Islam e avventura
Quella che ci accingiamo a fare è una semplice riflessione, senza velleità di alcun tipo: ci siamo sempre chiesti perché nell’immaginario moderno l’avventura sia percepita quasi sempre come appannaggio esclusivo dell’uomo senza Dio. Certamente senza Dio erano gli affascinanti eroi dei romanzi di Jules Verne, meravigliosi nell’etica e nell’estetica, ma sostanzialmente mossi dall’idolo delle magnifiche sorti progressive di positivistico conio. Ma parliamo di un modello, che seppur iconico, appartiene ad un’era oramai da noi lontana anni luce, soprattutto in virtù dello scompiglio portato nelle coscienze europee dall’immane carnaio della Grande Guerra. In effetti è da quella fatidica data che irrompe nell’animo europeo, in tutta la sua virulenza, un irrazionalismo ed un nichilismo che impronteranno lo spirito dell’avventuriero (inteso come uomo d’avventura) negli anni a venire. Già covanti sotto le macerie del naufragio morale della Belle Époque, codeste pulsioni di sfrenato vitalismo legate ad un’intrinseca mancanza di significato, di un esistenzialismo tragico fondante la sua ragion d’essere in un superomismo gioiosamente disperato, divamparono nell’incendio estetico della congerie umana tra le due guerre, influenzandone indelebilmente il profondo sentire.
È da lì che prende forma la figura dell’avventuriero come affermazione di un superego proclamante sé stesso tramite l’eccezionalità esperienziale, per sovrastare i silenzi assordanti del non senso. Con Heidegger l’uomo si fa progetto di vita gettato sull’orlo di un abisso, con Nietzsche egli si fa corda tesa tra la scimmia ed il superuomo sovrastante l’abisso, con Bergson si trova ad affrontare il fiume impetuoso di una vita che scorre probabilmente verso l’abisso, dunque l’abisso come unica certezza. Una certezza che alla fine si presenterà, in tutta la sua sanguinaria voluttà divoratrice, nelle tempeste d’acciaio del 14/18, nelle tanatocrazie dei totalitarismi a venire e nel vuoto acido e dissolvente della vittoriosa ed ipocrita sovversione democratica. Ed ecco figure meravigliose come Gabriele D’annunzio e la sua vita opera d’arte, ecco la tragica ricerca di senso di André Malraux nelle soffocanti giungle dell’Indocina, ecco la sofferente inquietudine di tutti gli antieroi giramondo in cerca di sé stessi, superuomini fondanti il senso sul proprio ego e su un’effimera affermazione di volontà di potenza che, per un attimo, annichilisca l’abisso incombente.
Da qui, l’erronea percezione dell’avventura, e della vita vissuta come rischio peregrinante, come antitetica all’adorazione di Dio poiché… chi adora Dio necessita di stabilità; anzi, è già egli stesso stabile in una credenza che si fa fede; egli è privo di inquietudini e tormenti in quanto tutto sa, ed in quel tutto confida. Il credente non è interessante: è noioso, e tale sarà anche la sua vita. Da qui il binomio religione-borghesia, radicatasi soprattutto nella percezione degli spiriti inquieti nostrani in fuga dai salotti per bene e dalle pastarelle della domenica. Poiché essi, traditi da un’istituzione sacra che abdicò, già in pieno Ottocento, all’audacia del tormento per radicarsi in uno spirito da travet del buon senso, si trovarono a dover preferire nessuna risposta piuttosto che una risposta dal sorriso condiscendente dell’uomo flaccido, al sicuro nel comodo tepore delle proprie certezze. E così, lentamente, la religione prese ad allontanare da sé i migliori, gli inquieti, i poeti dell’anima, i cercatori di verità, i reietti di un mondo di cui satana è il principe, per abbandonarli alla disperata poesia di un bel gesto che, tragico e struggente, è destinato a perdersi come l’increspatura sulle onde del mare.
Chi non ha vissuto questo tormento? Chi non ha percepito la religione come un torpore da cui risvegliare i sensi vitali? Chi non ha avvertito la prassi morale come un lento indebolimento dell’istinto vitale che rende mansueti come buoi condotti al macello dell’ignavia? Ma quanto codesta visione è falsa e falsata! Ed ecco l’Islam: semplice, come è semplice ogni uomo d’azione; profondo, come lo è l’animo di chi prende decisioni irrevocabili; netto, come chi è abituato a non tentennare mai, neanche di fronte alla morte. Questo scomodo intruso, questo alieno dei giorni nostri, questo straniero del mondo moderno irrompe sulla scena della storia e delle singole coscienze urlando la sua frase semplice, profonda e netta: “Allahu akbar”… Dio è grande!
