Dell’Eguaglianza (prima parte)
Roberto Ruhollah Arcadi
È nostro intento precipuo occuparci, in questo scritto, del secondo dei tre celebri vocaboli, abominati od esaltati, secondo i casi, i quali compaiono sulle bandiere insanguinate della Rivoluzione Francese, con il proposito di trattare in seguito, a Iddio piacendo, anche della “fraternità”, dopo d’avere già detto in passato della “libertà”. Per quel che riguarda quest’ultima, ci permettiamo dunque di rimandare i lettori al nostro precedente scritto dello stesso titolo (1).
È dopo d’avere esaminato il significato e contenuto di questo termine equivoco, da un lato sotto il rispetto del fraintendimento moderno o modernista, dall’altro sotto quello tradizionale, vale a dire, della sapienza rivelata dei Nunzi divini, per quanto ciò sia possibile alle nostre forze modeste, ci accingiamo a trattare del secondo di quegli equivoci e fraintendimenti, vale a dire, di quell’”eguaglianza”, pretesa anch’essa sotto un riguardo affatto inferiore e derivato, comunque inautentico da un punto di vista eminente.
Equivoco sul quale si fonda peraltro la nozione ancora più astrusa e più confusa, in definitiva priva di ogni significato, di “volontà popolare”, la quale la fa da padrona nel mondo contemporaneo, in quanto coacervo preteso di presunti “eguali”, com’è che vedremo qui appunto in seguito, esaminandone la realtà di fatto, dopo d’averne preso in considerazione il significato verbale, essendo questi due ultimi argomenti intimamente legati tra loro.
Quello che ci preme ora di premettere, è che, assai significativamente, nella lingua araba, che noi attribuiamo per eccellenza all’eminenza della Rivelazione Divina, questo vocabolo non è dato, per lo meno espressamente. Abbiamo il prefisso “ĸa”, usato nel Sacro Corano ad esempio nel confronto tra retti e corrotti, e tra timorati d’Iddio, sia magnificato ed esaltato, e libertini (XXXVIII, 28), cosi come nel Du°ā’ Kumayl in quello tra credenti e corrotti. Termine che peraltro significherebbe più propriamente “simile”, non “eguale”.
Così come abbiamo “miŧla”, in modo avverbiale, ma nel senso del nostro “simile”, laddove invece “qiyās” esprime più propriamente il confronto, con la conseguente apposizione, o proporzione. Ripetiamo che tutto questo, lungi dall’avere un’importanza meramente verbale, è invece sommamente significativo. Facendo indubbiamente riferimento ad una realtà di fatto riconosciuta ed accettata, e ad una non riconosciuta e non accettata, a differenza degli occidentali.
Il fatto è, che anche nella lingua latina “aequalis”, così come “aequuus”, ha a che vedere più propriamente non con l’identità, ma invece con la giustizia, intesa come proporzionale o distributiva, usando il linguaggio della Scolastica, vale a dire sotto il riguardo di una corrispondenza qualificativa ad un sostrato d’essere, non di quella meramente commutativa, che non tiene invece conto se non dell’astratto dare ed avere, a prescindere da ogni previa dignità.
Così come nell’antica lingua ellenica “omoios”, così come “omos”, quest’ultimo con una qualche accentuazione, ha il significato, specialmente nell’uso omerico, il più originario, più di simile che di eguale, tanto che quest’ultimo avrebbe senso più al vertice che in basso, com’era per gli spartani, in quanto distinti dal volgo dei sottomessi, ma mai del tutto identici tra loro, mentre l’uso tardo di “omos”, nel senso d’“identico”, avrà riscontro nella dottrina trinitaria.
Qualcosa di simile a quello che avviene nel tedesco per “gleich”, ed “ähnilch”, dov’è difficile distinguere tra “eguale” e “simile”, a dispetto della ricchezza espressiva di quella lingua. Ora il senso di eguaglianza, nel senso di pura identità, estrapolato e sovrapposto a quello originario di “equità”, è in effetti un assurdo puro e semplice. Perché nell’essere non ci sarà mai eguaglianza tra diversi, ma semmai unità ed identità originarie e trascendenti.
Per il resto, l’eguaglianza è insussistente, frutto di mera astrazione: due esseri eguali sarebbero la stessa cosa, ovverosia un solo essere, laddove invece due equità sarebbero in rapporto ad esseri differenti. Diciamo qui esseri, e non enti, per evitare arbitrarie estrapolazioni quidditative, a prescindere in questa sede da una discussione minuta dei relativi significati. Laddove dunque si dica d’eguaglianza, non si sa per nulla in effetti, che cosa s’intenda significare.
Non certo qui, in questo nostro basso mondo, si avrà un solo essere, né tantomeno s’intenderà così riferirsi comecchessia al dominio della trascendenza, a qualsivoglia suo livello d’unità. Ogni essere sarà dunque contraddistinto da un suo peculiare fondamento di sue proprietà particolari, non essendovi dunque così giammai due essere “eguali”, sotto entrambi i riguardi, del sostrato e delle qualità. Pretendendone l’eguaglianza, non si farà dunque se non ingannare, o per ignoranza colpevole, oppure per malafede.
È in questo modo dunque, che l’unità non potrà essere se non quella proporzionale suddetta, a prescindere da ogni astrazione indebita, vale a dire il corrispondersi di proprietà e di sostrati, nel senso che a differenti estensioni d’essere, corrisponderanno diverse qualità e diversi atti, in senso operativo, non formale. Che soltanto così, con un linguaggio traslato preso a prestito dal mondo dei numeri, potranno corrispondersi, similmente alla seconda delle due progressioni numeriche, nel senso che saranno in questo modo eguali solamente i rapporti d’inerenza, non i singoli complessi esistenziali.
