La rivitalizzazione della filosofia islamica nel periodo safavide (M. Mohahiqq)

La rivitalizzazione della filosofia islamica nel periodo safavide 

Dr. Mehdi Mohahiqq*

 

Nel 1986, quando apparve a Teheran il lavoro ‘Un Commentario alla Metafísica nel Libro Al-Shifa’ di Avicenna’ scritto da Mulla Mahdi Al-Naraqî’, sorprese l’attenzione prestata da un giurista a temi propri della filosofia quali quelli dell’esistenza e della non-esistenza. Simile sorpresa destò a New York, nel 1977, la traduzione della ‘Metafísica’ di Sabszowarí, filosofo iraniano del secolo XIX.

La ragione di tale sorpresa è che molti studiosi occidentali ed islamici, sono convinti che la filosofia islamica, iniziata nel secolo IX con Al-Kindi, si sia conclusa con Ibn Rushd, più noto come Averroè, filosofo andaluso del secolo XII. Invece, nonostante l’opposizione degli Ahl Al-Sunna alla filosofia, questa fiorì e si sviluppò nei centri sciiti di studi religiosi. Infatti, durante il periodo Safavide e negli ultimi 400 anni, sono sorti in Iran molti pensatori, alcuni dei quali furono fatti conoscere da Corbin e Ashtianí grazie alla loro opera ‘Anthologie des philosophers iranians depuis le XVII.e siecle jusqu’a nous jour’.

Ma quale fu il motivo del declinare della filosofia nei centri di studi islamici dell’Ahl-al-Sunna? E attraverso quali strade gli studiosi sciiti rivivificarono la filosofia islamica? Mîr Dâmâd (m. 1641) provò a risolvere la maggiorparte dei temi per i quali i filosofi furono condannati come eretici, ovvero: la questione della pre-eternità o contingenza del mondo. Egli introdusse il concetto di ‘al-Hudûz al-Dahrî’ ovvero il “pervenire all’esistenza attraverso un perpetuo divenire”.

La filosofia greca perse il favore dei musulmani per diversi fattori. Primo fra tutti, coloro che tradussero dal greco all’arabo le opere di filosofia erano cristiani, poco familiari con tali temi e non in grado di trovare termini adeguati ad esprimere certi concetti. Tradussero parola per parola e conseguentemente profondi assunti filosofici persero il loro senso reale e non trovarono corrispondenza nei concetti islamici. Ben diversamente Al-Biruní tradusse Pantayali dal sanscrito in arabo, riuscendo ad adeguare la traduzione al contesto dei concetti islamici, tanto che Al-Tabrisi, nel secolo VII, lo elogiò, comparando il modo con cui al-Biruní presenta nel Pantayali la liberazione dell’anima dalla oscura prigione del corpo, con certe preghiere che i musulmani innalzano con tale proposito. Hunain Ibn Is’haq, traduttore di Galeno, confessa che alcune traduzioni erano così difficili che egli preferì ritradurle, piuttosto che correggerle. Pertanto, i musulmani non conobbero mai il vero aspetto della filosofia greca.

Il secondo fattore fu l’attacco condotto da al-Ghazali ai filosofi nel suo ‘Tahafut Al-Falâsifa’ e la relativa accusa d’eresia. Anche al-Qiftî sostenne che Al-Farabî e Avicenna, investigando la dottrina di Aristotele, commisero la stessa infedeltà del loro maestro. Ibn Rushd invece affermò che un filosofo è come un giurista e che le sue conclusioni su temi filosofici possono essere giuste o meno. Dunque, così come un giurista non viene condannato per l’erroneità delle sue conclusioni, anche un filosofo non deve essere maledetto e condannato per eresia. Ma l’opinione di Ibn Rushd non servì a nulla, ed il suo tentativo di conciliare Hikma e Sharî’a fallì. Prevalse la convinzione che saggezza greca e dottrine coraniche avessero criteri opposti e molti studiosi si dedicarono alla dimostrazione della superiorità di queste ultime. Esempio di ciò è il ‘Taryi Asalîb Al-Qur’an ‘ala asalîb Al-iunân’ di Yamanì.

Dall’altro lato, gli ismailiti, oggetto della critica di Al-Gazzali nel suo ‘Fada’i al-Batinîia’, erano contrari alle posizioni di Al-Farabî e Ibn Sinâ, per rispetto dei Califfi Ismailiti. Nasir Khusrôw, propagandista ismailita, affermava che la sapienza di Socrate e Platone non era niente di fronte alla conoscenza degli Imam Fatimidi e Ismailiti.

I teologi musulmani ortodossi, che credevano che sia la materia che la forma del mondo fossero create, criticarono sia i filosofi che affermavano che materia e forma non sono create, sia quelli più moderati che sostenevano che la forma è creata mentre la materia originale non lo è. Dunque, l’oggetto degli attacchi di questi teologi erano filosofi come Al-Farabî e Ibn Sinâ.

Inoltre, lo stile filosofico di Al-Farabî e Ibn Sinâ era ben più difficile per gli studenti di filosofia. Solo quando Bahmaniar, discepolo di ibn Sinâ, scrisse il ‘Kitab Al-Tahsil’ e Al-Lawkarî scrisse il ‘Kitâb Baián Al-Haqq’, la filosofia dei due Shaikh risultò più comprensibile agli studenti. Ad al-Lawkarî è rimasta la fama di aver diffuso la filosofia nella regione del Khorasan.

