Scipione Cicala, Ammiraglio dell’Impero Ottomano

SCIPIONE CICALA – SINAN YUSUF CIGALAZADE

MESSINA 1544 – DIYARBAKIR 1606

 

Nella prima metà del XVI° secolo si trasferiva a Messina la nobile famiglia genovese dei Cicala. Il visconte Cicala, capitano di mare, esercitava come altri nobili italiani, in proprio o per conto del governo spagnolo, la pirateria, e il porto di Messina per la sua posizione nel Mediterraneo ben si confaceva allo scopo. Qui sposava una giovane donna, di nome Lucrezia, originaria della Dalmazia, di nazionalità turca e secondo alcuni di fede islamica. Ebbero diversi figli, fra i quali Scipione, secondogenito della famiglia, nato presumibilmente nell’anno 1544. Scipione veniva alla luce nella Sicilia del XVI° secolo, una terra di frontiera ricca di storie di eruditi, marinai e corsari. Il suo destino doveva però evolversi in modo molto diverso dai fratelli.

 

Mentre viaggiava con il padre alla volta della Spagna, la loro nave venne assalita presso le Egadi dai corsari barbareschi; padre e figlio vennero catturati e condotti a Tripoli e da lì a Istanbul, dove giunsero il 7 settembre del 1561. Contrastanti le notizie sulla sorte del visconte; secondo alcune fonti morì in prigionia, per altri fu riscattato e tornò a Messina. Scipione, convertitosi all’Islam, entrò nel serraglio, dove iniziò la sua educazione ed un percorso di studi. Nel 1573 ricevette il titolo di Kapigi Pascià dei Giannizzeri, e cominciò la sua carriera assumendo il nome di Yusuf Sinan Cigala-Zade. Il mantenimento del cognome paterno (Zade significa “figlio…”) esprimeva la ferma volontà di ricordare il legame con la famiglia, la terra e la nobiltà delle origini. Sinan Pascià sottolineava perciò anche col nome l’eccezionalità del proprio destino.

 

Nel 1574 venne incaricato di accompagnare Pietro, fratello del voivoda di Valacchia Alessandro, in Moldavia e di installarlo al posto del destituito Jon Voda. Si trovò a fronteggiare una ribellione di vaste proporzioni e, dopo alterne vicende, riuscì a pacificare il territorio. Tornato a Istanbul, la brusca destituzione dell’Agà dei giannizzeri, incapace di frenare le loro turbolenze, assegnava al Cicala l’ambita carica di Kapì Agà. La sua affermazione si consolidava sposando una figlia dell’influente Ahmed Pascià. La nonna materna della moglie era l’unica figlia di Solimano e vedova del ricchissimo Rustem Pascià. Nel 1585 è in Oriente, combatte in varie battaglie contro i persiani, è presente alla battaglia di Van, dove il generalissimo turco Osman Pascià, ferito a morte, sul punto di spirare, gli avrebbe consegnato il “sigillo”, simbolo del comando supremo.

 

In seguito sovrintende a lavori di fortificazione nella zona di Van e resiste all’assedio di Tabriz.

 

In questo periodo moriva la moglie Saliha. Egli ritornava ad Istanbul e sposava in seguito la sorella minore della moglie defunta, riuscendo con questo matrimonio a non perdere gli appoggi di cui godeva presso la corte e il favore del potente clan familiare.

 

La pace con la Persia del 1590 non lasciava il Cicala inattivo; nominato comandante delle truppe dislocate in Georgia, controllava abilmente la situazione, sedando i malcontenti. Nel 1591 arrivò l’ambita carica di “capitano del mare”; Sinan Cigala-Zade veniva nominato Kapudan Pascià ed, ammesso nella più alta gerarchia dell’Impero Ottomano, partecipava alle riunioni del Diwan e alla amministrazione della giustizia. Maggiore del prestigio era il potere reale insito nella carica: ammiraglio della flotta ottomana, responsabile dell’Arsenale e, come precisa il “bailo” veneziano Matteo Zane, “beglierbei dell’isole, dell’arcipelago e delle marine”. Iniziava un periodo di intensa attività nel Mediterraneo, soprattutto in funzione antiveneziana: scontri navali ed attacchi terrestri furono segnalati intorno a Malta, Candia, e in Italia meridionale. Le sue navi si spinsero verso Capri e Sorrento e persino nel golfo di Napoli. Nel 1592 si dirigeva verso Valona, sfiorava Corfù e Zante e sfidava, con appena tredici galee, l’armata marittima della Serenissima, che si guardava bene dall’ingaggiare battaglia. In questo contesto, non stupisce l’allarme che pervase la diplomazia veneta sempre attenta nel valutare strategie ed alleanze perniciose per la repubblica adriatica: non passò inosservata la notizia che il fratello minore Carlo Cicala, partito da Messina, dopo una misteriosa tappa a Ragusa era giunto a Istanbul. Questo viaggio, certamente a conoscenza delle autorità spagnole, si inquadrava in un complesso dialogo tra la Spagna e lo Stato Ottomano. In questo sottile gioco la famiglia Cicala svolgeva una parte di rilievo, avendo stabilito una sorta di triangolazione, una diplomazia parallela a cui partecipava segretamente anche il Papa Clemente VIII per il tramite dei nipoti gesuiti del Cicala residenti a Messina.