Così come anche, per parte sua, la giustizia distributiva, o proporzionale, sarà definita da una corrispondenza d’attribuzione alla dignità del singolo essere, che ne renderà eguali solamente i relativi rapporti, dove l’uguaglianza viene ad essere solamente qualcosa d’astratto, non di sussistente. Ci si perdoni quest’apparente digressione. Il fatto è, che sulla pretesa e presunta, ma insussistente eguaglianza degli esseri umani si fondano tutta una serie di abusi e di equivoci, dalle conseguenze le più incresciose.
È qui peraltro necessario premettere tutta una serie di necessari chiarimenti. L’eguaglianza al giorno d’oggi tanto millantata davanti alla legge, come non fosse esistita prima, a prescindere da ogni increscioso stato di fatto, non fa che confermare le nostre considerazioni precedenti. Che le leggi siano eguali per tutti, da quelle di Mosè, la pace su di lui, a quelle di Zaleuco di Locri, a quelle romane delle XII tavole, o di Licurgo a Sparta, o di Solone ad Atene, non significa certo che tutti gli esseri umani siano o debbano di per sé stessi essere uguali.
Che essi debbano essere eguali davanti alla legge, non significherà che gli essere umani siano tutti eguali nel loro essere. “Ad ognuno abbiamo assegnato una via”, recita il Sacro Corano (V, 48), come anche “Vi sono gradi presso Iddio” (III, 163). Ma come sarà dunque che, stando così le cose, la legge è una? Il fatto è che la Legge Rivelata, o tradizionale, nulla ha a che vedere con le astrazioni tanto conclamate dell’illuminismo e del razionalismo moderni e contemporanei. Il risultato sarà affatto differente, nell’uno e nell’altro caso.
Queste sono finzioni mentali, quella una realtà che procede dalla trascendenza, apprendendosi in quanto tale a qualsiasi livello dell’essere, alla molteplicità ed alla complessità del creato tutto. Perché il Principio è Uno (S. C., CXII, 1), ma la sua profusione è molteplice, laonde si avrà a questa stregua un procedere da una semplicità indistinta, ad una distinta ed identica, ad una distinta non identica e non separata, ad una distinta e separata.
La Legge Rivelata procede dapprima da Iddio Altissimo, Ne sia esaltato l’Essere, costituendone il Verbo, l’actus dicendi, l’atto del Suo dire, il suo palesamento ai suoi vari livelli, essendone dunque, sempre ai suoi vari livelli, il segno dell’ascesa, il Suo significare eminente, che costituito che abbia ogni essere, gli consente inoltre d’intraprendere le vie per salire a Lui (S.C., LXX, 3). Dunque dalla discesa creativa, ai vari tratti successivi dell’ascesa attuativa iniziatica.
Essa non sarà una qualche mera estrapolazione mentale arbitraria, a prescindere dal suo fondamento “in re”, nella cosa stessa, oppure un’invenzione che pretenda di uniformare il multiforme, in tutta la sua complessità, riconducendolo ad un’esistenza solo larvale. Nulla di tutto questo. Essa è invece realtà, realtà eminente, a vari livelli d’attuazione, in quanto diretta processione divina, della quale il creato tutto si fa e depositario e latore.
Avendo essa peraltro un corrispettivo personale di palesamento, un suo peculiare supposito, che l’assume e l’articola in sé identicamente nel suo complesso, oltre il singolo particolare, essendone il supporto dell’essere, nella dottrina imamita il Nunzio divino ed i suoi Successori, o piuttosto, i XIV Puri dell’immediato fulgore divino, donde procedono le luci degli Inviati e degli Approssimati ulteriori che, nella loro particolare funzione, ne espletano il fungere.
Dunque realtà, cui corrisponde la realtà stessa degli uomini e del mondo, a prescinderne dal tralignamento, nel suo senso eminente di aspetto dominicale della realtà creata, come dall’Imam Ķomeynī nelle sue note a Qaysari e ad Ibn Arabi. Seppure non prescindendo, siccome già dicevamo, dall’altro suo aspetto, da quello effettuale, che viene a costituire anch’esso, nel senso del legame tra la trascendenza normativa esistenziale e la singola effettualità creata.
Viene dunque sfatata, in questo stesso modo, la sciocca leggenda modernista della pretesa “eteronomia” della legge, vale a dire, della sua differenza irriducibile nei confronti degli esseri umani, tanto propalata dall’ignoranza moderna e contemporanea dell’Occidente tralignato, che presenterebbe o d’opporla ad una legge di natura a sé stante, non coincidente con quella promulgazione, con la sua appendice razionale, identificata indebitamente con l’intelletto.
Od addirittura d’opporle l’arbitrio umano, razionale o no ch’esso sia, secondo una linea che avrebbe un suo capostipite nel Tocqueville, nel secolo XIX dell’era volgare, già aspramente biasimato dal Rosmini. Che prese già allora a modello delle sue elucubrazione insensate, che stabilivano che la giustizia e la legge fossero mero frutto dell’arbitrio, quel mondo anglosassone, specie nella sua variante nord americana, divenuto l’esemplare stesso di quella contro legge arbitraria, sovrapposta persino a quella pretesa di natura.
Provenendone l’abominio infame di quei moderni “diritti dell’uomo” (2), quali vennero assunti per bandiera dalla Rivoluzione Americana prima, e da quella Francese poi, ed in seguito dal consesso framassonico delle nazioni senza Iddio, sia magnificato ed esaltato, vale a dire dalle Nazioni Unite, autentico, orrore, sentina di quasi tutte le nefandezze contemporanee, che si tenta d’imporre ad una disgraziatissima umanità, oramai senza intelligenza e senza via.
