Viaggio nel Libano del Sud all’indomani della Liberazione
Il 25 maggio 1999, dopo quasi un ventennio di lotte, sacrifici, feriti e martiri, la Resistenza Islamica di Hizbullah riusciva a liberare la quasi totalità del Sud del Libano dall’occupazione israeliana. Uno dei nostri fratelli italiani, proprio qualche settimana dopo, si recava in viaggio in Libano. Quella che pubblichiamo è la sua testimonianza, che ci rende partecipi dell’atmosfera di quei giorni, dopo una vittoria storica della Ummah Islamica contro il nemico sionista. Secondo le parole stesse dell’autore “queste brevi note vogliono essere un nostro modesto omaggio al piccolo, grande popolo del Libano del Sud, ed a tutti i fratelli musulmani sciiti libanesi, che hanno suscitato l’ammirazione di tutti gli uomini liberi e nobili, con gesta che hanno pochi precedenti nelle vicende umane”.
Nel Nome d’Iddio Clemente e Misericodioso
Partiamo da Beirut il pomeriggio di Sabato 2 giugno dell’anno 2000, all’indomani della liberazione del Sud del Libano dall’occupazione sionista, con l’automobile del fratello Abdu-r-Rahaman, la famiglia del quale è appunto originaria del Sud, in compagnia della madre, di una sua sorella, della moglie Abir, e del figlioletto di 10 mesi Hadi. Attraversiamo i quartieri meridionali della città, l’oramai celebre suburbio e roccaforte sciita di Beirut.
Imbocchiamo la moderna autostrada, del tutto simile alle nostre, la quale termina a Sidone, l’antica città stato dei Fenici, procedendo lungo la costa tra paesaggi del tutto simili a quelli dell’Italia meridionale, con floridi oliveti ed agrumeti, non fosse per le estese piantagioni di banani. Attraversiamo Sidone, città celebre nelle vicende e nelle leggende degli antichi, patria della Regina Didone, la fondatrice di Cartagine, evocatrice in noi di reminiscenze erudite.
Incontriamo qualche posto di blocco dell’esercito libanese, ed una sola postazione siriana, ma non veniamo mai fermati. Dappertutto sventolano festose le bandiere Hizbullah, com’era nei quartieri meridionali di Beirut, assieme a qualche vessillo di Amal. Notiamo sul lungomare un eloquente manifesto, che mette in ridicolo la recente fuga sionista dal Libano del Sud: nel primo pannello, un militare israeliano, con faccia feroce, annunzia che l’occupazione del Sud continuerà, nel secondo, con la tesata rotta, ne annunzia la fine.
Tra Sidone e Tiro, c’imbattiamo in una fila di macchine, dovuta a quello che a prima vista sembrerebbe un posto di blocco di militari, ma che invece si rivela in realtà un punto di raccolta di fondi a favore del Movimento Hizbullah, simile a quelli già visti da noi a Beirut. I militanti incaricati della colletta non sono armati. Quasi tutte le auto si fermano spontaneamente per versare la loro offerta, e così facciamo anche noi, con nostra piena soddisfazione.
Poco prima di Tiro, c’inoltriamo nell’interno del territorio. Il paesaggio è dolce ed ameno, le campagne sono verdi, e densamente popolate. Ci troviamo nel cuore del Jabalu-l-Amal, contrada consacrata secondo la tradizione al palesamento del Mahdi, che Iddio Altissimo ce ne affretti la gioia, dove si radunerà un gruppo dei suoi seguaci, già oggi luogo di alcuni dei più efferati crimini sionisti, della loro vergogna, della loro disfatta, della loro fuga.
Ci sembra veramente un miracolo, data l’assenza di foreste e di asperità del terreno, com’è che i combattenti Hizbullah siano riusciti per anni a sottrarsi all’azione micidiale di una delle aviazioni più potenti e sofisticate del mondo, ribattendo colpo su colpo ad una furia omicida, che si rifaceva vigliaccamente sulla popolazione civile dei suoi clamorosi insuccessi militari sul campo di battaglia. È così che Iddio ha voluto, sia magnificato ed esaltato.