 

Nel luglio 1594 Sinan Pascià salpava da Istanbul con una flotta ragguardevole; dopo un avvio sfortunato a causa di una epidemia a bordo ed una tempesta che distruggeva un paio di galee, giungeva di fronte alla città di Messina. Inviava alle autorità una ambasceria, chiedendo di poter rivedere la vecchia madre, ma non veniva accontentato. Gli giungeva anzi voce che la madre ed i fratelli erano stati incarcerati. Iniziava pertanto a devastare la costa calabra, saccheggiava Bovalino, Careri, Ardore ed, avendo gli spagnoli evacuata la città di Reggio Calabria, la metteva a ferro e fuoco. Dopo un provocatorio sbarco di giannizzeri presso Messina e l’incendio dimostrativo di un mercantile nello stretto, si dirigeva dapprima verso Taranto e poi ripiegava a sud in direzione di Malta. Il suo rientro ad Istanbul non fu trionfale: il Sultano era deluso dalla assenza di consistenti successi militari e lo accolse con freddezza. Il Cicala, vittima delle fazioni e degli intrighi di corte, cadeva in disgrazia, e la successiva morte di Murad III determinava la sua destituzione da Kapudan Pascià. In seguito fu allontanato momentaneamente dalla capitale e confinato in Anatolia. Ma l’Impero Ottomano attraversava un periodo critico; le tensioni che intercorrevano tra spahi e giannizzeri minavano la disciplina dell’esercito, che subiva una serie di sconfitte nella guerra con l’Austria. Non stupisce perciò che il Cicala venisse richiamato nelle fila ottomane. Nel giugno 1596 partiva con il Sultano contro l’impero austriaco, nell’intento di risollevare il disastroso andamento del conflitto e restaurare l’obbedienza e la combattività delle truppe. In questa occasione giocava un ruolo decisivo. Quando ormai il sanguinoso scontro pendeva dalla parte imperiale, al punto che il Sultano fuggiva con la propria guardia, il Cicala appostatosi assieme ai giannizzeri ed altre truppe scelte attendeva impavido l’irruzione degli imperiali nel campo turco. L’imboscata riusciva perfettamente e le sorti della battaglia vennero così rovesciate dalla iniziativa del Cicala, il quale, se pur con ingenti perdite per entrambe le parti, coglieva il più grande successo della sua vita. Il 27 ottobre il Sultano, felice dello scampato pericolo, riconoscendo al Cicala il merito della sortita e della impostazione stessa della battaglia, staccava solennemente, di fronte all’esercito schierato, il preziosissimo airone dal proprio turbante e donatoglielo, lo nominava primo Visir, al vertice della gerarchia ottomana. Con i suoi nuovi poteri, Sinan Pascià si impegnava per porre termine alla diffusa indisciplina dell’esercito e al costante stillicidio delle diserzioni. Ma le misure adottate, caratterizzate da eccessiva durezza e crudeltà delle punizioni, si rivelarono inefficaci e alla lunga controproducenti. La parte avversa al Cicala, ben rappresentata alla corte ottomana, si rafforzava e persuadeva Maometto III, incostante nelle sue decisioni, a togliere al Cicala la carica di Visir e a confinarlo nuovamente in Anatolia, ad Aksehir, con l’incubo di essere assassinato dai suoi nemici.

 

Come scrisse un cronista dell’epoca “molto ricco, di grande ingegno e abilissimo nel divider i suoi nemici” Sinan Pascià riusciva ancora una volta a superare la crisi, uscendo indenne da una situazione per lui rischiosa. Riguadagnata la fiducia del Sultano, veniva dapprima nominato governatore della Siria e in seguito, nel 1598, Kapudan ovvero comandante in capo della flotta. Nel luglio dello steso anno lasciava Istanbul a capo di una spedizione navale nel Mediterraneo, organizzata con l’intento di ristabilire l’autorità della Porta sulle reggenze barbaresche nordafricane. Questa volta però il Cicala era spinto anche da una motivazione personale: il desiderio di rivedere l’anziana madre residente a Messina. A tale fine, stazionava con la flotta ottomana vicino Reggio Calabria, e avviava i contatti che lo collegavano, a causa del ruolo suo e della famiglia di origine, alla Spagna. Poteva così rivolgersi al viceré di Sicilia, Duca di Maqueda, al comandante delle galee stanziate a Messina, Don Pedro de Leyva e alla madre, esponendo il desiderio di vedere quest’ultima. Così scriveva ai familiari “…son partito…et più non vi ho visto. Desideria…prima della morte vederve…si voi amati me come io amo voi, cercati di haver licentia.”