Andando così egli a buon diritto annoverato tra i padri ignobili di quell’informe ed immondo liberalismo, o democratismo liberale, oggigiorno apparentemente trionfante in quasi tutto il mondo nella sua forma estrema, precorritrice di altri disastri, dopo d’essersi appropriato indebitamente della nozione, e del fatto, della libertà, del quale diremo qui di seguito, confrontandolo con gli altri due errori capitali moderni, il comunismo ed il fascismo.
Il fatto è che la legge, lungi da costituire quell’imposizione arbitraria da risolversi o mediante il ritorno rousseauiana ad uno stato di “natura pura”, in definitiva bestiale e scevro da leggi, o dall’arbitrio utilitario dei pretesi rappresentanti della cosiddetta “volontà popolare”, dei parlamenti “democratici”, rappresenta invece, come già dicevamo, l’aspetto formale e qualificativo dei livelli superiori dell’essere, nella loro discesa dalla Fonte dell’essere. Perché sempre, come avevamo già detto, “Vi sono gradi presso Iddio”.
Livelli superiori ciascuno dei quali contiene in sé, ad un livello di maggiore unità e semplicità, quello e quelli inferiori, ognuno dei quali ne costituisce l’immagine debilitata esistenzialmente, come dalla dottrina dell’intensificarsi e dell’affievolirsi dei livelli rispettivamente ascendenti e discendenti dell’essere in Molla Sadra (3). Il livello superiore è intensivamente, per così dire, più ricco di essere, nel senso del “tašdīd”, del “rafforzamento” sadriano, tanto che, per questo medesimo sovrappiù, quel che è inferiore, è in lui identificandoglisi.
La legge sarà dunque sostanza superna, come recita l’Imam Ķomeinī, che discende di livello in livello sino a fissarsi nel cuore del Nunzio divino, nel centro del suo essere (S.C. II, 97), donde quel che ne promana in forma sensibile, e dei suoi Eredi e Successori, come già detto prima, o più in generale, di tutti i Puri sue scaturigini, comprendendovi Fatima, la pace su di lei, supposito della purità trascendente, e tutti quanti gli Inviati e gli Approssimati.
Tutti raggi della medesima luce personale, a cui si antepone e sovrappone solamente quella Divina, “Luce si luce” (S. C. XXIV, 35). Sarà dunque ovvio in primo luogo, che non s’avrà nessuna pretesa “eteronomia”, nessuna differenza irriducibile. Essendo anzi l’Imam la guida esterna, identica nella sua sostanza a quella guida interna, come recita un celebre detto del Käfī, la quale costituisce l’aspetto dominicale, intimo e trascendente dell’essere umano, di là dai vincoli e dai limiti di quello servile ad esso sottoposto.
Risulterà evidente in secondo luogo, com’è che l’eminenza dell’unità trascendente sopraordinata della Legge non violi il principio suddetto dell’indistinguibilità degli eguali, essendovene in primo luogo in ciascun essere subordinato un riflesso peculiare, derivante dalla semplicità e dall’unità trascendenti, che ne costituiscono il cuore della promulgazione esterna, così come essa ci viene data nella Legge Divina Rivelata. Perché la legge è una, ma i suoi sottoposti invece sono molti, la pluralità stessa degli esistenti.
Ricordando che la sua unità è quella della persona visibile e della luce trascendente sottesa alla persona visibile che se ne profonde. Essendo dunque Alì, la pace su di lui, com’è stato detto alla battaglia di Siffin contro Muhawia, cosi come ciascuno dei Puri, a procedere dell’eminenza dell’Inviato d’Iddio Altissimo, il “Corano Loquente”, vale a dire, vivente e sensibilmente manifesto, il verdetto divino, per Sua Volontà essenziale, senza nessuna cesura o tramite, contrariamente a quanto pretendevano i Ķarigiti e Muhawia.
Sarà dunque evidente, a questo medesimo riguardo, tutta l’infondatezza della pretesa di fondare la presunta “eguaglianza” degli esseri umani sull’unità della Legge Rivelata, a prescindere, dall’altro canto, da quella mera petizione di principio, per cui essa deriverebbe da quella medesima legge astratta ed arbitraria, pretesa naturale, oppure meramente elucubrata ch’essa sia, la quale invece procede appunto da quella eguaglianza presupposta.
Dicevamo dunque che, sotto il riguardo della dottrina dell’essere, vale a dire, nella natura stessa delle cose, l’“eguaglianza”, l’“egalitè” dei francesi, della loro rivoluzione nefasta, da loro subita e da loro imposta, non esiste minimamente. Senza che si abbia qui, quello che accadeva invece per la libertà, laddove si aveva un assunto illegittimo di un fatto del tutto legittimo, com’è peraltro per la legge nei suoi vari casi, in cui venga assunta o no nel suo giusto verso. Trattandosi qui di realtà, e non di mere astrazioni e finzioni.
Trattandosi della vicenda, della quale trattano magistralmente Guénon ed Evola, dell’inversione del segno e del significato nel mondo moderno e contemporaneo. Per cui si finisce col riferire a realtà corporee od addirittura irrealtà infere, entità eminentemente significative, la cui radice prima è da ricondursi alla trascendenza, ai suoi vari livelli, secondo l’assunto delle dottrine sapienziali, dell’aspetto dominicale, più o meno nascosto, delle realtà create, per la qual cosa vedi ancora l’Imam Ķomeynī qui di sopra citato.
Si tratta così di crearsi una mera “realtà di sogno”, colpa della quale si è fatto sovente carico a quanti non si uniformassero, seppure in un modo distorto e parziale, come vedremo qui in seguito, alla mondializzazione imperante. “Realtà di sogno” che è il fondamento di quanto viene su di essa edificato, vale a dire, il mondo delle insussistenti, pretese “libertà democratiche”, e della “volontà popolare”, la “democrazia”, che dir si voglia, peculiari del pensiero e dell’azione liberale contemporanea, apparentemente trionfante.
