestri di conoscenza. Quando si adopera in arabo il vocabolo “irfan”, che qui traduciamo semplicemente con “conoscenza”, siccome termine più usitato e perspicuo di quello di origine ellenica “gnosi”, facciamo riferimento ad alcunché di distinto, anche se non certo separato, dal corrispettivo “scienza”, con cui è possibile tradurre invece l’arabo “‘ilm”, di radice differente. Data anche, sia detto per inciso, la ricchezza radicale di questa lingua, atta ad esprimere le varie sfumature del pensiero.
Dove con l’apposizione propositiva “con” al verbo “scio”, da “gnosco” incluso in “conosco”, corrispettivo del greco “ghighnosco”, si fa riferimento non ad una composizione, ma ad un’identità rafforzativa che lo rende più immediato, e presenziale. Il fatto è che nell’antica lingua ellenica la scienza viene resa con “loghia”, “logia”, da “logos”, vale a dire “verbo”, o “discorso”, che rende più propriamente conto dell’intervento della ragione, dell’intelligenza discorsiva ed argomentativa, ad un livello subordinato di comprensione.
Ovverosia dell’intelligenza argomentativa peculiare alle cosiddette “scienze”, contrapposte in tal senso all’immediatezza della conoscenza. Avente il suo corrispettivo nella “coscienza”, in arabo “wijdan”, il rinvenimento presenziale originale, che a sua volta si riferisce alla radice “wajada”, “trovare”, “scoprire”, da cui il “wujud”’, con cui si traduce in arabo il nostro “essere”, appunto nel senso del rinvenimento presenziale primordiale, radicato nella presenza immediata del conoscente al conosciuto e nella loro identità.
Né ci si deve qui stupire del fatto, che anche l’”ifan nazari” è a sua volta discorsivo, e talora, anche se non sempre, come vedremo appunto in Ibn Arabi, argomentativo. Il fatto è che qui si fa riferimento alla scaturigine immediata del pensiero presenziale nel nostro mondo, che pur la fa da tramite per le altre conoscenze non presenziali, secondo quell’ordine delle conoscenze, dalla loro scaturigine superna, preconizzato da Tommaso d’Aquino e Molla Sadra, oggi del tutto dissolto, anche se velleitariamente, a dispetto delle ineludibili radici esistenziali di ogni qualsivoglia realtà, conoscitiva e no.
Ora “wujud”, o essere, è presente in forma verbale coniugata, non infinitiva, più volte anche nel Sacro Corano, quando non gli si voglia dare soltanto un senso banale sensitivo, contro la legge dello “scorrere” dei suoi significati, vale a dire dell’applicabilità complessiva del suo dire, corrispettiva ai suoi livelli esistenziali. Essere che d’altra parte è assente in arabo, al tempo presente, nella sua forma verbale non infinitiva non legata a “wajada”, ma a “kāna”, a riprova dell’identità senza residuo dell’essere con le realtà tutte, in una sorta di eterno presente, che prescinde da alterazioni temporali nullificanti.
È peraltro rimarchevole a questo medesimo riguardo, che la scienza degli esseri si riconnetta ad un’immediatezza sovraformale che prescinde da una forma rappresentativa, riconnettendosi all’essere ed identificandoglisi, come da Molla Sadra, il che ha valore per la conoscenza autentica, non per le sue varie ombre. Tenuto anche conto che sovente vi avviene una trasposizione di livelli superiore, solo incidentalmente trascesa all’esterno, oppure il compimento della forma difettiva, ferma essa restando, nella trascendenza.
Alla qual cosa fa peraltro da corrispettivo la distinzione tra la “scienza presenziale”, in arabo “al ilmu-l-huduri”, e quella argomentativa e discorsiva, fondantesi su di una conseguenza ed un conseguimento, in arabo ”husul”, non più su di un’immediatezza. Tutto questo a dispetto dell’uso reiterato, in virtù di questa sua qualificazione specificante, del termine “scienza”, “ilm”, invece di quello “conoscenza”, “irfan” appunto, essendo quest’ultimo, in un tal senso, la specificazione della scienza, vale a dire, la sua partizione ascendente perfettiva nel verso del suo essere compiuto trascendente.
Dove l’immediatezza medesima viene resa in arabo anche col vocabolo “badīhaħ”, vale a dire, l’intuizione presenziale immediata, che prescinde dall’argomentazione discorsiva. Distinzione questa la quale viene espressa da Tommaso d’Aquino con quella “scientia visionis”, corrispettiva anche all’arabo “šuhūd”, avente quest’ultimo vocabolo il senso letterale, immediato quanto a noi, di “testimonianza oculare”, che può essere anche reso da “kašf”, più propriamente la nostra “rivelazione”, il greco “apocalissi”.
Dunque dicevamo l’“irfan”, oppure “conoscenza”, nelle sue sfumature, con un termine di radice latina affatto usitato, atto a sfatare le immaginazioni varie che potrebbero legarsi all’uso di un vocabolo meno usitato, quantunque oggigiorno purtroppo corrente, come “gnosi”, data la presente ignoranza dell’antica lingua degli Elleni da parte dei più, termine il quale si presta in effetti a celare dietro di sé tutto ed il contrario di tutto. Per tacere a maggior ragione dell’uso diretto di termini arabi, per lo più affatto inintelligibili al pubblico nostrano.