Iniziano adesso i posti di blocco dell’Unifil, le truppe delle Nazioni Unite, che avevamo già visto sfilare al nostro arrivo all’aeroporto di Beirut, di stanza nel Libano del Sud, al confine con il sedicente Stato d’Israele, affidati a soldati ghanesi, indiani, irlandesi, il cui tricolore ce li fa scambiare in un primo tempo per italiani, ma non veniamo mai fermati: la nostra macchina rallenta un poco, qualche scambio di sorrisi e di cenni di saluto, ed andiamo avanti.
Il fratello Abdu-r-Rahamn mi dice che i rapporti dei soldati delle Nazioni Unite con la popolazione locale sono buoni. Le bandiere Hizbullah si moltiplicano strada facendo, compaiono numerosi i ritratti dell’Imam Khomeyni, che Iddio Altissimo ne esalti il rango, dell’Imam Khamenei, di Sayyid Hasan Nasrallah, di Sayyid Abbas al-Mussawi, uno dei campioni più puri della Resistenza, trucidato a tradimento dai sionisti con tutta la sua famiglia in un attacco aereo.
C’imbattiamo ora in due vecchi pezzi d’artiglieria ed in un carro armato, sovrastati da selve di bandiere Hizbullah, verosimilmente miseri resti dell’ingloriosa avventura dell’‘82, e della prima ritirata sionista dal Libano, dato che ci troviamo qui ancora al di qua della famigerata “striscia di sicurezza” imposta dagli scherani israeliani. È come ci trovassimo al cospetto di una rappresentazione materializzata di tutte quelle terribili vicende.
Manifesti eloquenti mostrano qua e là la stella a sei punte, in realtà un segno tradizionale usurpato dai sionisti, mandata in frantumi da una pioggia di razzi: immagine espressiva della disfatta, e della vergogna, e della fuga ingloriosa dei sionisti. Notiamo su di un colle un edificio in cemento armato, una villa in costruzione sventata dalle bombe israeliane. Chiediamo al fratello Abdu-r-Rahaman, con lepidezza evidente, se si trattasse di una postazione per il lancio di razzi sugli israeliani, certo a qualcuno erano saltati i nervi.
Un primo posto di blocco smantellato, con sbarre spezzate e casematte fatte saltare in aria, non sappiamo se dagli Hizbullah, oppure dai sionisti o dai loro collaborazionisti in ritirata, ci annunzia che stiamo oramai entrando nell’ex fascia di sicurezza, oggi completamente liberata. Mi dicono che il posto di blocco era affidato ai tristemente famosi mercenari collaborazionisti del famigerato Maggiore Lahad, costituiti dagli israeliani all’indomani dell’invasione dell’‘82. In realtà i posti di blocco erano due, essendosi i collaborazionisti già ritirati dal primo sotto la crescente pressione degli Hizbullah.
Arriviamo ad un ameno laghetto dalle verdi sponde e dalle acque limpide, ai piedi di una collina. Qui fa bella mostra di sé un carro armato abbandonato nella fuga israeliana, sormontato anch’esso dalle bandiere Hizbullah, e dai ritratti dell’Imam Khomeyni e dell’Imam Khamenei. Un gruppo di ragazzini si arrampica per gioco, senza nessuna paura, su questo mostro, ridotto oramai ad innocuo, inglorioso vestigio della barbarie e della vergogna sionista.
Arriviamo al cimitero di Bint Jubayl, luogo d’origine della famiglia di Abdu-r-Rahman, centro principale della resistenza Hizbullah. Entriamo quindi nell’abitato di Bint Jubayl, la “Figlia dei Monti”.