Pensiero dicevamo dunque. Perché si tratta qui di meri assunti mentali, i quali astraggono anche da quella produzione fattuale del mondo presunta dal pensiero “idealista”, vale a dire, del prodursi dell’essere in varia maniera, soggettiva o no che sia, da un elemento ad esso sovraordinato. Sia esso il singolo soggetto umano di Berkley o di Kant, oppure il mero nulla estrapolato dall’essere nella stessa guisa dell’essere infimo indefinito, sottostante ai sussistenti ed alla stessa materia prima, al quale s’identifica, di Hegel.
Quello che qui è rimarchevole, è che questi assunti menatali avranno un loro aspetto fattizio, essendo peraltro fondati su di una situazione di fatto, in un procedere circolare. Perché l’eguaglianza, seppure non sussistendo di fatto, nondimeno avrà un suo appiglio effettuale nelle condizioni di questo nostro basso mondo. Sicché in una certa misura, non verrà più a trattasi di una mera impossibilità ed inconsistenza, ma di una realtà, che andrà valutata per quel che è.
Dove assistiamo ad un proceder regressivo di qualificazione, vale a dire, ad un impoverimento di quello che è il contenuto d’essere dell’esistente, corrispettivo alla discesa sadriana dell’essere dalle vette della trascendenza, che andrà in un qualche modo ad essere partecipe di quell’unità ed identità invertite e caricaturali di quel nulla puro, nel cui verso esso procede, il quale, nella sua indefinitezza dequalificata ed inconseguibilità, verrà a darne l’illusione.
Andando questa dequalificazione intesa nel senso dell’essere, non delle apposizioni separative aristoteliche, accidentali o no ch’esse siano, vale a dire, nel senso dell’esistente, ovverosia della composizione dell’essere limitato col nulla limitato, procedenti l’uno dall’essere, l’altro dal nulla puri. Nel caso dunque della discesa dell’esistente, che qui non discutiamo, non dandone ragione nei suoi particolari, quello che assumerà sempre maggior rilievo sarà dunque l’aspetto numerico, oppure quantitativo della realtà effettuale.
Non sarà il caso, in questa sede, di discutere della discesa creativa, alla quale corrisponde la discesa della vicenda transeunte di questo nostro basso mondo dalla plenitudine adamica originale, espressione limitata della plenitudine della luce muhammadica. In una catena di antecedenze causali occasionali, che portano ad un sempre più compiuto e provvidenziale esternarsi della Legge Rivelata, e del suo latore, in una vicenda di successivo perfezionamento, contraltare della decadenza umana, e suo rimedio ineludibile.
Perfezionamento ostensivo di una plenitudine trascendente, il quale culmina nella pienezza del palesamento della luce muhammadica, tale da a dare all’essere umano una compiutezza di mezzi capace di affrontarne la decadenza estrema sì, ma nient’affatto irrimediabile. Alla quale farà da dunque corrispettivo, per suo tramite, non il “progresso”, ma l’ascesa iniziatica dei quattro viaggi dell’intelletto alla trascendenza, attuativo della sua realtà, anche se non produttivo, nel suo presupporre la previa discesa creativa.
Alla perfezione maggiore del palesamento della legge, con la sua persona, dei due carichi, che andranno assieme sino al Giorno del Giudizio, per sfociare nella plenitudine della Sorgente Divina, farà dunque da corrispettivo l’impoverimento di una sostanza umana, sempre più bisognosa di strumenti apparentemente esterni, in realtà radicati nella sua natura adamica originale. Natura così debilitata ed occultata, ma giammai obliterata, com’è invece pretesa dei Protestanti, dalla successiva discesa del circolo delle vicende umane.
A conferma della dottrina cattolica della “rettitudine originale” adamica, nella pienezza dei doni divini, corrispondente al deposito coranico della fede (XXIII, 72) dei nomi (II, 31), ed al riconoscimento primordiale della signoria divina (VII, 172). A cui consegue la caduta dovuta quello che è detto impropriamente “peccato originale”, a conferma della discesa dell’uomo primordiale, e dell’impoverimento, non dell’annichilazione, dei suoi doni previ, la qual cosa verrà a richiedere un intervento sempre maggiore della grazia divina, senza che abbia ad esserne leso l’arbitrio, come pretendono i Protestanti.
Discesa che, come dicevamo, ha come correlato necessario la discesa esistenziale complessiva, contenendo di diritto la natura umana ogni essere, com’è che attesta Molla Sadra, confermato da Guénon, a manifestare la totalità dell’esistente, ma nell’onnipotenza e nella benedizione divine atte ad esaltare l’infimo nel supremo, così come aveva rigettato il supremo nell’infimo, come recita il sacro Corano (XCV, 4-5) a palesare la pienezza del creato.
Ora dicevamo appunto, che nella discesa l’aspetto d’indifferenza quantitativa tenderà ad imporsi, pur senza potere mai prevalere, a prezzo della sua mera annichilazione. Due quantità potranno essere uguali soltanto apparentemente, nella maniera di due misure di uno spazio preteso vuoto, di fatto inesistente, così come di due mere unità, in senso numerico, nel senso dell’unità che accoglie accanto a sé unità differenti, non dell’Identità, od Unità Suprema.
Dove sarà da osservarsi, che quest’eguaglianza sarà sempre un’estrapolazione da condizioni distintive, e per lo spazio, e per il numero, laddove l’uno e l’altro siano indebitamente assunti di per sé, ma solo mentalmente, come già riconosceva correttamente a suo tempo Aristotele, vale a dire, astratti che siano dalle condizioni distintive reali, ma non nel senso del denudamento dagli annessi limitativi, nel verso della purificazione iniziatica.