 

Il consenso del viceré a questo incontro non tardava a giungere, confermando l’ipotesi dei buoni contatti di Sinan Pascià con le autorità spagnole. L’episodio ebbe una notevole risonanza: la flotta schierata salutava con una rumorosa salva di cannoni l’arrivo a bordo di Lucrezia e degli altri parenti del Cicala. Seguivano abbracci, riconoscimenti, scambio di doni.

 

Sul contenuto del commosso e riservato colloquio tra madre e figlio i cronisti contemporanei indugiarono ampiamente; la vicenda storica si innestava nelle opere di scrittori quali Luigi Natoli o F.A. Brockhaus, che pubblicò nel 1840 il romanzo “Scipio Cicala in vier banden”. Dopo questa breve parentesi destinata a restare nelle cronache e ad essere materia per innumerevoli racconti, il Cicala con la sua armata navale si dirigeva verso Gozzo, dove tentava senza successo un attacco. Riusciva meglio a Tunisi, dove sbarcava per sedare una rivolta che serpeggiava in città. Dopo uno scontro non favorevole con vascelli inglesi ed aver scortato alcuni galeoni provenienti da Alessandria, rientrava infine a Istanbul nel gennaio 1599.

 

Nella capitale ottomana ritrovava la consueta atmosfera di intrighi. Al tempo la sorte di molti dignitari risultava spesso precaria; la sua posizione nella gerarchia ottomana era causa di polemiche ed insidie da parte dei rivali. Sinan Pascià aveva comunque imparato ad affrontare le antipatie e gli umori variabili dei potenti: finanziava lavori di pubblica utilità ed elargiva consistenti donazioni per la costruzione di moschee, madrase, opere pie. Era munifico anche con autorevoli esponenti del Serraglio, ottenendo in tal modo una prestigiosa nomina nella provincia greca per il suo primogenito Mahmud.

 

Nel luglio 1599 salpava da Istanbul a capo di una squadra navale di circa quaranta galee.

 