La popolazione è numerosa, quasi tutte famiglie che vi hanno fatto ritorno all’indomani della ritirata sionista, l’aria è serena e festosa, senza nessuna ombra di paura. Il centro abitato è circondato da campagne verdi ed amene, fittamente coltivate e densamente popolate da questa gente civilissima, anche se qua e là qualche campo incolto, ed alcuni edifici abbandonati ricordano l’orrore dei lunghi anni dell’occupazione israeliana, finita come un incubo.
Gli olivi, i mandorli, gli oleandri, i fichi d’india, gli alberi di noce mi rammentano ancora i familiari paesaggi dell’Italia del Sud. Le case sono decorose, in buona parte nuove, anche se non mancano le vecchie costruzioni di tufo, peculiari di questi luoghi; come anche in Campania, in Sicilia, nel Lazio. Su molte di esse, sventolano le bandiere Hizbullah e libanesi, segno festante della recente, grande vittoria riportata da popolo libanese sul sedicente “Stato d’Israele”, a dispetto di tutto il suo strapotere militare.
Nel centro dell’abitato, quello che era il comando dei miliziani di Lahad, è stato trasformato in una sede Hizbullah, e nel bel mezzo della piazza principale fa bella mostra di sé un pezzo d’artiglieria sovrastato da bandiere, certo un trofeo di guerra, abbandonato dai sionisti in fuga. Ma non notiamo nessun uomo armato. Poco oltre l’abitato, a poche centinaia di metri, una linea di basse colline c’impedisce la vista della Palestina occupata, anch’essa vicinissima.
Percorriamo la strada che va verso il confine, incrociando tante macchine, tanta gente, in un clima anche qui festoso e sereno, senza nessuna traccia di paura. La strada dapprima costeggia in salita la linea delle colline, per poi superarla e scendere sull’altro versante, costeggiata da due file ininterrotte di bandiere Hizbullah, inframmezzate dai ritratti dell’Imam Khomeyni, dell‘Imam Khamenei, e di Sayyid Hasan Nasrallah, nell’ultimo tratto proprio in faccia ai sionisti.
Ai nostri occhi si spalanca, non senza emozione, la vista della Palestina Occupata. Un ampio avvallamento disabitato, con qualche scarso campo coltivato, si distende ai piedi di una seconda fila di colline, al centro delle quali spicca, completamente isolato, un insediamento sionista. Non notiamo nessun altro segno di popolamento nelle vicinanze. Solo assai in lontananza, verso sud ovest, si distinguono a malapena altri due insediamenti più grandi, e null’altro.
All’orizzonte, a meno di una decina di chilometri davanti a noi, alcuni grandi piloni, forse tralicci dell’alta tensione, il che però sarebbe strano in un Territorio pressoché disabitato, o forse chissà, impianti per lo spionaggio elettronico. In direzione del mare, un’ampia foresta si stende al di là del confine, forse una di quelle molte piantate dai sionisti sui resti del villaggi palestinesi distrutti nel 1948. Il luoghi sono verdi ed ameni, il paesaggio grandioso.
Il sole sta tramontando ad Occidente, in quello che per gli europei è il Mare di Levante. Non notiamo nessun segno di vita al di là del confine, nessuna traccia di mezzi o postazioni militari, nessun lume acceso, a dispetto dell’oscurità incipiente, tranne due forti luci, una sulla linea delle colline, ed un’altra assai più vicina e più intensa, in movimento, ai margini di un campo coltivato nella conca ai nostri piedi, forse i fari di veicoli militari o di blindati sionisti.
Notiamo come la popolazione sia molto meno densa al di là del confine, e come che l’insediamento sionista che sta davanti ai nostri occhi, una serie di casette a schiera in cemento armato, abbia l’aspetto di un’astrazione artificiale, come di un incubo geometrico di linee che s’incontrano ad angolo retto, inesistenti in natura, di una follia razionalizzatrice, parto assurdo, immondo e mostruoso di un’immane furia distruttrice. E che le cose stiano così, ce lo dimostrano le stesse recenti, note vicende, dall’inizio del dominio inglese ad oggi.