Due quanti uguali dunque, estrapolati non solamente dal loro stesso ambiente, ma dalla stessa indistinzione prima loro sottesa, com’è per i quanti di Plank e della quanto meccanica, oppure per le particole, per di più puntiformi, immaginate incoerentemente da Newton siccome vaganti nel vuoto. Oppure per quelle astrazioni numeriche e spaziali, riconosciute indebitamente da Galileo per alcunché di affatto reale in sé stesse, identificandole indebitamente con i principi trascendenti produttivi del mondo.
Facendo così confusione tra l’astrazione mentale, ed il denudamento iniziatico, vale a dire, la trascendenza realizzativa, che libera dai limiti esistenziali, conducendo al Principio dell’essere. “Per questo governo sei solo un numero”, viene voglia di ripetere, essendo i numeri, a prescinderne dal più e dal meno, in quanto tali eguali, anche se, pure nel caso loro, non assolutamente, dato che per esistere in quanto tali, qualche distinzione dovranno averla.
Uomini eguali dunque, o pretesi tali, vale a dire, ridotti ai minimi termini astrattivi nel verso della mera insussistenza esistenziale. Non più persone latrici di una plenitudine discendente creativa particolarizzata, ma invece individui, nel senso della specie ultima indivisibile inadeguata, solo formalmente tale, assunta indebitamente di per sé stessa, ovverosia maschere del vuoto, del nulla preteso originario, com’è appunto per la dottrina massonica dell’ascesa dal nulla primordiale, com’ebbe ad osservare acutamente Evola.
Ed è appunto quest’uomo minimo, ridotto ai minimi termini, quand’abbia a considerarsene la corrispondenza con il soggetto della discesa esistenziale, che si arroga tutto. Attribuendosi persino dei diritti, primo fra tutti il diritto di governare, o piuttosto, di governarsi, contrariamente agli assunti della Politeia platonica. In effetti, sarà qui che entrerà in gioco una trasposizione, o meglio, un’ulteriore assunto arbitrario insussistente, quello dell’insieme degli eguali.Verrebbe qui voglia di ricordare, non soltanto per satira, la famosa “congiura degli eguali” di Babeauf, al tempo della Rivoluzione francese.
Ma il fatto più sconcertante sarà, che qui non si tratta più solamente di un delirio d’eguaglianza non realizzato, come fu quello, ma piuttosto di un qualcosa che, a suo modo, viene pienamente attuato. Attuarsi che procede da due termini complementari, la condizione regressiva dell’uomo contemporaneo, da un lato, dall’altro l’azione malefica d’intelligenze luciferiche invertite e caricaturali, com’ebbe a dire l’Imam Ja°far, la pace su di lui, a proposito di Muhawia, che vi si appoggino per realizzare il loro piani perversi.
Dicevamo dunque persona, ben distinta dall’astrazione di per sé insussistente dell’“individuo”, della specie indivisibile od atoma, inadeguata perché la sua natura specifica sarà di non essere affatto specie, che significativamente non ha corrispondente esatto in arabo, la lingua della Rivelazione. Non essendo presente neppure nell’antica lingua ellenica, dove “ipostasi”, ha il senso di “persona”, o più propriamente, “supposito”, o “sussistenza”.
Non essendo questo significato presente neppure nell’antica lingua latina, se non in tempi tardi postclassici, avendosi dapprima un senso aggettivale, più che sostantivato, riferentesi ad esempio in Cicerone agli “atomi”, alle particole supposte indivisibili di Democrito ed Epicureo. Avendo solamente più tardi, nell’ambito della Scolastica, assunto il seguente significato, come succedaneo dell’aristotelico “sinolo”, la pretesa completezza dell’esistente limitato, completo solo quanto alla quiddità astratta, che esso farà sussistere, non alla trascendenza.
Specie inadeguata dunque, dicevano gli scolastici, fondata sulla separazione e la differenza, di per sé vuota di contenuto, in quanto tale appunto “eguale”, ma contraddittoriamente irriducibile ad identità, sia a quella in senso stretto dell’essere, che a quella caricaturale del nulla, anche svuotata che la si sia d’ogni suo contenuto, tanto da non ridurvisi se non nella guisa della dissoluzione compiuta, rinunziato ch’essa abbia anche alla sua parvenza d’essere.
E vale qui la pena osservare, com’è che nel mondo contemporaneo tanto si ciarli di questo individuo, in una guisa abusivamente e surrettiziamente interscambiabile con l’essere umano, inteso non più in riferimento all’Uomo Perfetto trascendente, profusivo, ed onnicomprensivo, ma nel senso di uno svuotamento esistenziale, che lo riduce sulla soglia dell’essere indeterminato, l’“esse simplex” di Tommaso d’Aquino, contrapposto all’“esse perfectum”.
Essere che sarà o solidale, od anche identico a quella materia prima, che Molla Sadra considerava quanto di più vicino al nulla puro, tenuto conto della sussistenza non astrattiva di questa, e dell’astrazione di quello.Quello che peraltro è rimarchevole, nelle concezioni moderne e contemporanee, è che ci si trova sempre dinnanzi ad un coacervo d’“eguali”, con sfumature orientate in definitiva nel verso della dissoluzione compiuta, non certo dell’essere.
Quello che è perspicuo in un siffatto modo d’intendere, è che questo medesimo elemento, preteso e presunto “eguale”, pretenderà di essere il principio del tutto, scaturigine di rapporti e d’inerenze varie, prima fra tutte quella per cui esso diviene appunto un “tutto”. Ora il rapporto tra gli “eguali”, o presunti tali, sarà meramente immaginario, o mentale, almeno al loro medesimo livello d’esistenza, o d’inesistenza. Nulla che abbia a vedere con un’esistenza di fatto.