Dicevamo dunque di “conoscenza dottrinale”, oppure “speculativa”, per richiamarci più propriamente al suo qualificativo arabo “nażarī”. Conoscenza la quale ha un suo ispettivo operativo, o piuttosto attuativo assai più propriamente, quest’ultima in arabo “fiºl”. Andrà in primo luogo osservato, a questo medesimo riguardo, che “fiºl” va distinto da “ºamal”, qualcosa di simile a quel che avviene per il greco “poieo” nei confronti di “prasso”.
Riferendosi più propriamente la prima coppia di termini ad un dominio che trascende l’immediatezza corporea, pur essendo anch’esso, a suo modo, contraddistinto da immediatezza. Tanto da corrispondere piuttosto al nostro “atto”, la greca “energia”, al di là sia degli abusi che se ne fanno al presente, specie da parte dello scientismo moderno, sia di quelli aristotelici, concernendo in senso stretto un progredire dell’essere nel verso del suo arricchimento e compimento, non un mera apposizione esterna di una forma ad una materia.
Questo corrispettivo operativo, o piuttosto assi meglio “attuativo”, come dicevamo, definisce un dominio correlato, distinto ma non separato dalla conoscenza dottrinale eminente. Dominio che si riferisce nella fattispecie all’itinerario e perfettivo dell’essere umano, più propriamente della sua intelligenza, quello che Bonaventura da Bagnoregio definiva l’“itinerarium mentis in Deum”, dove “mente” va intesa anche nel senso eminente d’”intelletto”, in generale di “intelligenza”, non solo come mera ragione argomentativa.
Questo dominio attuativo, o realizzativo, avrà anch’esso dei Maestri, che a volte si distinguono, a volte coincidono con quelli dottrinali. A rigore il Maestro attuativo sarà l’Uomo Perfetto, realizzato ab aeterno ai fastigi dell’essere, il quale nella dottrina dei seguaci della Dimora del Vaticinio coincide con i XIV Puri, nella fattispecie, al presente, con l’Atteso Ben Guidato vivente e presente, essendo ogni altro Maestro un suo semplice Vicario.
Qualifica di questi Maestri facenti funzione è di essere al giorno d’oggi occulti, come la sorgente dalla quale promanano, donde traggono la loro legittimità ed efficienza, essendo il loro un mondo celato ai nostri occhi, almeno nella nostra presente condizione abituale, cui fanno da corrispettivo nel dominio apparente, le catene iniziatiche sufiche, con le loro limitazioni formali, ed i Maestri di conoscenza dottrinale e realizzativa, il cui rapporto è diretto, ma occulto.
È a questa medesima stregua, che la funzione del Maestro coincide con la funzione esistenziale vicaria della luce muhammadica, dell’intelletto primo nel mondo creato, prima profusione divina, sia nel dominio della discesa creativa, dato che Iddio Altissimo, sia magnificato ed esaltato, si trasfonde nell’universo per il tramite di quella luce che Egli trascende dapprima immediatamente, per contatto diretto, senza soluzione di continuità, a rimarcarne l’Identità Suprema, “Luce su luce”, come recita il Sacro Corano, XXIV, 35.
Così come dall’altro canto, essendo quella luce la scaturigine prima di quell’attrazione, o rapimento, oppure grazia iniziatica, la quale fa sì che la persona umana si empia di essere, venendo iniziata ai segreti divini, approssimandosi di livelli in livello, di suo centro in suo centro, a quella Sostanza Suprema. Essendo le profusioni che consentono tale ascesa, le grazie iniziatiche, irradiazioni divine per il tramite del Suo Vicario immediato superno. Senza che questa sia la sede per vedere, quale sia il modo dell’attuarsi.
Questa medesima realtà delle cose presuppone una conoscenza immediata, o no, almeno il più delle volte, a prescindere da un intervento, da una grazia divina diretta. Conoscenza dunque dei livelli dell’essere, nella loro natura esistenziale nei due archi dell’ascesa e della discesa, com’è preconizzato dal Sacro Corano: “(vi sono) gradi presso Iddio”, III, 163, verso questo da interpretarsi, come appunto spiega Tabatabai nel “Mīzān”, alla luce del suo “scorrere”.
Conoscenza dottrinale che dunque, ben lungi dal ridursi ad un mero ghiribizzo discorsivo, si fonda sulla visione diretta, da quella d’Iddio Altissimo, eccelsa Ne sia la lode, di Sé stesso, a quella che Ne hanno i beati, come recita Tommaso d’Aquino nella Summa. La qual cosa corrisponde peraltro perfettamente a quegli “uşūl”, i principi, od allo “šohūud”, sempre la medesima “scientia visionis”, di Molla Sadra, dei quali tratta nella sua premessa agli Asfar, o com’è, e spiega lo stesso Qaysari, quanto ad Ibn Arabi, quanto quelle realtà superne e Supreme che consentono il profondersi della conoscenza
Conoscenza dottrinale e speculativa dunque che nulla ha a che vedere con il razionalismo oppure con l’irrazionalismo del pensiero occidentale moderno e contemporaneo, ma che semmai è strettamente legata a quella che è detta in arabo “ĥikmaħ”, la nostra “sapienza”, che è lo sviluppo discorsivo della tescendenza, radicata nei suoi principi immediati e presenziali, quella che Tommaso d’Aquino definiva siccome la “cognoscentia per causas altissimas”.