Nulla che abbia neppure lontanamente a che vedere con l’ampio e profondo radicamento umano che risalta gli occhi dall’altra parte, al di qua del confine, dove noi ci troviamo, nel Jabal Amal, i “monti dell’operosità” appunto, radicamento il quale verosimilmente contraddistingueva anche il territorio della vecchia Palestina, prima che sulla sua popolazione inerme si scatenasse la furia omicida sionista, con i risultati che sono ora qui davanti ai nostri occhi.
Abbiamo la netta percezione, che si tratti in definitiva di una situazione assurda, di un’oppressione innaturale, di un equilibrio precario ed iniquo, prossimo a d essere spazzato via, a Iddio piacendo, dal trionfo della giustizia e della concordia, che sarà il trionfo dell’essere sul nulla, a dispetto di tutto lo strapotere apparente di chi l’ha imposto. Ed i segni premonitori di tutto questo certo non mancano, qui ed altrove, chi ha occhi per vedere, ebbene veda.
Al di qual del confine sono ben visibili numerose le bandiere Hizbullah, gialle, verdi, rosse, e nere, colori significanti la pace, la vita e la vittoria, il lutto ed il sangue dei caduti, con le effigi delle Guide spirituali. Due di questi vessilli sventolano in posizione alquanto avanzata, molto al di là della strada; la seconda, appena visibile un paio di chilometri a sud ovest, si trova già sul territorio della Palestina Occupata, mi assicura il fratello Abu-r-Rahman.
Pegno di vittoria quel vessillo, a significare l’impegno a continuare incessantemente la lotta, sino alla disfatta completa dei sionisti, alla decolonizzazione di tutta la Palestina, ed alla punizione esemplare dei responsabili dei vari crimini, delle violenze, degli omicidi, e delle stragi, con l’aiuto d’Iddio Altissimo, sia magnificato ed esaltato, e nell’invocazione e nell’attesa della manifestazione del Mahdi, del Ben Guidato, che Iddio ce ne affretti la gioia.
Tutt’attorno a noi, sino quasi alla linea del confine, gente serena e festante, macchine che vanno e vengono, e nota di lepidezza assai eloquente, un affollato campo di calcio, ben visibile proprio in faccia ai sionisti. Dall’altra parte, soltanto buio, silenzio, paura. Torniamo in paese, ed andiamo a pregare nella moschea, gremita di fedeli. Notiamo una chiesa cristiana, intatta. La circostanza sbugiarda la disinformazione occidentale, che aveva detto insistentemente di violenze contro i cristiani all’indomani della liberazione.
Il fratello che mi accompagna, mi dice che la grande maggioranza della popolazione del sud è musulmana, nella loro quasi totalità musulmani sciiti, ma non mancano gruppi di cristiani, sempre vissuti in pace in mezzo a loro, com’è peraltro sempre stato in passato in tutto il Vicino Oriente, sino a che i sionisti non hanno tentato di fare di tutto per dividere le due comunità. Ci viene comunque rammentato che, ad onor del vero, oltre la metà dei mercenari collaborazionisti erano musulmani, anche se i capi erano tutti cristiani.
E posso per parte mia testimoniare, di non avere mai colto nei fratelli musulmani libanesi nessun minimo cenno di odio od avversione nei confronti dei cristiani, a dispetto delle tristi vicende recenti, al contrario di quanto succede invece per lo più qui da noi in Occidente. Il che potrebbe servire, se se ne sapesse qualcosa, da lezione di convivenza e rispetto reciproco, anche se purtroppo non è così, per la piaga della disinformazione imperante.
Dopo la preghiera comune, andiamo a cenare nella casa di Sukna, sorella di Abdu-r-Rahman, e di suo marito Alì, entrambi militanti Hizbullah, tornati a vivere nel sud con i loro due bambini subito all’indomani della liberazione. Sukna è rimasta rinchiusa per ben quattro anni, senza nessuna prova a suo carico e senza nessun processo, nelle oramai famigerate carceri sioniste, dov’è stata ripetutamente torturata. Altro che “habeas corpus”! Altro che diritti civili!