Sarà questo peraltro sempre il vecchio errore di “assimilazione”, od “analogia”, già condannato dall’Imam Ja’far, la pace su di lui. Per cui si procede da un particolare ad un particolare oppure ad un tutto, a prescindere da un principio superiore semplicemente inclusivo e deduttivo, qui con l’aggravante dell’insussistenza di fondo dell’elemento principiale, che non viene assunto in rapporto alla sua scaturigine, ma doppiamente di per sé, e quanto alla sua origine, e quanto alla conclusione che successivamente se ne trae.
Due enti eguali giustapposti e separati, per arbitraria che ne sia l’esistenza di fatto, al loro medesimo livello dell’essere verranno ad avere un rapporto meramente immaginario e mentale, com’è peraltro che essi stessi saranno meramente immaginari, come già dicevamo, dato che non sia possibile, sempre al loro stesso livello d’esistenza, stabilire qualcosa che li unisca. Questo naturalmente mercé di un’estrapolazione arbitraria, che li separi dai livelli sopraordinati dell’essere, tenendo questi ultimi arbitrariamente in non cale.
Essendo questo un asserto di Molla Sadra, quanto all’insussistenza di un tutto di separati, valendo la cosa sia in generale, sia nella fattispecie nel caso dell’“individuo”, ovverosia dell’“atomo”, perché è questo appunto il significato di siffatto abusato vocabolo nell’antica lingua degli Elleni, vale a dire, “indivisibile”, oppure “indiviso” in sé stesso, non quanto ad altro. Giacché la suddetta separazione d’individui sarà risolta, oppure non sarà risolta. Non risolta che sia, essa darà luogo a tutte le previe difficoltà esistenziali.
Risolta ch’essa sia, avremo un’unità, anche se ai suoi diversi livelli, dalla mera giustapposizione spaziale e corporea, limite ultimo della separazione sulla soglia stessa del nulla puro, sino alla distinzione delle sostanze trascendenti non materiate, dette “separate” quanto a questo nostro basso mondo, al configurarsi dell’essenza unica nell’identità stessa dei suoi predicati, sulla soglia dell’Essenza Suprema, i nomi e gli attributi divini in quanto tali, quindi una, non riducibile ad un molto se non per estrapolazione subordinata.
Ora questo coacervo d’individui, non risolto che sia, non presuppone nessuna unità, che non sia meramente immaginaria od accidentale: il “popolo sovrano”, quanto per rifarci nel dominio umano, ad un’espressione usitata ed abusata presa dalla vita pubblica. La cosiddetta “volontà popolare” sarà il risultato meramente numerico, quantitativo, ed accidentale, di un coacervo insussistente d’insussistenti, o piuttosto, come già dicevamo, verrà ad essere un assunto meramente immaginario, senza nessun riscontro nella realtà di fatto, coacervo che viene preso come norma direttiva della vita umana.
Alla quale faranno da corrispettivo i pretesi diritti di quei singoli, assunti a loro volta per norma, correlativa o no ch’essa sia, ammesso che qui si possa dire ancora di “norma”, dato che quest’ultima debba essere in un qualche modo costitutiva, oppure almeno conservativa, mentre quei diritti individuali, mercé della loro insussistente scaturigine, saranno invece meramente dissolutivi, dato che essi provengano da un non essere, non da un essere.
Va inoltre osservato, come la separazione suddetta, che darà luogo a quel conseguente ente immaginario, al coacervo d’“eguali”, viene a far posto, come anche in molti altri ambiti accessori del mondo moderno e contemporaneo, quali ad esempio le sue convinzioni cosiddette “scientifiche”, ad un nulla, niente affatto relativo. Perché il nulla non produrrà se non il nulla, sotto il riguardo delle sue conseguenze varie, fatta salva la sua inconsistenza che, rovinando in sé stessa, lascerà il campo all’essere.
Il fatto è che l’“atomismo” di Democrito e di Epicuro non venne mai preso sul serio dagli antichi, lasciando il posto a dottrine di ben altro livello speculativo ed esistenziale. Ammesso che non si trattasse di un mero espediente rappresentativo, atto a fondare, ma solamente a posteriori, nel senso di una conseguenza, e non di una premessa, una morale pretesa indipendente, ad extra, quanto al mondo esterno, ma che nondimeno faceva pur sempre riferimento ad un livello di trascendenza sussistente nel dominio pubblico, tramite il contatto col sopramondo dal quale traeva in definitiva le sue leggi, com’è per Cicerone.
Così come potrebbe essere anche per certe antiche dottrine indù consimili, potendo le une e le altre fungere, per assurdo apparente, da contraltare negativo di una concezione complessiva dell’uomo esulante da un mondo annichilito di natura. Culminante nel primo caso in una cosa pubblica ad esso sopraordinata ad un livello di trascendenza subordinato, nondimeno in contatto con sovramondo; nulla che abbia in effetti a che vedere con la pretesa concezione degli “eguali” assunta siccome supposito insussistente del nulla.
Mentre per gli indù, potrebbe trattarsi invece dell’aspetto di nullità della profusione divina, quello per cui le determinatezze fisse esemplari, culmine dell’esistenza, come recitano taluni sapienti musulmani, “non hanno il profumo dell’essere”, dato il loro comporsi con il nulla, presupponente dall’altro canto l’essere stesso, un essere relativo e contratto, identificato a vari livelli ed in vario modo col nulla, contratto oppure puro ch’esso sia. Gli atomi null’altro sarebbero, se non l’attestato dell’aspetto della nullità dell’esistenza.
Il fatto è che qui invece, nel caso degli “eguali”, non ci troviamo più immersi in quel vuoto, in quella insussistenza che il patrizio, od anche il popolano greco o romano riempivano della consistenza esistenziale della cosa pubblica, o che per il sapiente indù poteva rappresentare una riduzione all’assurdo della negazione della profusione divina nel suo aspetto di non essere, quanto piuttosto invece all’opposto, in un qualcosa di fondamentale e di costitutivo. Senza che né nell’uno, né nell’altro caso il vuoto venga ad avere un ufficio fondante, nel senso di essere produttivo di un mondo, o del mondo.