Questa spedizione che, considerata la potenza navale dell’Impero Ottomano e le capacità del suo arsenale marittimo, non rappresentava uno sforzo bellico considerevole, avrebbe potuto invece assumere caratteristiche degne di rilievo, in grado di condizionare il futuro corso della storia. L’ammiraglio Cicala, dopo aver sparso ad arte la voce di un possibile attacco alla città di Lanciano, ed avere toccato alcuni porti nell’Egeo, entrava con la flotta nel golfo di Squillace, posizionandosi dinanzi a Stilo. Tale segretezza era necessaria per preparare uno sbarco di truppe a supporto della rivolta scaturita dalla predicazione del frate domenicano Tommaso Campanella, che in quei giorni infiammava la terra di Calabria. Questo disegno ardito nasceva nel clima di rinnovamento spirituale suscitato da Campanella, il quale aveva delineato nella sua opera più famosa, intitolata “La città del sole”, la creazione di una repubblica teocratica e comunitaria. L’intento perseguito da Sinan Pascià era ambizioso ma possibile: unirsi alle forze ribelli e cacciare gli spagnoli. A tal fine una fitta corrispondenza ed incontri si erano precedentemente svolti tra Murat Rais, comandante subalterno del Cicala, e Maurizio Rinaldi, capo politico della rivolta. Questa trattativa era stata agevolata dalla numerosa colonia di calabresi convertiti residenti a Istanbul. Questo ad ulteriore dimostrazione dei fitti legami che si intrecciavano nel Mediterraneo tra popoli cristiani e musulmani. La politica della Sublime Porta si sarebbe così saldata alle speranze delle plebi meridionali che lottavano contro la miseria e alle aspettative dei nobili e del ceto intellettuale che sfidavano l’oppressione spagnola. Gli eventi si svilupparono in modo diverso da come auspicavano i fautori della ribellione. Stavolta le autorità spagnole si mossero in modo insolitamente tempestivo e spietato per reprimere. Indagini, arresti ed esecuzioni ebbero carattere meramente preventivo e intimidatorio. I fedeli del frate domenicano patirono condanne pesantissime e i capi dei moti incontrarono una triste sorte a causa di una repressione tanto cruenta quanto indiziaria. Il mondo cattolico tirava un sospiro di sollievo: la temuta alleanza tra le “armi turchesche” e l’eresia di Tommaso Campanella al momento era scongiurata. Nessuno, pertanto, attese la flotta ottomana ancorata dinanzi la costa ionica; il Cicala, probabilmente ignaro del naufragio delle speranze delle popolazioni calabre, rientrava quindi a Istanbul. Per qualche tempo il Kapudan sembrava non godere molto credito presso la Sublime  Porta: la stanchezza e l’età pesavano. Gli venivano affidate per le sue spedizioni poche decine di galee; invano il Cicala invocava il comando di una flotta di almeno cento navi. Quando però nel 1601 scoppiava la rivolta degli spahi, estesa alle stesse guardie del palazzo, e le vite di eminenti personalità del serraglio e della stessa Sultana madre erano in pericolo, il Cicala agì con fermezza. Accompagnato dal muftì si recava nella moschea di S. Sofia dove i ribelli si erano radunati, e tentava coraggiosamente di placarli. Non avendo avuto successo, trattava separatamente con i giannizzeri e riusciva a farli desistere dalla sedizione, mediava quindi con gli spahi e persuadeva il Sultano a riconoscere alcuni loro diritti. Il Cicala si poneva, ancora una volta, come difensore dell’ordine e della difesa di quell’impero di cui da tempo aveva abbracciato la fede e i costumi. La corruzione dilagante, l’indisciplina delle truppe e le defezioni delle province, erano comunque sintomi preoccupanti e anticipatori di rovina. La freccia si librava ancora alta, ma non sarebbe trascorso molto tempo perché il dardo, esaurita la forza propulsiva, avrebbe modificato la sua traiettoria verso il basso e dato inizio al lento ed ineluttabile declino dell’Impero Ottomano. Al momento l’ammiraglio Cicala era ancora influente, e continuava le sue azioni diplomatiche, giovandosi dei buoni contatti della sua famiglia di origine, residente a Messina, con la corona spagnola. In tale contesto si inseriva l’investitura per il fratello Carlo del ducato di Nasso, gli incontri ad Istanbul con i fratelli Carlo e Vincenzo latori di ambascerie da parte del Papa Clemente VIII e l’ospitalità che il Cicala concesse al frate domenicano Dionisio Ponzio, seguace del Campanella, fuggito dal carcere e riparato ad Istanbul. Le sue indubbie capacità non riuscirono però a salvarlo dai tragici eventi che si stavano verificando nell’Impero. In Ungheria la guerra riprendeva cruenta, Aleppo e Damasco erano sconvolte dai tumulti dei giannizzeri, rivolte contro le autorità turche scoppiavano alla Mecca e nella zona del Mar Rosso. Grave era la situazione militare con la Persia, e il Cicala, suo malgrado, veniva incaricato dal Sultano di assumere il comando dell’esercito. Faticosa e lenta fu la marcia dei soldati turchi attraverso la Cappadocia: i problemi con i rifornimenti e l’indisciplina minavano l’efficienza delle truppe. Sinan Pascià doveva fronteggiare un esercito persiano superiore per effettivi e galvanizzato da una serie di successi. La successiva disfatta ad opera dello Shah Abbas avvenne dinanzi al lago di Urmia e confermava la debolezza dell’armata turca e il rovescio delle sorti del Cicala, il quale si rifugiava a Diyarbakir, città del quale era governatore il figlio Mahmud.

 

Qui nel febbraio del 1606 sopravveniva infine la morte. Il sultano Ahmed I, avido delle ricchezze accumulate dal Cicala e dimentico dei suoi servizi, a tale notizia provvedeva repentinamente ad incamerare i suoi beni, compreso il magnifico palazzo che si trovava in una zona di Istanbul che da lui prendeva il nome (Cagaloglu). Questi atti non comportarono comunque la caduta in disgrazia della famiglia. Il figlio Mahmud, destinato a brillante carriera, rimaneva governatore di Diyarbakir, ed in seguito di Cipro, Trebisonda e Pascià di Baghdad. Così come un altro figlio, Husseyn Bey, che sarà poi nominato governatore di Chio.

 

La vicenda umana di Scipione Cicala ha interessato in passato scrittori e studiosi quali Giovanni Sagredo, Tommaso Costo, E. Alberi, G.B. Von Hammer, Gaetano Oliva, Salamone Marino, Ilario Ranieri, F.A. Brockhaus e N.A. Colonius. Al momento, purtroppo, constatiamo scarso interesse verso esperienze di “confine” come quella offertaci dal Cicala, uomo di indubbie capacità, che pur vivendo pienamente la sua fede musulmana e la sua appartenenza ottomana, dialogava quando possibile ed opportuno con l’Europa cristiana. La vita avventurosa di Sinan Yusuf Cigalizade è un buon esempio per tutti. Una ennesima prova dei contatti e delle aggregazioni realizzati fra popoli mediterranei, estranei per indole e cultura alla visione primitiva ed oscura dello “scontro di civiltà”.

 

 

Writer : shervin | Comments Off on Scipione Cicala, Ammiraglio dell’Impero Ottomano Comments | Category : Al-Qantara

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