Suo fratello Selim, anch’egli militante Hizbullah, che è venuto pure a farci visita, vi è stato invece detenuto per otto anni! Miracoli questi della “democrazia” e di “diritti umani” riservati, a quanto è dato di appurare, solamente al sedicente “Popolo Eletto”, ai suoi manutengoli, ed ai vari servi abietti dei servi di Giuda, Giuda Iscariota, e non Taddeo, o Maccabeo, od il figlio di Giacobbe, antenato di Davide, Salomone e Gesù, la pace su tutti loro.
La casa di campagna nella quale soggiorniamo, e nella quale pernotteremo, si trova poco al di fuori del centro abitato, proprio ai piedi della linea di colline che ci dividono dalla Palestina occupata, a poche centinaia di metri da quegli stessi omicidi e torturatori sionisti, che per quasi un ventennio hanno fatto scempio di quest’amena e popolosa contrada, e della sua civilissima popolazione. Ma non c’è tra noi nessuna paura, nessun’apprensione, anche se Selim ed Alì, per giusta misura prudenziale, sono armati.
Laggiù più in basso, nella conca di Bint Jubayl, brillano a centinaia le luci delle case, quelle medesime case sulle quali, quand’era ancora giorno, avevamo visto sventolare numerose le bandiere Hizbullah e libanesi. Ho la netta impressione che i truculenti sionisti, nonostante le loro ripetute minacce e le loro facce feroci, non facciano più paura a nessuno da queste parti, neppure ai bambini. Il cielo incantevole, limpidissimo e trapunto di stelle, è lo stesso delle notti d’estate di Calabria e di Sicilia, l’aria è fresca e pura.
L’indomani, l’Ayatullah Sayyid Muhammad Husayn Fadlallah, Guida spirituale degli sciiti libanesi, anch’egli originario del sud, verrà in visita a Bint Jubayl. La sua visita fa seguito a quella di Sayyid Hasan Nasrallah, Capo degli Hizbullah, che una folla immensa ed entusiasta ha accolto da trionfatore in questi stessi luoghi all’indomani della vittoria e della liberazione. Il mattino del giorno dopo, di buon’ora, ci avviamo verso l’abitato.
Notiamo che il servizio d’ordine è assicurato da pochi poliziotti libanesi, e da centinaia di militanti Hizbullah bene armati, il quali si sono come materializzati all’improvviso dal nulla, dato che il giorno prima non avevamo notato un solo militante armato in tutta la contrada. Questa circostanza singolare ci dà tutta la misura del radicamento popolare del movimento, che gli consente una vigilanza capillare, ed una padronanza assoluta del territorio.
Ci rendiamo perfettamente conto di come, in questi diciotto lunghi anni d’occupazione, non sia stato possibile ai sionisti, in tutta la loro ferocia e mancanza di scrupoli qualsivoglia, sia pure in un crescendo sanguinario di aggressioni, di stragi, di orrori vari, prenderne in mano le redini, né tanto meno la cosa sarebbe possibile per l’esercito regolare libanese o siriano, o per le truppe delle Nazioni Unite, oppure per un qualsiasi altro esercito regolare.
Il fatto, ce ne rendiamo perfettamente conto toccando con mano e rendendone testimonianza, è che in tutta l’ex fascia di sicurezza, in tutto il Jabal Amal, in tutto il Libano del Sud, ciascun sincero credente, ciascun seguace della Famiglia del Nunzio divino è, almeno potenzialmente, un mujahid, un combattente sulla via d’Iddio Altissimo, sia magnificato ed esaltato, pronto a sacrificarsi seguendo l’esempio di Husayn, la pace su di lui, e dei suoi seguaci.