Ora dunque, prescindiamo dall’ufficio attuativo affatto occulto, come già dicevamo, che non s’identifica necessariamente con le catene d’iniziazione sufiche. Prescindendone nella sua forma più pura, scevra dalle loro formalità esterne, esternantesi solo nella lettera del libro e nella persona dell’unica Guida presente e vivente, dell’Atteso Ben Guidato, vale a dire da quell’iniziazione formale o virtuale non strettamente necessaria nella sua forma cerimoniale, come osserva lo stesso Réne Guénon, contro i suoi cattivi interpreti.
La conoscenza dottrinale avrà dunque tutto un suo ambito, una sua dignità, ed una sua necessità, seppure quest’ultima non assoluta, come appunto già dicevamo. Sotto questo medesimo riguardo almeno, citiamo qui direttamente il nostro autore, “Ibn Arabi ha la precedenza su qualsivoglia uomo di conoscenza”. Vorremmo peraltro qui osservare e chiarire, a mo’ di nostro commento, com’è che un assunto siffatto vada inteso “in senso diviso”, non “in senso composito”, per avvalerci di una locuzione della “scolastica”.
Perché Ibn Arabi non è propriamente pensatore, o “filosofo”, anche se nel senso suddetto della “sapienza”. Nel senso che le sue sono principalmente visioni, le quali egli riporta fedelmente, com’è che egli asserisce che gli era stato ordinato, si veda a questo riguardo la sua premessa ai “Fusus”, della qual cosa non abbiamo nessuna ragione di dubitare, a meno di prendere le sue dottrine eccelse ed ispirate per mere immaginazioni e ghiribizzi individuali.
Non abbiamo nessuna ragione di dubitare che un’altezza siffatta, sovente ineguagliata, di contemplazione, debba porre le sue visioni tra le ispirazioni divine. Dato che, come osserva affatto correttamente Qaysari nell’introduzione al suo commento ai Fusus, è prerogativa delle visioni ed ispirazioni divine la loro sublimità, con tutte le sue conseguenze morali e d’attitudine, di chiarore, soddisfacimento, e pacatezza, nella stessa vita ordinaria.
Della qual cosa possiamo fare tutti noi l’esperienza, rendendone testimonianza, allorquando ci troviamo al cospetto di quelle personalità, nelle quali sentiamo che vibra un riflesso ed un raggio della luce divina, Tutto il contrario delle ispirazioni sataniche, le quali calmano all’ínizio, per poi sommuovere, scevre com’esse sono di conformità esistenziale, mentre le prime commuovono per poi calmare. Essendo anche questa, come dicevamo, un’osservazione preziosa di Quysari, nella parte citata dell’opera cui si fa qui riferimento.
Ibn Arabi è dunque depositario di un’ispirazione divina, che non è però né quella del Nunzio Divino, né quella dei suoi eredi e Vicari. Le Rivelazioni Meccane lo attestano nel loro stesso titolo. Mentre per i Fuşūş lo stesso Ibn Arabi, nella sua premessa, asserisce d’avere ricevuto quest’opera direttamente dall’Inviato d’Iddio Altissimo, del che non abbiamo nessuna ragione di dubitare, avendone dato l’argomento, in attesa di quello in contrario: “date il vostro argomento, se siete veritieri”, Sacro Corano, XXVII, 64.
Vale la pena qui osservare, che negare l’assunto suddetto, equivarrebbe a ad attestare la mancanza di ragione sufficiente, in arabo “tarjīĥ”, vale a dire, il pendere della bilancia dall’una una parte oppure dall’altra, di dottrine altrimenti inesplicabili con qualsiasi elaborazione mentale, in virtù della loro scaturigine e del loro procedere superiore, come affermava peraltro anche Tommaso d’Aquino, Essenziale o no che essa scaturigine sia, ma sempre trascendente.
Dicevamo dunque che Ibn Arabi non è dunque pensatore, o “filosofo”, o più propriamente “sapiente”, nel senso suddetto della “ĥikmaħ”, dato che in lui l’apparato discorsivo è ridotto al minimo, od è implicito rispetto alla contemplazione pura. Essendovi inoltre il principio di causa ricondotto direttamente, senza residui d’altra sorta, all’irradiarsi della luce divina. Senza che dunque abbia ad acquisirvi nessuna consistenza il conformarsi causativo ed apparentemente separativo dei vari livelli subordinati dell’essere.
Com’ebbe a chiarirci personalmente il nostro Maestro di morale conoscitiva, o irfanica, Karīm Ĥaqīqī Šīrāzī: “Iddio è la Luce dei cieli e della terra”, Sacro Corano, XXIV, 35. Il che fa di Ibn Arabi il Maestro certo “Più Grande”, il “Maestro Massimo”, com’ebbero a salutarlo i suoi seguaci e successori, né questo indubbiamente in un senso, vale la pena ripeterlo, meramente umano, laonde non ci resta che inchinarci riverenti al suo cospetto.