Ogni giovane europeo irrequieto ne è rimasto colpito, se non conquistato. Poiché la sua morale, la sua prassi è una disciplina dura e virile che sviluppa i muscoli dello spirito, li rende flessuosi e pronti alla lotta, ed al contempo intaglia il corpo e lo bulina come un bastone da battaglia. Lo prepara ad affrontare mille esperienze, lo addestra al sacrificio ed all’audacia, lo mette in condizioni di affrontare qualunque percorso. E poi c’è la parola di Dio, il nobile Corano: una parola santa che invita alla lotta, al coraggio, all’azione nobile ed audace, alla scelta difficile, ad intraprendere le strade non battute; una parola che ti interpella, ti invita al rischio; quel rischio senza il quale la vita non ha sapore alcuno. E la moschea diviene raduno di fratelli, condivisione tra amici, palestra di sogni e avventure, tutte condivise ed offerte all’Altissimo. E l’inquietudine diviene inquietudine di non saper amare veramente Dio; il tormento è il tormento del soldato che vuole in ogni modo compiacere il suo Re; la libertà è il dominio di un’anima e di un corpo che, forti ed umili, possono affrontare con gioia ferro e fuoco, poiché la vita non ha fine. Il vitalismo allora, innervato dell’amore divino, sarà un fiume che scorre, non verso l’abisso dell’annichilimento, ma verso gli oceani dell’Eterna Beatitudine guadagnata col sacrificio e con l’amore.
I giovani musulmani abbandonano le loro case, le loro scuole, i loro divertimenti e, uniti ai loro fratelli, partono, come gioiose compagnie di ventura, a raddrizzare le ingiustizie contro la Umma e gli indifesi, in qualunque parte del mondo ciò avvenga. Essi accorrono tra i gelidi monti, nei deserti, nelle giungle e nei pianori; sudano, cantano, pregano e muoiono. Muoiono giovani? Sì, ma con un carico di ricordi che rifulgeranno agli occhi di Dio come un’abbagliante collezione di inestimabili pietre preziose poiché, come dicevano gli antichi, chi muore giovane è gradito al Cielo. E gli anziani? Anch’essi partiranno in difesa dei fratelli, zoppi, stanchi, doloranti, ma forti di una disciplina che insegna l’audacia mai disgiunta dall’amore. Essi saranno pellegrini o combattenti; comunque, un giorno, d’un tratto partiranno… e la loro vita, magari monotona sino a quel momento, si tramuterà repentinamente in una farfalla dai mille colori… miracoli dell’Islam! Ed i meravigliosi sapienti li incitano a ciò, li invitano a mantener vivo, sempre e comunque, uno spirito di mobilitazione, poiché la fede è sostanzialmente continua e ininterrotta emigrazione; in essa non vi è comodità ma rischio e santità.
Andiamo avanti per fascinazioni ma, ci domandiamo, in questo senso, quale può esser il contributo di un giovane o meno giovane europeo alla causa dell’Islam? Bella domanda. Possiamo solo dire che, quello spirito inquieto caratterizzante i nostri avventurieri può trovare in esso, non solo risposta, ma humus perché esso sbocci come candida rosa di gioia e vitalità. Perché i nostri futuri esploratori, cercatori, sperimentatori e audaci di ogni risma agiscano nel nome di Dio. Perché Achab catturi Moby Dick nel Suo nome e mosso dall’inquietudine di piacerGli e di compiacerLo; perché le nostre vite diventino opere d’arte plasmate dalla Sua santa mano, nei cieli, nei mari, nelle giungle e nelle steppe. Poiché Egli creò il creato affinché lo esplorassimo, poiché Egli ci creò diversi affinché ci conoscessimo, poiché anche gli inquieti sono Sue creature e, ad oggi, la parola che più di tutte le altre risponde a codeste inquietudini di vita e di lotta è quella del nobile Corano; poiché egli scelse come archetipo di tutti noi un uomo inquieto e dalla vita ricca di avventure; un uomo le cui esperienze non potrebbero essere immaginate neanche dal più abile dei narratori. Egli scelse come nostro capitano il più coraggioso degli uomini: il Profeta Muhammad (S). E con questo ci ingiunse di essere come lui: capitani coraggiosi! Capitani coraggiosi alla guida di un equipaggio di audaci che diano l’assalto alla vita con l’urlo di battaglia più bello che si possa immaginare: “Allahu akbar”… Dio è grande.