La sua arma principale è la fede, il suo pegno la sottomissione ad Iddio Altissimo, sia magnificato ed esaltato. Ogni caduto sarà un campione da onorare, un esempio da imitare, ed una vittima a cui render giustizia, ma pur sempre un uomo normale, al quale la fede e la grazia divina avranno concesso il privilegio eccelso di condividere il destino sublime di quelli che si sacrificarono nella pianura di Karbala al fianco di Husayn, la pace su di lui.
Arriviamo in paese, dove a migliaia i fedeli, uomini, donne, e bambini, si stanno radunando attorno al luogo dove Fadlallah terrà il suo discorso. Grande è il fervore, ma pur sempre assai misurato e dignitoso, com’è che abbiamo sempre avuto modo di notare nel civilissimo popolo libanese. Prima della riunione, mi viene presentato un giovane, il quale era stato liberato dalla prigionia all’indomani della fuga dei sionisti e dei loro manutengoli.
Costui era rimasto per ben diciotto anni, mi dicono che si tratta di un triste primato, informarnelo famigerata prigione della fascia di sicurezza, dei cui orrori qualcosa comincia a trapelare anche in Occidente. Al momento della liberazione, vi erano ancora rinchiusi in condizioni inumane 140 detenuti, che i sionisti non hanno o potuto o voluto deportare nel territorio della Palestina Occupata, dove peraltro sono ancora trattenuti in prigionia molti cittadini libanesi.
Arriva nel frattempo la macchina di Fadlallah che, tra l’entusiasmo generale, riesce ad entrare nell’istituto d’insegnamento dove s’intratterrà. Dopo gli interventi preliminari di vari oratori, egli inizia alfine il suo discorso, dicendo del valore sublime del sangue dei caduti, e della necessità di non abbassare la guardia, ammonendo i combattenti musulmani a non consegnare le loro armi a chicchessia, argomento che egli aveva peraltro già affrontato nel corso del suo recente sermone della preghiera del Venerdì a Beirut.
Prende quindi la parola Nabil Qawyus, responsabile Hizbullah per il fronte sud, che rende omaggio a Fadlallah. Entrambi esaltano la figura dell’Imam Khomeyni, richiamandosi alla sua guida ed al suo magistero. Al termine dell’adunanza, andiamo a recitare la preghiera del mezzogiorno, guidata da Fadlallah, in moschea, dove a stento, tra la folla strabocchevole, riusciamo a trovare un angolo nel quale prosternarci. Nel pomeriggio, riprendiamo la strada per Beirut.
Riattraversando l’ex fascia di sicurezza, ben al di là dei suoi limiti meridionali, vari chilometri più a nord, seguendo un altro tragitto più interno, diverso da quello dell’andata, c’imbattiamo in un cartello indicatore di località, sul quale compare il nome tristemente famoso di Qana, destinato a perpetuare nel mondo, marchio perenne d’infamia, la memoria e la condanna della barbarie e della viltà sioniste. Nulla di nuovo sotto il sole peraltro.
Al posto delle raccapriccianti immagini dei numerosi bambini assassinati da Israele a Qana, preferiamo pubblicare questa foto che mostra la commozione e dolore di due giornalisti che accorsero sul posto
Quello di Qana è stato uno dei tanti eccidi perpetrati dagli israeliani contro la popolazione civile libanese, neppure dei più sanguinosi, ma per tutta una serie di circostanze esso è divenuto il vessillo stesso della loro ferocia, della loro simulazione, della loro viltà. Siamo ben al di là dell’ex fascia di sicurezza, molto lontani oramai dal confine con la Palestina Occupata, siamo dunque certi che nessun razzo o colpo d’artiglieria potrebbe raggiungerlo da qui.
I mezzi d’informazione occidentali dissero che si trattò di un errore da parte sionista, che avrebbero colpito con la loro artiglieria di terra, piuttosto imprecisa, un campo di rifugiati posto sotto la protezione delle Nazioni Unite, invece di una vicina postazione di razzi che, facendosene scudo, colpiva le loro posizioni militari ed i loro insediamenti al di qua ed al di là del confine, libanese.