Ma se consideriamo l’aspetto più propriamente discorsivo e razionale, quantunque sottoposto a quello della visione trascendente, com’è invece per Molla Sadra, la palma del confronto, che nulla ha a che vedere con una contesa, che non sussiste per uomini divini, va a nostro avviso a quest’ultimo, cui va meritatamente l’appellativo di “Şadru-l-Muta’allihīn”, vale a dire, “Fastigio dei Deificati”, degli estinti in Iddio Altissimo, Ne sia esaltato l’Essere.
Quasi anche a rimarcare in questo modo, che in quest’ultimo sapiente è presente in modo assai più esplicito e sviluppato una dimensione ulteriore, quella iniziatica discendente, corrispondente al terzo ed al quarto viaggio dell’intelletto negli Asfar. Dimensione presente invece solamente in nuce, esemplarmente e come accenno nel primo, il quale dunque viene a presentarsi siccome un culmine in sé, sotto questo medesimo riguardo affatto ineguagliato, al quale fanno riscontro le discese sapienziali ed iniziatiche, del secondo.
A nostro modesto avviso la preminenza non certo assoluta, secundum quid, sotto un certo riguardo, di Molla Sadra quanto ad Ibn Arabi, con l’aspetto reciproco quanto alla superiorità di questo su quello, è dovuto al suo radicamento più esplicito e completo nella dottrina delle genti della Dimora del Vaticinio, premessa di ogni ascesa a Iddio Altissimo, eccelsa ne è la lode, ed al Suo Inviato, con le sue ulteriori particolarizzazione iniziatiche discendenti.
Laddove invece, sempre secondo il nostro modesto parere, la priorità di Ibn Arabi va riportata alla sublimità dello “ºamā’”, il “nembo” superno in cui era Iddio, sia magnificato ed esaltato, prima della creazione del mondo, come riportato in talune narrazioni riferite al Nunzio divino. Dove detto vocabolo ha la medesima radice di “ºamiya”, essere cieco, oscuro, nel senso dell’estinzione in Lui, com’è nel greco “myo”, “chiudere gli occhi”, da cui “mistica”, e “mistero”.
Particolarità iniziatiche discendenti, che non sarebbero spiegabili se non con la dottrina compiuta ed esplicita delle Genti della Casa, col radicamento donde discendono, ma non sotto il riguardo del principio, seppure con la sua esplicitazione esemplare, il quale è presente indubitabilmente ed evidentemente, con le sue implicazioni, come vedremo più innanzi, anche in Ibn Arabi, in tutta la sua sublimità, com’è anche perspicuo dai riferimenti testuali di Qaysari.
Quello che qui ci preme ancora di osservare, è che queste dottrine conoscitive e sapienziali non sono certo mere invenzioni, cioè “innovazioni”, in arabo bidºaħ, come pretenderebbero invece taluni imbecilli, ignoranti e presuntuosi, i quali vorrebbero amputare dall’uomo taluni suoi aspetti, vale a dire, tutti i suoi riguardi superiori, per poi imporgli, ammesso inoltre che essi lo vogliano e che tentino di farlo, l’incombenza dell’ascesa alle stazioni divine.
La qual cosa essendo affatto contraria alle reiterate ingiunzioni coraniche. È la scaturigine divina, più che non il prestito contingente, com’è convinzione del neopositivismo trionfante delle università d’Occidente, specialmente di quelle del mondo anglosassone, a spiegare in primo luogo, non viceversa, la loro presenza in altre correnti tradizionali sapienziali quali quella platonica, oppure anche quella vedantica, a dispetto di tutte le escogitazioni degli eruditi.
L’amputazione suddetta avviene nel medesimo modo di quella dottrina massonica, oggigiorno neoindù-massonica, che pretenderebbe, com’è anche per Hegel e per Heidegger, di far ascendere l’uomo dal basso di un preteso vuoto originale, inesistente in natura, senza dargliene il modo e la sostanza, come se l’uomo non procedesse da Iddio Altissimo, sublime Ne sia la lode, a Lui ritornando per gradi successivi, quei medesimi configurantisi nella natura originale dell’essere umano: “siamo d’Iddio, ed a Lui ritorniamo”, Sacro Corano, II, 156.
Il fatto è che il pensiero argomentativo, o “filosofia” che dir si voglia, è incluso in una guisa eminente ab origine nell’ispirazione dei Nunzi divini, nella loro conoscenza e visione, donde trae la sua dignità. Estrinsecandosi poi a mano a mano per il debilitarsi di una sostanza umana, con la sua attitudine primigenia, non più capace per sé di ascesa e visione diretta, rappresentando in questo modo più un regresso che un progresso, quantunque venga ad essere tale in senso diviso, come appunto dicevamo poc’anzi.
Come in quella che era la dottrina tradizionale cristiana, la grazia divina non si limita più, nello stato dell’uomo corrotto, ad influenzare l’agire umano, com’era in quello originale, avendo questi bisogno che essa glielo fornisca, assieme alla stessa attitudine, similmente così è per questo pensiero, che ha bisogno d’illazioni, non essendo più l’intelligenza umana atta ad un concatenarsi immediato e presenziale, come osserva acutamente Tommaso d’Aquino.