A causa di questi fattori, Ibn Naya Irbilî, morendo, disse: “Dio Altissimo è la Verità e Ibn Sinâ è un bugiardo”, e un altro disse: “Quelli che impazzirono leggendo il Kitab Al-Shifa’ muoiono nella religione di Aristotele, mentre noi moriamo nella religione del nostro profeta al-Mustafa”. Si attribuì persino una falsa genealogia al termine ‘filosofia’, che significa “amore per la sapienza”, dicendo invece che essa era un miscuglio tra Fall e Safah, che significano ottuso e stupido.

Furono i filosofi sciiti iraniani a modificare questa situazione e far si che teologi, interpreti del Sacro Corano e giuristi apprezzassero la filosofia e nelle scuole e nei centri di insegnamento tradizionale si studino ancora oggi le opere di Ibn Sinâ. I pensatori più importanti di questo gruppo sono Mîr Dâmâd, Mulla Sadrâ, Faisz Kashanî, Lahiyî e Sabszowarî.

Questi utilizzarono il termine hikma in luogo del termine greco filosofia. Il termine hikma è un concetto-chiave coranico e nella nostra scuola di pensiero lo si conosce come al-Hikmah al-Muta’alia, che significa “La Sapienza Trascendentale”. Essi erano molto orgogliosi di essere conosciuti attraverso questo nome, perché Dio ha detto: “Egli dà la Sapienza (Hikma) a chi Egli vuole, e a chi è stata data la Sapienza, è stato dato un gran bene.” (Cor. 2, 269).

Al principio del suo ‘Sharhi Gurâr Al-Fara’id’, Sabzsowarî dice: “Ho posto la Sapienza Trascendentale in versi, quella stessa Sapienza che è chiamata ‘Un gran bene’ nel Corano”.

Poiché il Corano dichiara che Dio concesse la Sapienza (Hikma) a Luqmân, non era possibile confrontare i concetti di religione e sapienza, come si è fatto nel caso della filosofia. Pertanto, in questo nuovo contesto, nessuno potè dire, come Nasir Khusrow, che “la religione è zucchero e la filosofia oppio”, poiché non si può opporre hikma e religione. La Scuola della Hikma collegò gli antichi filosofi greci con le fonti Divine, rimettendosi per questo alla dichiarazione di Al-Amirî Al-Nishapurî che disse: “Il primo a cui si attribuisce la Sapienza è Luqmân, di cui Dio dice: ‘…e, certamente, Noi demmo a Luqmân Sapienza’.” (Cor. 31,12). Egli visse ai tempi del profeta Davide.

Si dice che il greco Empedocle frequentava Luqmân e apprendeva dalla sua sapienza. Un altro greco descritto come un saggio era Pitagora che in Egitto frequentava i compagni di Salomone figlio di Davide. Dopo di lui, un altro greco considerato saggio fu Socrate, che ricevette la sua sapienza da Pitagora, limitandosi però alle sole Scienze Divine. Dopo di lui, Platone, che era di nobile stirpe ed eminente fra essi. Dopo Platone, ci fu Aristotele. Questi fu maestro di Alessandro Magno, il Dhul Qarnain del Corano. Aristotele studió con Platone circa venti anni per ottenere la sua sapienza.

I filosofi della scuola Al-Hikma portarono anche il Corano e l’Hadith in appoggio ai loro argomenti filosofici. Per esempio, Mîr Dâmâd, nel suo ‘Kitâb Al-Qabasât’, riguardo alla questione della contingenza del mondo, introduce la dottrina di al-Hudûz al-Dahrî, riferendo le sue quattro ‘Tesi’ (qabas) ai versetti coranici ed agli hadith, per appoggiare i suoi argomenti.

Basandosi su questa elaborazione e sugli sforzi della Scuola di Al-Hikma, Mîr Dâmâd potè chiamare Platone ‘Afflatún Al-sharîf’ (il nobile Platone) e ‘Afflatún Al-Ilahî’ (il divino Platone) e chiamare Aristotele ‘Mufid Al-Sina’a’ e ‘Mu’allim al Mashsha’in’. Fu facile per lui chiamere Al-Farabî ‘Al-Shâikh Al-Mu’allim’ e Ibn Sinâ ‘Al-Shâhikh Al-riiasí’ e riferirsi ad ambedue chiamandoli ‘al-Shaikhân’ (i due Shaikh), dando loro lo stesso rango che i fuqahà usavano per Sheikh al-Mufîd e Sheikh al-Tusî, i due grandi ed eminenti giuristi sciiti.

Dunque, i filosofi sciiti iraniani della Scuola di Al-Hikma, rivitalizzarono la filosofia islamica, liberando i filosofi dall’accusa di eresia e dando continuità alla tradizione filosofica fino ai nostri giorni. Tra loro, Seyyed Mohammad Baqir Al-Huseinî, meglio conosciuto come Mîr Dâmâd, si eleva con la sua imponente figura e le sue opere e teorie sono studiate ancor oggi con attenzione dagli studenti dei centri di studi islamici di tutto il mondo.

 

* professore di Filosofía Islamica all’ISTAC di Kuala Lumpur (Malaysia)

 

Traduzione a cura di Islamshia.org © È autorizzata la riproduzione citando la fonte

Writer : shervin | Comments Off on La rivitalizzazione della filosofia islamica nel periodo safavide (M. Mohahiqq) Comments | Category : Il pensiero islamico

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