Lo ripetiamo, a nostro modesto avviso, nessun razzo o proiettile di grosso calibro potrebbe raggiungere il confine o la fascia di sicurezza da questa località, che ci sembra ben fuori della portata dell’artiglieria avversaria. La cosa ci meraviglia non poco, perché sul triste evento, seppur avendo avuto sempre a suo riguardo i miei dubbi più che legittimi, non avevo peraltro mai avuto informazioni minute. Ne chiedo pertanto ragguaglio al fratello che mi accompagna.
Ed infatti Abdu-r-Rahman mi conferma, che si trattò di un’azione di precisione dell’aviazione nemica, di un atto di terrore premeditato, privo di ogni giustificazione militare, di un crimine deliberato contro civili inermi, privi della fortuna d’essere parte del Popolo Eletto, o dei suoi servi, o dei servi dei suoi servi. Crimine compiuto dagli israeliani per rivalersi dei loro clamorosi, ripetuti insuccessi sul campo di battaglia, com’è purtroppo sovente avvenuto qui nel Libano del Sud, sotto lo sguardo benevolo dei suoi protettori d’Occidente.
Ed il responsabile di questo, come di tante altre stragi ed atti di terrore, il criminale di guerra e di pace Perez, se ne va in giro per il mondo, con le sue fattezze luciferine, e la sua inquietante voce cavernosa, a ciarlare di pace, sicurezza, convivenza tra i popoli! Miracoli della disinformazione e delle complicità internazionali! Ma dei suoi delitti dovrà rendere conto all’Altissimo nell’altra vita, e chissà, presto forse anche in questa, se Iddio vorrà.
Raggiungiamo la costa all’altezza dell’antica Tiro, avviandoci poi verso Beirut. È il 25 Giugno dell’anno 2000, Domenica, e Mercoledì conto di ripartire per l’Italia. Queste brevi note vogliono essere un nostro modesto omaggio al piccolo, grande popolo del Libano del Sud, ed a tutti i fratelli musulmani sciiti libanesi, che hanno suscitato l’ammirazione di tutti gli uomini liberi e nobili, con gesta che hanno pochi precedenti nelle vicende umane.
Fratelli che, con ben pochi mezzi materiali, ma armati innanzitutto della fede nel Dio Uno, che sia magnificato ed esaltato, e della sottomissione alla Sua volontà, hanno saputo, per Sua grazia, nonostante l’assoluta sproporzione a loro sfavore delle forze in campo, respingere l’aggressione spietata di uno dei più potenti eserciti del mondo, sorretto da una rete internazionale di complicità propagandistiche, pubbliche, militari, e finanziarie senza pari.
Ringrazio Iddio Onnipotente, eccelsa Ne sia la lode, d’essere stato testimone oculare della loro, della Sua vittoria, che è stata certo un Suo dono, largito soprattutto grazie all’intercessione dell’Imam Mahdi, dell’Atteso Ben Guidato, nella prefigurazione del suo palesamento glorioso, che Iddio Altissimo voglia affrettarcene la gioia. Mai potrò dimenticare quelle immagini, né mai potrò fare a meno di sperare in meglio, a Iddio piacendo.
Chissà che Iddio Altissimo non mi conceda d’essere qui di nuovo, e presto, se Egli vorrà, a festeggiare assieme ai fratelli libanesi la liberazione di quella santa terra di Palestina, terra consacrata a Lui ed all’Islam, che ho intravisto con emozione dai confini del Jabal-Amal. Chissà che la manifestazione dell’Atteso, chi Egli voglia affrettarcene la gioia, a cui esso è consacrato, non sia vicina, anzi prossima! Ma Iddio, sia magnificato ed esaltato, ne sa di più.
“Ed abbiamo fatto del popolo che era oppresso l’erede degli orienti e degli occidenti della terra che abbiamo benedetta”, Sacro Corano, VII, 137.
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