Lo stesso Molla Sadra, il pensatore divino per eccellenza, osserva che il discorso e l’argomentazione ebbero a diffondersi nella comunità dei credenti dopo che un pensiero corrotto d’origine ellenica si era sforzato di traviarla. La stessa reazione di cui fu antesignano e vessillifero Socrate, con l’arma del medesimo pensiero razionale, seppure d’ispirazione anch’esso trascendente, contro una razionalità o razionalismo, nel suo abuso indebito, depravato e depravante.
La stessa cosa che sta accadendo, o meglio, è già accaduta nel mondo occidentale contemporaneo, senza che però vi si abbia a scorgere una qualche reazione di tal sorta, che abbia a contrastarne l’apparente trionfo. Essendo questo purtroppo un andamento che dall’Occidente tralignato va spandendosi, come una tabe immonda, a tutto il resto del mondo, pressoché incapace, almeno nella maggior parte dei casi, di una qualsivoglia reazione rettificatrice.
Dunque tanto il discorso, quanto l’espressione contemplativa discorsiva immediata saranno contenute ad origine nell’intelligenza trascendente, nella fattispecie nella Rivelazione divina, e nei detti delle Genti della Dimora del Vaticinio, vale a dire, nel Libro Divino, e nell’eminenza umana delle persone dei suoi latori, dalla scaturigine del Nunzio, la quale è da Quella Divina, con tutti i livelli sopraordinati antecedenti che la loro dottrina presuppone.
Nulla dunque d’equiparabile, vale la pena ripeterlo, ad una qualsiasi immaginazione od invenzione individuale, o novità arbitraria. Com’è anche del resto per il procedere della deduzione giuridica dalle sue fonti, tramite i suoi argomenti, la quale anch’essa sarà da presupporsi ab origine, o virtualmente, od a vari livelli di trascendenza, in una continenza eminenziale superna e suprema che è all’origine del suo concatenarsi, a prescindere da errori umani, sempre possibili nel tempo dell’occultamento dell’Atteso Ben Guidato.
Il nostro autore dunque, in questa sua introduzione, ci presenta un excursus complessivo su tutta la dottrina trascendente ispirata di Ibn Arabi, sulle sue sublimità, sulle sue difficoltà e sui suoi punti oscuri, così come su tutto l’insieme di quella conoscenza contemplativa che su di lui s’incentra, essendogli legata. È dunque rimarchevole l’esame di tutti i grandi uomini di conoscenza, che la fanno da luci nella costellazione del configurarsi dell’irradiazione divina nella Comunità dei Credenti a procedere dai Suoi Intimi.
Essendo peraltro affatto rimarchevole, nella considerazione del nostro autore, una sua nota su di un certo impoverimento, in certe contrade della Comunità dei Credenti, di una siffatta attitudine conoscitiva, la quale ha finito con l’indurre taluni ricercatori musulmani a farsi insegnare la dottrina di Ibn Arabi da professori universitari occidentali, nella fattispecie inglesi e francesi, i peggiori a nostro avviso, portandoli ai più inverosimili travisamenti.
Ora la cosa è in primo luogo assai significativa del presente stato di debilitazione non diciamo certo degli studi universitari, quanto piuttosto della perdita d’elevatezza e trascendenza in seno alla Comunità dei Credenti nella stragrande maggioranza delle nazioni musulmane. Questo sotto riguardi apparentemente differenti. Dicevamo in primo luogo, del progredire disanimato del neopositivismo insulso e sterile delle università, specie anglosassoni.
Dall’altra parte, il progredire nefasto dell’immonda ondata wahabita e salafita, a cui fa da contraltare tutto un insieme di sedicenti confraternite sufi ridotte a mere buffonate, sovente prezzolate dall’oro della famiglia Saud, che Iddio la maledica e la sprofondi. Per poi blaterare all’occorrenza d’interiorità ed esteriorità, fatto salvo, per la cosiddetta esteriorità, un completo appiattimento sulle mene dei nemici d’Iddio Altissimo, sia magnificato ed esaltato, nella fattispecie sionisti, americani, inglesi, e sauditi.
Eccezione rimarchevole l’Iran della Rivoluzione islamica, con le sue propaggini, specie quelle libanesi ed irachene. Dove non solo, a dispetto di opposizioni anche viscerali, che coinvolsero persino l’Imam Ķomeynī, che Iddio ne esalti la stazione, anche all’indomani della vittoria della Rivoluzione, la conoscenza trascendente continua a fiorire, dove non solo la Rivoluzione Islamica è stata guidata precipuamente dalla corrente sapienziale sadriana d’interpretazione del Messaggio Rivelato e dell’eredità Vicaria.