In effetti il vuoto degli atomi di Democrito non li costituisce, non ha nessuna funzione esistenziale nei loro confronti, nel senso che qui essi non procedono ancora dal nulla, oppure dalla materia prima, all’essere. Non volendo qui noi considerare il senso delle dottrine esiodee, per cui l’essere ordinato veniva a prodursi dal disordine informe preteso primordiale, trattandosi forse di un residuo di precedenti tralignamenti esistenziali, con il loro riscontro dottrinale, i quali avevano portato, dall’eminenza originaria, al tralignamento di cui Platone, la Bibbia, ed il Sacro Corano, e le tradizioni dei popoli antichi.
È del tutto consequenziale dunque, il fatto, che in quel vuoto preteso primordiale, in quanto elemento fondante e costitutivo, siano inserite ed immerse, venendone come impregnate, le varie particole dell’eguaglianza umana, quand’anche ad esse si pretenda di dare, in un senso affatto simile, un significato meramente corporeo, siccome di mera assenza di materia, come nelle moderne scienze della natura, invece che di sostanza umana, com’è invece nel primo caso.
Il fatto è che, sia nell’uno, sia nell’altro dei due casi suddetti, non saremo più alla presenza di quel nulla relativo sussistente, da definirsi solamente quanto a degli esseri relativi e definiti anch’essi, ma invece dinnanzi alla pretesa di un nulla puro, assoluto, almeno per supposito e congettura mentale, la quale viene poi arbitrariamente proiettata nell’esterno dell’esistenza, a dispetto della sua mancanza di sussistenza, com’è per altri assurdi.
Tenendo peraltro anche conto, del fatto, che il nulla non esisterà di per sé a nessuno dei livelli dell’esistenza creata, corporea o no ch’essa sia, non essendovi se non gli esseri, che li faranno pregni della loro stessa essenza definita, particolare od individuata che sia, senza un nulla che venga a frapporvisi a modo d’interstizio, e senza neppure in nulla, com’è che osserva inoltre Molla Sadra, che abbia ad inserirsi come soluzione di continuità tra i vari livelli dell’essere.
Stando così le cose, ad un singolo livello dell’essere il nulla sarebbe in effetti assenza non dell’essere di quel livello, ma dell’essere stesso, dato che a quel livello quell’essere sia l’essere, senza pretendere che lo si sia riempito dal di sotto o dal di sopra, dal nulla o dall’essere. Dato che ogni mondo abbia ad essere di per sé, pur senza prescindere dalla profusione divina che prende il posto, di per sé e con le sue produzioni, dell’inconsistenza assoluta del nulla, che le cede il passo: l’essere è, il non essere non è, per dirla con Parmenide.
Ora in questo modo, come dicevamo, siano essi particelle corporee, od individui umani, oppure le cariche elettriche della “nuova” scienza, umana e naturale, in realtà vecchia come l’inferno, anche se giammai primordiale, in particolare quella dei conduttori deboli e delle relative correnti, all’origine di tanti presenti abomini, essi se ne stanno immersi in questo nulla, sguazzandovi a caso, come le particole indivisibili, gli “atomi” di Democrito. Essendone questa, siccome già dicevamo, la realtà di fondo costitutiva.
Di proposito diciamo “fondo”, senza riferirsi ad alcunché di superiore, come un culmine od un fastigio di superiore scaturigine. In questo fondo in effetti galleggiano, dissoluzione pura di una mera privazione d’essere, com’è per Hegel quanto alla pretesa “mente divina” prima che creasse il mondo, le particole degli “eguali”, non solo quelli di Babeuf. Essendo questo loro ambiente non un luogo avventizio, ma una pretesa insussistenza costitutiva, che potrà darsi senza di loro, ma senza che essi possano invece darsi senza di questa.
Lo spazio era ancora per Aristotele un accidente locale, insussistente di per sé stesso, senza giungere in nessun modo a nessuna sostanziazione, tanto che egli giungeva correttamente, grazie a quest’assunto, a negare il vuoto, sempre di per sé, non come astrazione mentale, l’unica realtà che gli competa. Ora abbiamo invece una pretesa sostanziazione, che come si ribella, pretendendo di farla da sostanza invece che da accidente, come invece le competerebbe nella realtà delle cose, eccettuato il caso dell’astrazione mentale.
Quello che Kant reputava errore di sostanziazione quanto alla sussistenza di per sé stessa dell’anima umana, era dovuto al fatto di non accettare la facoltà di visione presenziale trascendente, riducendo l’uomo alla sensibilità con l’appendice razionale. Rifiutando inoltre i livelli sopraordinati dell’essere, anche sotto il riguardo argomentativo, per poi sostanziare lo spazio tra le forme sussistenti a priori della sensibilità previe alle sue cosiddette “categorie”, sostanziandolo così indebitamente ed arbitrariamente, nel modo suddetto, vale a dire, anche qui nella guisa di un antecedente costitutivo degli esistenti.
Questo a dispetto delle apparenze, o delle pretese prove sperimentali in contrario, che pretenderebbero di presentarci lo spazio vuoto della scienza di Newton, mutuata da quelle astrazioni numeriche galileiane, le quali finiscono col confondere l’astrazione mentale, le “intentiones secondae” degli scolastici, sia pure con un loro fondamento nella cosa stessa, con la trascendenza, che libera invece dai limiti dell’insussistenza corporea nullificante.