Fiorendovi tuttora, gli studi sapienziali, nella fattispecie quelli su Ibn Arabi, sia nelle università, sia ancor di più nei centri d’insegnamento religioso, come presso i Maestri di “aķlāq”, di morale conoscitiva, od irfanica, dove esiste ancor oggi, essendovi in pieno sviluppo, tutta un’eredità sapienziale, sia dottrinale che attuativa. Godendovi gli uomini di conoscenza, gli ºārif, di grande credito e seguito presso tutti gli strati della popolazione, anche i più umili, del che chi scrive, che vive in Iran da vari anni, può rendere diretta testimonianza.
Dove va osservato che, con apparente stranezza, Ibn Arabi è osteggiato in Iran in particolare, oltre che dai letteralisti, anche da talune confraternite di “dervisci”, i sufi sciiti, che in Occidente si tenta di far passare menzogneramente per depositari dell’autentica spiritualità dei seguaci delle Genti della Famiglia del Nunzio divino. Il tutto a dispetto delle inevitabili pressioni, anche veementi, nel verso della secolarizzazione, che sta tentando di mettervi radice e pianta, dopo d’avere trionfato in quasi tutto il resto del mondo.
Ora dicevamo, che Sayyid Āštiyānī depreca giustamente l’assenza di studi e Maestri di conoscenza, specialmente in quell’Egitto che ne fu in passato uno dei depositari, patria di quel sommo Ibn Fāriď, la cui persona ed i cui versi sono assorbiti nella trascendenza, tanto da indurre taluni, come avevamo premesso, a finire con l’approdo sulle spiagge ingannatrici dell’Occidente secolarizzato, con le sue università neopositiviste fomentatrici di errori.
Dov’è che ci si darà a dire, com’è appunto rimarcato nello scritto in questione, che quanto tratteggiato da Ibn Arabi quanto ai depositari, vale a dire ai Fuşūş, alle Gemme, o Castoni della sapienza divina, non avrebbe nessun rilievo di fatto nelle vicende umane, trattandosi di mere finzioni mentali. Posizione per certi versi simile a quella del “neognostico” dualista Corbin, con la sua concezione della cosiddetta “ierostoria”, coinvolgente anche la persona dell’Atteso Ben Guidato, che Iddio Altissimo voglia affrettarcene la gioia.
Dove ci si dà ad asserire, fraintendendo il testo del Sacro Corano, che Nunzi come Noè, la pace su di lui, si sarebbero limitati alla negazione degli attributi divini, l’”apofasi”, ignorando od astenendosi dalla trasposizione, la “catafasi” che consente l’ascesa dal nostro mondo ai livelli superiori dell’essere. Asserendo inoltre l’assurdo, per cui Al Ĥallāj sarebbe stato un assertore dell’insediarsi nella sua natura umana della sostanza divina, una sorta d’“incarnazione” alla cristiana, se ci si riferisce alla natura individua umana, non al supposito divino, che vi si associa nella “communicatio sermonum”, l’arabo “ĥulūl”.
Ignorando forse trattarsi di un’assurdità, di cui Al-Ĥallāj non poteva essere ignaro, dato che ogni discesa divina, a smentita della stessa dottrina dell’incarnazione, dell’unione personale od ipostatica, presuppone tutti i livelli antecedenti dell’essere, dei quali anche s’approprierà esemplarmente in virtù grazie alla sua continenza eminenziale d’ogni mondo, attuata e non difettiva od in potenza, come per gli uomini ordinari, come afferma lo stesso Molla Sadra.
Questo senza dover negare che anche in Occidente non sono mancati studiosi seri, come Chittick e Corbin, quest’ultimo nonostante, come appunto dicevamo, tutte le sue fisime “neognostiche” e dualiste, che lo portano a separare, nel verso appunto della dualità, e non dell’unità, o meglio, dell’Identità Divina, i livelli dell’essere, riducendo l’Atteso Ben Guidato, e la religione tutta, ad una mera esistenza sottile ed immaginale, od addirittura larvale.
Non sono mancati dunque studiosi seri, capaci d’imparare dal mondo che studiavano, senza pretendere d’erigersene a freddi giudici indifferenti, dal basso della loro incompetenza. Tanto che ci è stato riferito che il Professor W. Chittick, seppure occidentale, seppure anglosassone, a dispetto delle tare del suo ambiente e della sua razza, avrebbe affermato la superiorità senza confronto di un Fayyiď Kašanī, genero e continuatore di Molla Sadra, rispetto a tutte le immaginazione vane ed insulse, se non addirittura infere, di un Einstein.
Ora gli errori suddetti sono dovuti ad una mancata conoscenza, sia pure la più elementare, della dottrina dei livelli dell’essere e dell’Unità ed Identità Divina, esposta da Ibn Arabi, dal punto di vista dell’essere, non certo delle rappresentazioni mentali, a dispetto della sua presenza e continuità, in primo luogo ispirata, nell’Occidente trascorso, da Parmenide, a Platone, a Plotino, a Scoto Eriugena, a Tommaso d’Aquino, a Bonaventura da Bagnoregio, a Duns Scoto.
La qual cosa introduce le confusioni e le cesure suddette da parte della maggioranza dei ricercatori occidentali, e di taluni musulmani, risolvibili solo nel senso della modulazione del profondersi dall’Essenza Divina, con i suoi aspetti di gradualità, rimarcati da Molla Sadra, di processione e trascendenza, d’affermazione e negazione, di “catafasi” ed “apofasi”, a procedere dall’Identità Suprema dell’Essere, com’è dall’intuizione trascendente.
Il tutto va riferito anche al rifiuto da parte dei più di costoro della missione divina di Muhammad, benedica Iddio lui e la sua Famiglia immacolata, rifiuto immancabilmente biasimato dal nostro autore, la qual cosa li rende i meno atti, com’ebbe ad osservare assai acutamente e correttamente Guénon, nella loro indifferenza alla realtà, nel loro positivismo kantiano e dubbio cartesiano, a darne un qualsivoglia giudizio degno di una qualche considerazione.
Si limitino dunque costoro, saremmo tentati di dire, a sezionare i loro cadaveri, come fanno i loro colleghi medici moderni, non certo la conoscenza trascendente, ad essi preclusa, come recita il Sacro Corano, II, 7, nell’attesa che questa “opera al nero”, di per sé stessa empia e fuorviante, la quale purtroppo ha oramai messo piede dappertutto, venga alla fine provvidenzialmente proibita ed annichilita dall’Atteso Ben Guidato. Come dice Gesù, la pace su di lui, nell’Evangelo, “i morti seppelliscano i loro morti”.
Dicevamo della dottrina dell’Identità Divina, con cui traduciamo il vocabolo arabo “Waĥdaħ”, essendo questo il punto e di partenza e di arrivo degli uomini di conoscenza realizzati, vale a dire, gli “ºārif”, a partire dal loro Maestro Massimo, Ibn Arabi. Ignorare questo punto, il quale rende possibile sia sotto il riguardo della dottrina, sia sotto quello della realizzazione di fatto, il comunicarsi della profusione divina dai livelli superiori dell’essere a quelli inferiori, può portare ai fraintendimenti più incresciosi.
L’Identità, a differenza dell’unità, prescinde da ogni qualsivoglia alterità, vale a dire, da un’altra identità, laddove invece l’unità potrà darsi, com’è noto, anche nel dominio meramente numerico, come una successione di simili, com’ebbe appunto a chiarirci personalmente il nostro Maestro di conoscenza Karīm Ĥaqīqī. Seppure essendo suscettibile di una trasposizione superiore, nel senso dell’Uno, dell’“En” di Plotino superessenziale, dell’Identità, com’è anche per il Bene platonico, pure superiore all’“essere che è” riflessivamente.
Plotino
In questa sede, facciamo riferimento come già dicevamo all’inizio, oltre che alla presente opera, anche alla magistrale introduzione di questo nostro medesimo autore alla Mişbāĥ dell’Imam Ķomeynī, essendovi in entrambe tratteggiata, nella seconda a modo di premessa, la dottrina dell’Identità Divina. Perché in quest’ultima opera, a differenza della sua introduzione a Qaysari, Sayyid Āštiyānī inizia la sua discussione proprio dal chiarimento della dottrina del livelli dell’essere a procedere dalla loro Scaturigine Prima in Divinis.
Dunque la Stazione Suprema dei livelli dell’essere sarà quella dell’Ipseità Celata, essendo il Suo esternarsi significativo e qualificativo quello dell’identità appunto, com’è rimarcato anche nella presente introduzione. Dov’è da osservarsi, che all’identità medesima può essere anche assegnato, per traslato, il senso superiore e Supremo non manifestato dei Penetrali dell’Occulto, donde Ne procede il qualificarsi primo, vale a dire, l’Essenza e l’Ipseità.
Questo a differenza dell’Imam Ķomeynī, il quale invece deduce tutto dall’Uno Trascendente, questo d’accordo e con la sura dell’Unità Divina nel Sacro Corano, e con gli assunti dei platonici, sia di Platone nel Parmenide, cui potrebbe essere aggiunto il Bene Superessenziale della Politeia, sia di Plotino. Laddove egli deriva dall’unità semplice le distinzioni esemplari attuative e qualificative dell’unicità, mentre Sayyid Āštiyānī deriva dall’identità sia l’unicità, sia l’unità sostanziale che in essa si riverbera identicamente.
Perché dunque tutto questo? Perché ignorarlo potrà dare luogo ai fraintendimenti più incresciosi, quali quelli suddetti, quanto ai livelli dell’essere, perché ignorare la funzione vicaria significa negare la mediazione, con le immaginazioni di un procedere primigenio dal basso. Sia quanto alla compresenza nel dominio della trascendenza dei due livelli legittimi, della negazione e dell’assimilazione, da riferissi il primo più propriamente all’Ipseità, il secondo alla sua scaturigine qualificativa, scaturigine esemplare del mondo creato, quantunque siano entrambe in entrambe.
Così come per l’argomento dell’“incarnazione”, che a rigore sarebbe l’inverso, cioè la sussistenza immediata della natura individua umana mercé del Supposito Divino. Essendo invece l’Ipseità Essenziale scevra, in quanto Stazione Suprema, da ogni sussistenza o supposito, e da ogni relazione personale d’origine nella guisa trinitaria, a produrre ab inizio l’Uomo Perfetto, nel suo accentrarsi i vari livelli discendenti dell’essere, compreso quello della cosiddetta “trinità”, in realtà il configurarsi vicario della luce muhammadica.