Diciamo di un vuoto, il quale in realtà al nostro livello dell’esistenza non sarà se non nulla, dato che esso ne neghi la realtà, senza nessuna comunicazione, almeno velleitariamente, con i livelli sopraordinati dell’essere, del significato, della dominazione, e della potestà, tanto per attenerci ai rispettivi termini arabi “ma°anā”, “malakūt”, e “jabarut”. Dato che in ogni caso, la negazione ne significherebbe il trasporsi o nell’essere o nel nulla, coi loro annessi.
Questo vuoto sarà in definitiva quello delle “acque inferiori” dissolutive, in tutta la sua insussistenza, sia pure nella presenza di un qualcosa del quale esso pretenderebbe di fare le veci, vale a dire, di una materia non prima, di per sé insussistente, ma ancora formata, vale a dire essente di per sé stessa ad un livello infimo. La quale verrà ad identificarsi con il presunto spazio, in questo modo non più vuoto, ma invece pieno di qualcosa, a prescindere dalle forme ulteriori, di un fondamento non produttivo, ma nondimeno a suo modo necessario.
Che questo vuoto sarebbe poi, secondo questo modo di vedere le cose, il preteso e presunto fondo generativo dell’universo, ce lo dicono non soltanto le elucubrazioni contemporanee su stringhe o membrane, che vibrano, sempre nel preteso vuoto, producendovi le particelle elementari, nucleari e subnucleari. Valendo a questo punto la pena asserire che il vuoto così le produrrebbe in ogni caso direttamente, senza nessun intermediario dissolutivo formale, nel senso di mere forme inferiori sul limitare dell’indefinitezza.
Ma anche il fatto che, in questo modo, la fluttuazione esistenziale degli enti, delle particole create, a prescinderne dal mero modificarsi formale, non farà appunto se non dissolverle in quel presunto vuoto primordiale che ne sostiene le forme, a prescindere dagli enunciati classici di Galileo e Newton, che non se ne ponevano la questione. Per dissolversi nell’onda quantistica di probabilità, con l’introduzione dell’“operatore di annichilazione”, e della cosiddetta “antimateria”, che non avranno peraltro se non il significato di meri artifici di calcolo.
Dicevamo tutto questo, a dispetto del fatto che si tratterà pur sempre in realtà di un vuoto nel senso di una materia prima formata, come dicevamo, da identificarsi con lo spazio, discendente nel verso delle cause superiori antecedenti, non ascendente a procedere dal nulla puro. Per non dire dei vuoti di carica dei conduttori di correnti deboli, all’origine di tutti i marchingegni contemporanei nel campo delle comunicazioni, che vanno ben oltre la mera assenza di cariche elettriche, che non sostituiscono in effetti con alcunché.
Dicevamo dunque, un vuoto primordiale, quale quello che è all’origine del mondo nella Scienza della Logica di Hegel. Tutto questo nel campo delle cosiddette prese scienze di natura, sulle quali ci sarebbe molto altro da dire. Ma per quel che riguarda invece la condizione umana? Anche qui avremo gli “eguali”, quelli della Rivoluzione Francese, uno dei termini della trinità secolare dei suoi vessilli insanguinati. Ed è qui che il nostro discorso andrà completato.
Nel senso che, come dicevamo, il vuoto, od il nulla puro, o la materia prima, oppure l’essere semplice indefinito, nella loro gradazione dissolutiva, verranno a farla da termine e da principio, cosi come da sostanza e da supporto, della generazione, della dissoluzione e della sussistenza degli esseri. Sarà rimarchevole, a questo medesimo riguardo, che con ciò, contrariamente all’opinione corrente, non s’introdurrà se non un assurdo puro e semplice, che pure la fa da padrone nelle presenti convinzioni mondane.
Contrariamente alla dottrina dell’Identità Principiale dell’essere, e della sua discesa creativa, e dell’ascesa iniziatica, qui si avrà invece una produzione dell’essere, o degli esseri dal nulla, nel senso suddetto del suo vario graduarsi. In effetti, nulla di nuovo sotto il sole, essendo questa l’antichissima, anche se non primordiale, come invece pretenderebbero taluni, dottrina framassonica, anche se non stiamo qui a chiederci quand’è che abbia fatto la sua comparsa formale la Framassoneria in questo nostro basso mondo.
NOTE
1) L’autore ha trattato l’argomento della libertà in un saggio intitolato “Islam e libertà” che è possibile consultare al seguente collegamento telematico: https://islamshia.org/islam-e-liberta-r-arcadi/ . L’autore ha inoltre dedicato un altro saggio al tema più specifico della libertà d’espressione, che è possibile invece consultare al seguente collegamento telematico: https://islamshia.org/della-liberta-despressione-r-arcadi/
2) Al tema dei diritti umani l’autore ha dedicato un libro dal titolo “Dei diritti umani. Disamina di un inganno infero”, Irfan Edizioni, 2014. Il testo può essere ordinato presso la nostra Associazione.
3) Su Molla Sadra e la sua opera rimandiamo all’articolo di S. H. Nasr “La vita, le dottrine ed il significato di Sadr al-Din al-Shirazi (Mulla Sadra), arricchito da diverse nostre note critiche: https://islamshia.org/la-vita-le-dottrine-ed-il-significato-di-mulla-sadra-s-h-nasr/. Consigliamo inoltre la lettura della recensione, redatta dall’autore del presente saggio, all’introduzione di S.M. Khamenei (fratello dell’attuale Guida della Rivoluzione Islamica), all’opera Al-Mażāhiru-l-Ilayyaħ proprio di Mulla Sadra: https://islamshia.org/introduzione-agli-al-mazahiru-l-ilayyah-di-molla-sadra-di-s-m-khamenei-prima-parte/ (prima parte); https://islamshia.org/introduzione-agli-al-mazahiru-l-ilayyah-di-molla-sadra-di-sayyid-mohammad-kameney-seconda-parte/ (seconda parte).
Per leggere la seconda parte: https://islamshia.org/delleguaglianza-seconda-parte-r-r-arcadi/
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