Con la pretesa di prescindere dall’ascesa assimilativa, come dalla discesa attuativa, in realtà una ricapitolazione complessiva esemplare da riferirsi al mondo dei nomi divini, senza nessun nesso con il Livello Supremo dell’Ipseità, che non sia quello di una mera estinzione, o di una mera identificazione, dovuta al negarsi della partecipazione debilitativa esemplare al mondo dei nomi divini, all’origine dell’indebolimento dell’essere esistenziale.
Ora tutto questo conduce, per la suddetta separazione, anche ad un’assimilazione sfrenata, al dio uomo, “che era un uomo come noi”, come recitano taluni, non più all’uomo che procede da Iddio, Ne sia esaltato l’Essere, ed a lui fa ritorno, S. C., II, 156, con tutte le ricadute incresciose che un assunto siffatto avrà nelle vicende dell’Occidente moderno prima, poi del mondo intero. Con un alternarsi affatto scisso di assimilazione e trascendenza sfrenate, senza che si sia capaci di ravvisarne la radice e la concordia.
Pur essendo la lacuna e la frattura in parte colmata dalla dottrina del cristianesimo orientale, nella fattispecie nella corrente palamita, delle cosiddette “energie” divine increate, vale a dire, nella sapienza islamica, i Suoi nomi ed i Suoi atti, prodotte prima di ogni “tempo”, in senso o corporeo, oppure traslato nel verso dei puri domini sovraformali “angelici”. Mondo orientale che sarà coinvolto assai più tardi dai disordini dell’Occidente modernizzatore.
Questa è la dottrina ispirata, espressa o palesemente o copertamente dai grandi uomini di conoscenza, da Parmenide, Platone, e Plotino, a Tommaso d’Aquino, dal Maestro Sommo Ibn Arabi, al Fastigio dei Deificati Molla Sadra, sino a Mirza Qomšey, all’Imam Ķomeynī, a Sayyid Āštiyānī, in questo nostro tempo. È chiaro che una dottrina siffatta sarà tale dell’unità e dell’identità dell’essere a tutti quanto i suoi livelli, a sfatare tutte la varie immaginazioni ed illazioni vane che sono state propalate a questo medesimo riguardo.
Questo in ragione del riverberarsi della Luce Suprema in tutti i mondi, S.C., XXIOV, 35, quali che siano, sovraformali “angelici”, immaginali superiori, immaginali inferiori, e corporei, anche in senso traslato concomitante, ed inferi. Ora è anche rimarchevole a questo medesimo riguardo, che l’Identità Suprema, com’è sottolineato da Sayyid Āštiyānī nella sua introduzione alla Mişbāĥ dell’Imam Ķomeynī, avrà come sua prima processione una realtà prima prodotta, partecipe al grado più alto della Sua Identità, od Unità Suprema.
Nel senso di un insieme di qualificazioni, quivi prima delle determinatezze successive, in arabo ºayn, dell’universo, creato od increato che sia. Vale a dire, a questo livello superiore, creato in un verso, o prodotto, ed increato in un altro verso, identiche tra loro seppure nelle loro distinzione non separativa, così come anche identiche a quella sostanza primigenia che le pervade. Fatto quest’ultimo, rimarcato anche da Tommaso d’Aquino, e da Molla Sadra, che lo traspone legittimamente anche all’Identità Suprema dell’Essere.
È qui da rimarcare, contro certe scorrette escogitazioni corbiniane, vedi la sua introduzione ai Mašāºir di Molla Sadra, che si tratta di alcunché di compiuto, semplicemente ed infinitamente, a prescindere dal livello superiore d’infinità, non suscettibile pertanto di un compimento ulteriore, che sarebbe in ogni caso meramente risolutivo o reduplicativo. Senza nessuna lacuna nei confronti del Livello Supremo, nel confronti del Quale, “Luce si luce”, S.C., XXIV, 35, sarà come a contatto, in arabo “ºalā”, “sopra” con contatto, non “fawqa”, senza contatto.
Nessuna soluzione di continuità dunque, siccome di un’identità successiva che non proceda da nessuna intermediazione, tanto meno del vuoto, insussistente a qualsivoglia livello di realtà, contro le immaginazioni fallaci, corrotte, ed insipienti della scienza moderna d’Occidente. Tanto che, al di là di questo livello di distinzioni identicamente semplici, non vi sarà se non l’identità Suprema dell’essere, con la sua trasposizione degli attributi divini, “i Nomi Più Belli”, S.C., LIX, 24, XX, 8, XVII, 110, identici alla Luce Vicaria.
Contro le inaudite assurdità corbiniane, che si permette di accusare gli assertori di questo compimento di non si sa bene quale “idolatria metafisica”, con una contradictio in adiecto fondata sull’accozzamento di un insieme di vocaboli di radice ellenica, di non immediata intelligibilità, com’è vizio comune della lingua francese. Senza rendersi conto di precipitare nella voragine dell’adorazione di simulacri corporei, “idolatria fisica”, del mondo della generazione e corruzione, con le sue condizioni limitative, che egli finisce col trasporre disinvoltamente sino ai livelli più elevati della trascendenza.
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